Oltre al sonno e alla concentrazione ci sono anche altre cose che non sono state dette a nessuno.
Giornate intere che scompaiono, e brevi attimi che diventano un’eternità.

(Peter Høeg)

venerdì 21 dicembre 2018


domenica 9 dicembre 2018

"Mani sporche" di Mercedes de Acosta




Mani sporche

di Mercedes de Acosta (da Archways of Life, 1921)

Dopo che tutti erano andati via,
era sempre meraviglioso sedermi con te nel teatro buio.
C'era un mistero in esso,
come se l'eco di tante rappresentazioni
perdurasse ancora tra le pieghe del sipario,
mentre figure fantasma s'accucciavano
sulle sedie e con mani vaporose
facevano risuonare soffocati applausi.
Ricordi come ci sedevamo sempre silenziosamente?
Allora, come un rito, io lentamente
prendevo la tua mano
e tu ridevi un poco e mi dicevi:
“Ho le mani terribilmente appiccicose”, o
“Non riesco a tenere le mani pulite in questo teatro”,
come se questo importasse... come se questo importasse...




(Traduzione di Francesco Randazzo)




Mercedes de Acosta, “aquella furiosa lesbiana” (articolo su EL Pais)




giovedì 15 novembre 2018

"Sei giorni" di Stefano Valente



“Sei giorni” è una vertigine, un romanzo maelstrom che ingoia il lettore nel gorgo ineluttabile della narrazione, una trappola della mente che sgorga parole in flussi di coscienza incrociati, dentro una lingua frantumata in cento, mille pezzi, che infine si ricompongono nel finale inatteso e sconcertante.
Senza entrare nel dettaglio e, come si dice oggi, spoilerare, in sintesi estrema la storia ci racconta, attraverso il suo protagonista, del ritorno a casa di due “amici” o forse soltanto sodali, commilitoni, reduci da una distopica guerra etnica che richiama quella dell’ex Jugoslavia, ma è ben altro, viene dal passato dell'olocausto ebraico, o forse è da venire, forse sta già avvenendo, forse è il disastro bellico della Siria che l’autore ci sposta fino alla soglia di casa, non ha importanza eppure ne ha molta. Sei giorni di cammino verso casa, con i piedi e le anime straziate e sanguinanti, tra morti, tradimenti, coinvolgimenti in azioni estreme, attraverso una finta pace che ha lasciato governi autoritari, frange etniche in lotta perenne, rovine e nessuna speranza di redenzione o vera pace. Tutto si rompe continuamente, nelle visioni e nel racconto del protagonista, l’ingenuo, innocente – ma quanto davvero?
È un libro potente, arduo, pregnante, per lettori forti d’animo, disposti alla battaglia con le parole e ad essere guerriglieri della coscienza. L’autore ci vuole con sé, vuole che ci si perda con i personaggi del romanzo, fino ad assumerne le paure, le speranze, la disperata volontà di essere, e di essere giusti, pur sbagliando, in un mondo colmo di errori ed orrori, nel quale sarebbe più facile, cedere, compromettersi, con la piccola accidia che diviene complicità con il male.
Infine, si arriva, e quasi nel silenzio, con un finale straordinario, tutto si scioglie e quando l’ultima pagina, quella alla fine di tutte le parole, quella bianca dopo la fine, arriva, è come un colpo di luce, un liberarsi del respiro sospeso, con la commozione e la gratitudine per un’esistenza, la nostra, salva. Ma fino a quando?


