Oltre al sonno e alla concentrazione ci sono anche altre cose che non sono state dette a nessuno.
Giornate intere che scompaiono, e brevi attimi che diventano un’eternità.

(Peter Høeg)

giovedì 15 novembre 2018

"Sei giorni" di Stefano Valente



“Sei giorni” è una vertigine, un romanzo maelstrom che ingoia il lettore nel gorgo ineluttabile della narrazione, una trappola della mente che sgorga parole in flussi di coscienza incrociati, dentro una lingua frantumata in cento, mille pezzi, che infine si ricompongono nel finale inatteso e sconcertante.
Senza entrare nel dettaglio e, come si dice oggi, spoilerare, in sintesi estrema la storia ci racconta, attraverso il suo protagonista, del ritorno a casa di due “amici” o forse soltanto sodali, commilitoni, reduci da una distopica guerra etnica che richiama quella dell’ex Jugoslavia, ma è ben altro, viene dal passato dell'olocausto ebraico, o forse è da venire, forse sta già avvenendo, forse è il disastro bellico della Siria che l’autore ci sposta fino alla soglia di casa, non ha importanza eppure ne ha molta. Sei giorni di cammino verso casa, con i piedi e le anime straziate e sanguinanti, tra morti, tradimenti, coinvolgimenti in azioni estreme, attraverso una finta pace che ha lasciato governi autoritari, frange etniche in lotta perenne, rovine e nessuna speranza di redenzione o vera pace. Tutto si rompe continuamente, nelle visioni e nel racconto del protagonista, l’ingenuo, innocente – ma quanto davvero?
È un libro potente, arduo, pregnante, per lettori forti d’animo, disposti alla battaglia con le parole e ad essere guerriglieri della coscienza. L’autore ci vuole con sé, vuole che ci si perda con i personaggi del romanzo, fino ad assumerne le paure, le speranze, la disperata volontà di essere, e di essere giusti, pur sbagliando, in un mondo colmo di errori ed orrori, nel quale sarebbe più facile, cedere, compromettersi, con la piccola accidia che diviene complicità con il male.
Infine, si arriva, e quasi nel silenzio, con un finale straordinario, tutto si scioglie e quando l’ultima pagina, quella alla fine di tutte le parole, quella bianca dopo la fine, arriva, è come un colpo di luce, un liberarsi del respiro sospeso, con la commozione e la gratitudine per un’esistenza, la nostra, salva. Ma fino a quando?


 Francesco Randazzo

Sei giorni
romanzo di Stefano Valente





giovedì 1 novembre 2018

"Pelle di tamburo", un romanzo inedito di Gualberto Alvino

di Mariella Giammarini



e non è solo il nome della protagonista, ma potrebbe essere il titolo stesso del romanzo: ne condensa l’essenza. La congiunzione e è quella che imbastisce cose e pensieri in un mondo che non ha più ordito e può essere narrato solo come elenco paratattico; con un montaggio analogico dove nessi logici e coordinate spazio-temporali si avvolgono in un ininterrotto flusso di coscienza. Come il suo nome la lucida follia di e è paratattica; come il mondo ha smarrito ogni ipotassi, ogni gerarchia di senso e di valori. Così e e il suo dire sono una cosa, l’una non esisterebbe senza l’altro.
All’inizio ho avuto paura di trovarmi nell’imbarazzo di fronte a un testo narrativo gravato da un eccesso di consapevolezza. Capita, quando a scrivere è un filologo, un linguista, un semiologo, un critico. Quel timore mi ha accompagnata lungo le prime pagine, il tempo necessario per essere trascinata, e non solo dal ritmo del racconto. Una jam session per strumento solista. Come poi ci conferma il cap. X, la lingua, la sintassi del testo sono il testo.
Si sarebbe tentati di indulgere all’inutile gioco dei rimandi, delle citazioni (Gadda, Céline, Sterne, Joyce? soprattutto Rabelais…), ma basta sapere che chi legge fa sempre suoi gli autori che ama per non assecondare questa tentazione. Ci vorrebbe un Bachtin per esplorare il labirinto semantico, straripante di fisicità, permeato di umori corporei, dove tra lotta e amplesso non c’è soluzione di continuità e l’insaziabile bulimia pantagruelica non placa la fame esistenziale. Un Carnevale che è già Quaresima, una festa dei folli senza catarsi. Nell’iperrealismo sessuale non c’è traccia di eros, ma non è mai pornografia, solo triste anatomia. In un mondo che cancella i sogni, dove gli uomini sono bui rintanati nelle viscere della città, nel sesso si manifesta l’ultima delusa speranza di ritrovarsi umani. Un’umanità ridotta a corpi che non conoscono abbraccio, solo cavità, tumescenze, secrezioni.
Pelle di tamburo è la pelle di e; il contrario di una bambola di gomma, su di lei i colpi della vita rimbalzano in suoni, si fanno parole di rivolta, sfida nichilista e tuttavia preghiera. e è un angelo ribelle, la sua bestemmia è una preghiera inascoltata. Come Giobbe si chiede ragione, ma trova solo la sorda disattenzione di Dio. È stata maestra e, ha appreso la lezione ingiusta della vita. Nel degrado dei tuguri, nel carcere, nel manicomio e conserva una pudica nostalgia della bellezza, mentre la sfregia e si vergogna di provare pietà.
Pelle di tamburo non cerca di compiacere il lettore, ma lo incalza, riesce a farlo uscire dall’ipocrisia almeno per fargli capire che quel mondo è anche il suo, gli appartiene.
Assassina seriale, pazza, e è una cassandra che riesce a farsi ascoltare. E la sua requisitoria cosmica culmina in un maledizione biblica, inghiottita dall’alluvione del Biondo Tevere che la riconsegna al silenzio primordiale, dal quale tutto può ricominciare?