e
non è solo il nome della protagonista, ma potrebbe essere il titolo stesso del
romanzo: ne condensa l’essenza. La congiunzione e è quella che imbastisce cose e pensieri in un mondo che non ha più
ordito e può essere narrato solo come elenco paratattico; con un montaggio
analogico dove nessi logici e coordinate spazio-temporali si avvolgono in un
ininterrotto flusso di coscienza. Come il suo nome la lucida follia di e è paratattica; come il mondo ha
smarrito ogni ipotassi, ogni gerarchia di senso e di valori. Così e e il suo dire sono una cosa, l’una non
esisterebbe senza l’altro.
All’inizio ho avuto
paura di trovarmi nell’imbarazzo di fronte a un testo narrativo gravato da un
eccesso di consapevolezza. Capita, quando a scrivere è un filologo, un
linguista, un semiologo, un critico. Quel timore mi ha accompagnata lungo le
prime pagine, il tempo necessario per essere trascinata, e non solo dal ritmo
del racconto. Una jam session per
strumento solista. Come poi ci conferma il cap. X, la lingua, la sintassi del
testo sono il testo.
Si sarebbe tentati di
indulgere all’inutile gioco dei rimandi, delle citazioni (Gadda, Céline, Sterne,
Joyce? soprattutto Rabelais…), ma basta sapere che chi legge fa sempre suoi gli
autori che ama per non assecondare questa tentazione. Ci vorrebbe un Bachtin
per esplorare il labirinto semantico, straripante di fisicità, permeato di
umori corporei, dove tra lotta e amplesso non c’è soluzione di continuità e
l’insaziabile bulimia pantagruelica non placa la fame esistenziale. Un
Carnevale che è già Quaresima, una festa dei folli senza catarsi.
Nell’iperrealismo sessuale non c’è traccia di eros, ma non è mai pornografia,
solo triste anatomia. In un mondo che cancella i sogni, dove gli uomini sono bui
rintanati nelle viscere della città, nel sesso si manifesta l’ultima delusa
speranza di ritrovarsi umani. Un’umanità ridotta a corpi che non conoscono
abbraccio, solo cavità, tumescenze, secrezioni.
Pelle di tamburo è la pelle di e; il contrario di una bambola di gomma, su di lei i colpi della
vita rimbalzano in suoni, si fanno parole di rivolta, sfida nichilista e
tuttavia preghiera. e è un angelo
ribelle, la sua bestemmia è una preghiera inascoltata. Come Giobbe si chiede
ragione, ma trova solo la sorda disattenzione di Dio. È stata maestra e, ha appreso la lezione ingiusta della
vita. Nel degrado dei tuguri, nel carcere, nel manicomio e conserva una pudica nostalgia della bellezza, mentre la sfregia e
si vergogna di provare pietà.
Pelle di tamburo non cerca di compiacere il lettore, ma
lo incalza, riesce a farlo uscire dall’ipocrisia almeno per fargli capire che
quel mondo è anche il suo, gli appartiene.
Assassina seriale,
pazza, e è una cassandra che riesce a
farsi ascoltare. E la sua requisitoria cosmica culmina in un maledizione
biblica, inghiottita dall’alluvione del Biondo Tevere che la riconsegna al
silenzio primordiale, dal quale tutto può ricominciare?
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