 Francesco Randazzo

Sei giorni
romanzo di Stefano Valente





giovedì 1 novembre 2018

"Pelle di tamburo", un romanzo inedito di Gualberto Alvino

di Mariella Giammarini



e non è solo il nome della protagonista, ma potrebbe essere il titolo stesso del romanzo: ne condensa l’essenza. La congiunzione e è quella che imbastisce cose e pensieri in un mondo che non ha più ordito e può essere narrato solo come elenco paratattico; con un montaggio analogico dove nessi logici e coordinate spazio-temporali si avvolgono in un ininterrotto flusso di coscienza. Come il suo nome la lucida follia di e è paratattica; come il mondo ha smarrito ogni ipotassi, ogni gerarchia di senso e di valori. Così e e il suo dire sono una cosa, l’una non esisterebbe senza l’altro.
All’inizio ho avuto paura di trovarmi nell’imbarazzo di fronte a un testo narrativo gravato da un eccesso di consapevolezza. Capita, quando a scrivere è un filologo, un linguista, un semiologo, un critico. Quel timore mi ha accompagnata lungo le prime pagine, il tempo necessario per essere trascinata, e non solo dal ritmo del racconto. Una jam session per strumento solista. Come poi ci conferma il cap. X, la lingua, la sintassi del testo sono il testo.
Si sarebbe tentati di indulgere all’inutile gioco dei rimandi, delle citazioni (Gadda, Céline, Sterne, Joyce? soprattutto Rabelais…), ma basta sapere che chi legge fa sempre suoi gli autori che ama per non assecondare questa tentazione. Ci vorrebbe un Bachtin per esplorare il labirinto semantico, straripante di fisicità, permeato di umori corporei, dove tra lotta e amplesso non c’è soluzione di continuità e l’insaziabile bulimia pantagruelica non placa la fame esistenziale. Un Carnevale che è già Quaresima, una festa dei folli senza catarsi. Nell’iperrealismo sessuale non c’è traccia di eros, ma non è mai pornografia, solo triste anatomia. In un mondo che cancella i sogni, dove gli uomini sono bui rintanati nelle viscere della città, nel sesso si manifesta l’ultima delusa speranza di ritrovarsi umani. Un’umanità ridotta a corpi che non conoscono abbraccio, solo cavità, tumescenze, secrezioni.
Pelle di tamburo è la pelle di e; il contrario di una bambola di gomma, su di lei i colpi della vita rimbalzano in suoni, si fanno parole di rivolta, sfida nichilista e tuttavia preghiera. e è un angelo ribelle, la sua bestemmia è una preghiera inascoltata. Come Giobbe si chiede ragione, ma trova solo la sorda disattenzione di Dio. È stata maestra e, ha appreso la lezione ingiusta della vita. Nel degrado dei tuguri, nel carcere, nel manicomio e conserva una pudica nostalgia della bellezza, mentre la sfregia e si vergogna di provare pietà.
Pelle di tamburo non cerca di compiacere il lettore, ma lo incalza, riesce a farlo uscire dall’ipocrisia almeno per fargli capire che quel mondo è anche il suo, gli appartiene.
Assassina seriale, pazza, e è una cassandra che riesce a farsi ascoltare. E la sua requisitoria cosmica culmina in un maledizione biblica, inghiottita dall’alluvione del Biondo Tevere che la riconsegna al silenzio primordiale, dal quale tutto può ricominciare?

giovedì 25 ottobre 2018

"Tre lune in attesa" di Alfonso Lentini



TRE LUNE IN ATTESA
di Alfonso Lentini è l’opera vincitrice della seconda edizione del Premio Letterario Formebrevi (sezione Le Forme del Dire).

Una raccolta di acquerelli in prosa poetica, visionari, ironici, calvinianamente leggeri, ma anche surreali e onirici come un racconto di Raymond Roussel o Cortazar.
Lentini, che è anche un artista figurativo di grande visionarietà attraverso la concretezza degli oggetti, in questo libro dissemina lampi verbali di grande suggestione che sollevano il lettore oltre la narrazione in sé, verso un immaginario verbale che si apre a ventaglio e disegna nella mente percorsi inabituali, lievi e sconcertanti, quasi psicotropi; ma privi di controindicazioni, se non quella, a voler rileggere, di vedervi nascosta, attraverso la levigatissima scrittura, la nostra non meravigliosa realtà.

Francesco Randazzo


Dal libro:

TRE LUNE IN ATTESA
Al posto del monte Pelmo, portato via in fretta e furia stanotte da ignoti, si è formata una vastissima conca che sembra una bocca spalancata per lo stu- pore, una valle ancora senza nome.
Sulla valle risplendono tre lune in fila. In attesa. Però, a dar retta a certi visionari, la montagna è ancora là. Il profilo di quel massiccio che Dio avrebbe scelto come poltrona su cui riposare le sue membra smisurate, ancora risplende invisibile, inzuppato di raggi lunari. Trasparente, come tutte le cose vere.






mercoledì 24 ottobre 2018

"Infidelis peregrinatio" di Francesco Randazzo



“Nemo contra Deum nisi Deus ipse.”
(Goethe)

L’interrogazione sul cammino dell’esistenza, in questa plaquette poetica, taglia versi acuminati, a volte ironici, a volte disperati, come se attraversassero in orizzontale il tempo minimo del quotidiano e in verticale il tempo ampio della Storia, sulle orme di Aasvero, Cartaphilus, l’eterno errante. 


Coreuta sopravvissuto a morte tragedie
hai voluto sentire l'unisono tirato 
estensione mirabile dell'urlo dorico 
sospensione del tempo in cui pur visse
Tutto è perduto ora Muti i protagonisti 
eliminato il mito  resti cantore solo
ruminando archetipi insabbiati
Fischi e danzi su franti capitelli 
inneggiando imprecazioni merlate di viole
estinte  Fioriscono intorno a te pietre 
lave fredde che adesso sono larve 
Domani   

Dormi coreuta  o uomo dormi
e sogna il tuo perduto ditirambo 

Pallido sogno di reviviscenti
semidei ammalati di hybris



da Infidelis peregrinatio di Francesco Randazzo

libro disponibile su Amazon


ascolta due audiofile su Le Reti di Dedalus



martedì 23 ottobre 2018

Esilio di Rafael Cadenas

Esilio

Io che non ho mai avuto un mestiere
che dinanzi a qualunque avversario mi sono sentito debole
che ho perso i migliori titoli per la vita
che appena arrivo in un posto già voglio andarmene (credendo che spostarmi sia una soluzione)
che sono stato negato anticipatamente e deriso dai più capaci
che mi schiaccio alle pareti per non cadere del tutto
che sono oggetto di risate per me stesso che ho creduto
che mio padre era eterno
che sono stato umiliato da professori di letteratura
che un giorno chiesi come potevo essere d'aiuto e la risposta fu una risataccia
che mai ho saputo crearmi una casa, né essere brillante, né aver successo nella vita
che sono sato abbandonato da molte persone perché quasi non parlo
che ho vergogna per azioni che non ho commesso
che mi è mancato poco per buttarmi a vivere in strada
che ho perso un centro che non ho mai avuto
che sono diventato lo zimbello di molte persone perché vivo nel limbo
che non incontrerò mai chi mi sopporti
che sono stato dimenticato a favore di gente più miserabile di me
che continuerò così per tutta la vita e l'anno prossimo sarò deriso molte volte di più per la mia ridicola ambizione
che sono stanco di ricevere consigli da altri più fiacchi di me («Lei è molto tranquillo, si scuota, si svegli»)
che mai potrò viaggiare verso l'India
che ho ricevuto favori senza dare niente in cambio
che vado da un lato all'altro della città come una piuma
che mi lascio trasportare dagli altri
che non ho personalità né voglio averla
che tutti i giorni trattengo la mia ribellione
che non sono andato a fare la guerriglia
che non ho fatto nulla per il mio popolo
che non sono della FALN1 e mi dispero per tutte queste cose e per altre di cui l'elenco sarebbe interminabile
che non posso uscire dalla mia prigione
che sono stato messo da parte ovunque come inutile
che in realtà non ho potuto sposarmi né andare a Parigi né avere un giorno sereno
che mi nego a riconoscere i fatti
che sempre mi sbavo sulla mia storia
che sono imbecille e più che imbecille dalla nascita
che ho perso il filo del discorso che si svolgeva in me e non ho potuto ritrovarlo
che non piango quando sento il desiderio di farlo
che arrivo tardi per tutto
che sono stato rovinato da tante marce e contromarce
che anelo l'immobilità perfetta e la fretta impeccabile
che nonostante abbia un orgoglio demoniaco in certe ore mi umilio fino a uguagliarmi alle pietre
che ho vissuto quindici anni nello stesso circolo
che mi credevo predestinato per qualcosa fuori dal comune e mai l'ho raggiunto
che mai userò una cravatta
che non trovo il mio corpo
che ho percepito a lampi la mia falsità e non ho potuto smontarmi, spazzare tutto e creare dalla mia indolenza il mio fluttuare, dal mio smarrimento una freschezza nuova, e ostinatamente tengo il suicidio a portata di mano e mi solleverò dal suolo ancora più ridicolo per continuare a burlarmi degli altri e di me e persino del giudizio finale.


(traduzione di Francesco Randazzo)




1 Fuerzas Armadas de Liberación Nacional

giovedì 18 ottobre 2018

“Sette coccodrilli” di Armando Adolgiso


Armando Adolgiso
Sette coccodrilli”

2018

Recensione di Alfonso Lentini

"Le lacrime sono meno impegnative della risata, si muore dal ridere, mai dal piangere", scrive Armando Adolgiso; e con questa consapevolezza pubblica "Sette coccodrilli", un breve ma assai pungente volumetto (in ebook liberamente scaricabile online) dove l'ironia e il sarcasmo sono i principali ingredienti di un’intelligentissima operazione comico/concettuale che ricorda molto da vicino quella, altrettanto concettuale, di Emilio Isgrò, quando in varie mostre e pubblicazioni gioca con il problema dell'identità dichiarando di "non essere Emilio Isgrò" (e aggiungendo testimonianze in tal senso di altri fantomatici personaggi). Quella di Isgrò è a suo modo una forma di autobiografia, ma al negativo, ottenuta attraverso cancellazioni idealmente simili a quelle dei suoi celebri libri oggetto. Anche quella di Adolgiso potrebbe rientrare, sia pure paradossalmente, nel genere delle “autobiografie mendaci”. Infatti Adolgiso, stando alla lettera, non fa che parlare di sé. Ma se di autobiografia possiamo parlare, dobbiamo intenderla in senso antifrastico, in quanto qui il gioco, davvero geniale, consiste nella messa in scena di sette improbabili (eppure, paradossalmente, probabilissimi) "coccodrilli" (cioè articoli commemorativi pubblicati dopo la morte di un noto personaggio) che l'Autore immagina possano essere stati scritti dopo la sua dipartita e dunque, per così dire, “apocrifi”. Solo che ogni "coccodrillo" mostra un punto di vista straniante o stranito, attraverso cui Adolgiso svela l'ipocrisia, la retorica, la rozzezza intellettuale, la vacuità di certe tipologie umane (e di conseguenza anche di scrittura). I presunti autori dei "coccodrilli" sono: L'astioso, L'egotista, Il filosofo, L'irregolare, La modaiola, La poetessa, La scalognatrice. E sono questi esponenti di un sottobosco culturale duro a morire che prendono la parola stravolgendo dati e verità, proponendo un’immagine grottesca e caricaturale del personaggio di cui fingono di voler tessere le lodi, ma sostanzialmente mettendo in ridicolo solo se stessi. Dunque, mentre l'Autore si camuffa fingendo che a scrivere siano altri, il mascheramento si fonde con lo smascheramento. E il volumetto assume il valore di un vero e proprio pamphlet che, se ha un difetto, è di essere troppo breve, limitando soltanto a sette “coccodrilli” il complice divertimento del lettore che avrebbe potuto prolungarsi ben oltre. Ma perché solo sette? “Perché tante sono le lettere che compongono il mio nome: armando”, risponde prontamente l’Autore.
Sorpresa finale: quella di Adolgiso si rivela un’operazione quasi “balestriniaina”, se è vero che Nanni Balestrini è l’unico scrittore del pianeta a non aver mai scritto una sola parola di suo pugno, essendo tutta la sua opera (romanzi compresi) composta di collage, cioè frasi prelevate da scritti altrui. Così infatti, con furbastro candore, dichiara l’Autore nella prefazione al suo libro: “La maggior parte delle parole che seguiranno nelle prossime pagine, com’è nel mio stile, non le ho scritte io, molte sono frutto del montaggio operato fra luttuosi brani, da me collezionati nel tempo, apparsi su quotidiani e periodici; articoli di firme famose, meno famose, e pure pezzi redazionali anonimi”. Nulla di inventato, dunque. Così va il mondo, miei signori!





mercoledì 17 ottobre 2018

La pelle dell'orso


La vicenda raccontata ne “La pelle dell'orso” di Matteo Righetto è coeva all'invenzione del linguaggio“Basic” per la programmazione dei computer. È una vicenda basica che si sviluppa con una logica binaria, una cascata di zero e uno che simulano un passo dietro l'altro al ritmo perfetto di un metronomo poggiato sul pianoforte, il ritmo fermo e implacabile delle lunghe camminate in montagna.
E' un effetto straniante, leggere un testo in Basic in epoca di HTML fa rallentare il tempo e lo riporta al suo scorrere naturale, non implementato dalla velocità della connessione. Anche la realtà torna alla propria versione non-aumentata, una versione in cui prima di andare a cacciarlo non è possibile guardare un tutorial su come si abbatte un orso gigantesco. Ci vogliono diverse pagine per rientrare nei ranghi ed entrare in armonia con la narrazione di Righetto, ma poi tutto scorre come un ruscello montano felice di scendere a valle attraversando paesaggi meravigliosi, di tanto attraversando anche boschi oscuri e misteriosi popolati di creature magiche immaginarie ed altra tanto spaventosamente reale da diventare quasi mitologica, inafferrabile: El Diàol.
Se c'è una vena narrativa che scende felice a valle, ce n'è una seconda che invece risale faticosamente la china, inciampando in lutti, esperienze emotive fortissime, riti di passaggio all'età adulta e un'impresa epica al limite del credibile. È la parabola di Domenico, che nel giro di qualche giorno cresce quanto non avrebbe potuto fare in una vita intera tra banchi di scuola e professione.
È così tanta la voglia di partecipare fisicamente alla sua vicenda che come lettori ci si trova rammaricati del fatto non avesse avuto una GoPro sulla fronte per mandare in diretta Facebook tutto quanto. Invece non si può, il linguaggio Basic non supporta questo tipo di funzioni perciò bisogna affrontare la cosa per quella che è: un romanzo, non un video virale da pochi secondi. In questa differenza si configura monolitica l'autenticità della storia, che ti costringe a spogliarti di tutto per tornare Basic e potertici finalmente immergere appieno, diventando goccia di quel ruscello montano che scende a valle, verso l'epilogo.
Attenzione però.
Sulla mappa, circa a metà strada, sono segnalate delle rapide insidiose con scogli emergenti e orso affamato di carne umana. Le acque saranno vorticose e la storia si dividerà prendendo ogni pezzo un mulinello diverso, finendo sott'acqua e riemergendo, cozzando con altri vicini in una apparente confusione di schiuma, schizzi come proiettili e riflessi cristallini. Subito dopo, quando siamo ancora storditi dalla furiosa danza, le vorticose diventano placidissime come il Sile silente che scorre in pianura, tutto si placa in momenti di sospensione: troppo è accaduto in frazioni di secondo perché un essere vivente emotivo complesso e razionale possa elaborarle ed avere una reazione. Lo stallo. Si è raggiunto il punto di culmine del climax -uno pensa- di qui in avanti sarà una facile discesa fino all'ultima pagina.
Sbagliato.
Lo stallo è nel punto culmine del climax, ma nella situazione in cui il vagone delle montagne russe ha raggiunto il punto più alto della salita e non ha davanti una morbida discesa, bensì una discesa quasi verticale ad alta velocità.
Quindi via verso la fine, inseguendo la gravità o facendosene trainare, schivando i dolori disseminati sul percorso, siano quelli delle vesciche ai piedi o quelli dell'anima. La velocità è fredda in montagna e il freddo si infiltra fino dove vuole, fino a congelare i sentimenti in uno stato di indifferente coma. E per fortuna. Nessuno nel pieno possesso delle proprie capacità mentali avrebbe mai potuto affrontare un'odissea subito dopo averne conclusa un'altra, il tempo di mandare giù un boccone e riposare un paio d'ore. Roba da miti greci.
Ma l'energia che muoverà il carretto e Domenico non viene dalla manzetta al traino; il sentimento è la forza traente.
Di qui la storia procede quasi bucolica e te lo immagini questo ragazzino molto Basic che sotto una gelida luna montana compie un viaggio improbabile passando di scenografia mozzafiato in scenografia mozzafiato, il Pelmo, la Val Fiorentina, i boschi del Crot, lo Staulanza e la Val Zoldana, il Civetta, immagini anche a cosa possa aver pensato durante quelle lunghe ore, immagini quanto martirio si sarebbe risparmiato se avesse potuto scattarsi un selfie con l'orso morto e avesse potuto inviarlo su Whatsapp a Mario Crepaz, e accumuli una quantità enorme di senso di pietà che aspetti di sfogare nelle pagine che seguono.
Invece no. Un'altra volta.
Perché dietro l'angolo si presenta inaspettata una tragedia ancora più immane di quella che hai seguito fino a quel punto: il Vajont. E si presenta anche a Domenico. È ovvio un comune sentimento di pietà generale, una condivisione di questo sentimento con il protagonista che invece rimane freddo. Freni il rilascio della tua pietà perché non capisci verso chi rivolgerla: alle migliaia di morti sotto il fango o a quel ragazzino che ha vissuto una storia tragica ed è rimasto solo al mondo, tanto sconvolto da non provare pietà per chi è stato colpito dal disastro? C'è un blocco nello stomaco, una mancata digestione emotiva che si risolve con il rigetto di Domenico, che evidentemente non è solo suo ma è anche nostro. Il vomito espelle l'accumulo di sensazioni compresse e se hai l'abitudine di leggere prima di dormire, la notte in cui finisci il romanzo la passi dormendo coccolato da un senso di sollievo, molto Basic pure quello.
Si familiarizza presto con questo romanzo, l'architettura a capitoli brevissimi lo rende colloquiale, una storia raccontata davanti al caminetto mentre fuori nevica, una sorta di filò in cui di tanto in tanto il narratore fa una pausa, viene distratto da qualcosa che gli succede attorno o si interrompe per mettere un altro ciocco al fuoco, per sorseggiare un po' di brulé fumante lasciando a chi ascolta il tempo di pensare a quanto potesse essere grande El Diàol.

Lorenzo Pezzato

martedì 24 luglio 2018

NON ESSERCI PIÙ, di Carlo Cenciarelli



Furono quelli i suoi giorni più quieti e più belli.
L’angoscia che lo opprimeva all’idea di non aver concluso nulla a quarant’anni compiuti e che gli aveva tenuto gli occhi spalancati e doloranti per tante notti, s’era d’un tratto dissolta. La vita aveva preso un gusto nuovo, un incanto più intenso.
Abbandonata ogni attività, vagabondava allegramente per i tanti giardini e le infinite strade e piazze della sua Roma. Si fermava a pranzare e cenare nei posti migliori e ne usciva sempre leggermente ebbro.
Quando, in quella bella serata di giugno, rientrò nel suo appartamento accaldato, stanco, stranamente soddisfatto di sé, quasi non ricordava più la sua nerolucida cintura che penzolava annodata da quella canna d’acciaio in cantina; né avrebbe mai immaginato fosse così facile e naturale infilare la gola nel cappio.