Oltre al sonno e alla concentrazione ci sono anche altre cose che non sono state dette a nessuno.
Giornate intere che scompaiono, e brevi attimi che diventano un’eternità.

(Peter Høeg)

domenica 30 agosto 2009

Gualberto Alvino. Parodiando

2. Andrea De Carlo

Mio cognato Nicola aveva preso quattro in matematica e sua sorella, ossia mia moglie Manuela Cernitori, dalla quale sono separato da sette anni (o forse otto, o nove, dieci, non ricordo bene, da un po’ di tempo non ricordo bene le cose, il portinaio me lo dice sempre quando passo davanti ai suoi vetri, guardandomi in modo periferico come fossi un ectoplasma: «Lei non ricorda bene le cose, sa?»; «Davvero ― rispondo io ― se n’è accorto anche lei?»), mi telefonò per dirmelo, anche se sapeva benissimo che quel Nicola non l’avevo mai visto e che di lui, del quattro in matematica e di tutti i suoi parenti non mi importava niente; non per cattiveria, ma perché sono fatto così, non posso farci niente, non c’è niente da fare, assolutamente niente, se mi fisso su una cosa niente e nessuno può farmi cambiare idea, nemmeno mia madre, con quella voce chioccia che mi dice sempre: «Tu sei immerso fino al collo nel compiacimento di te stesso… cazzo di figlio di merda, madonna! mi stai sui coglioni da quando sei nato, avrei dovuto buttarti nel cesso, brutto bastardo schifoso!». Compiacimento? Non sono d’accordo. Non capisco mai se nelle parole di mia madre c’è pura sincerità, o voglia di provocarmi, o una leggera diffidenza nei miei confronti. Qualcuno dice che non voglio capire, ma non credo sia così. Non lo credo per niente. Una volta ho visto un film di Totò e l’ho capito tutto, dal principio alla fine, dunque stupido non posso essere, anche se non sono mai stato un afferratore, uno di quelli che tirano fuori la lingua come i camaleonti e prendono una mosca a mezzo volo.

Insomma, per farla breve, il telefono ha squillato e al terzo squillo ho attraversato tutto il salone, il corridoio, la cucina, il tinello, la camera da letto, la veranda, lo sgabuzzino, il ripostiglio, la sauna, il bagno padronale, quello di servizio, la biblioteca, l’androne, l’altro corridoio, la stanza dei bambini che non ho mai avuto, sono arrivato nello studio, ho preso la cornetta e la mia ex moglie Manuela Cernitori ha urlato: «Oh, sei tu? Ci sei?». Dio, non potevo credere alle mie orecchie.

«Cazzo di domande sono? Sì che ci sono ― ho detto, ― se no chi t’avrebbe risposto? T’ho risposto io, qui, al telefono, chi altri? Non riconosci la mia voce? Va be’, saranno pure passati sette, otto, nove, o forse dieci anni, non lo ricordo bene, da un po’ di tempo scordo le cose, lo dice anche il portinaio quando passo davanti ai suoi vetri, però sono sempre il tuo ex marito, e la voce del tuo ex marito dovresti riconoscerla, subito, immediatamente, senza esitazione. Del resto, se uno telefona a casa di un altro e l’altro risponde non può chiedergli “Oh, ci sei?”. Ma certo che c’è, t’ha risposto lui, cazzo! E per giunta è tuo marito, la voce di tuo marito, benché ex. Dovresti riconoscerla, porca di una puttana, non è mica un estraneo, uno che senti per la prima volta, l’avrai sentita mille, diecimila, l’avrai sentita un milione di volte quella voce». Il sudore mi si congelava sotto le ascelle e malgrado questo riuscivo a conservare un tono deciso che mi stupiva sempre di più, mi sconcertava nel profondo.

«Ciao, ti ricordi di Nicolino?» ha detto lei schiacciando le vocali come in una porta. Nella sua voce esitante stava esplodendo un turbine di sensazioni opposte e contraddittorie che mi faceva sentire fuori posto, ignoto a me stesso, al mio cervello, alla mia anima, nient’altro che un forestiero in terra straniera.

«Cazzo ne so io di Nicolino?» ho detto con un senso di durezza che mi saliva rapido dentro, anche se non ne ero sicuro, avrei voluto esserlo, ma non lo ero, non lo ero affatto. Era pazzesco, da un po’ di tempo mi sentivo così, e neanche il mio medico ci capiva qualcosa; i medici, tutti uguali, sono capaci soltanto di bussare a quattrini, centoquaranta a visita due volte a settimana per dodici mesi fanno tredicimilaquattrocentoquaranta, per dieci anni centotrentaquattromilaquattrocento, per tutta la vita, ammesso che campi ancora a lungo, e di questo passo non credo, viene fuori una cifra pazzesca. Avrei dovuto studiare medicina invece di fare il vetrinista, o il vetraio, o il veterinario, non ricordo bene, da un po’ di tempo scordo le cose, lo dice anche mia madre, colpa del compiacimento, dice. Sarà. Non credo.

«Come, cazzo ne so? Nicola, Nicolino, il più piccolo, quello che al matrimonio mi reggeva lo strascico e a un certo punto ha vomitato i confetti sulla guida rossa e a mio padre per poco non prendeva un infarto e mia madre per soccorrerlo è caduta e io per soccorrere lei ho messo male un piede e mi sono rotta un femore, otto mesi sulla sedia a rotelle» ha detto lei sorpresa, e forse anche un po’ delusa che non riuscissi a ricordare il giorno più bello della sua vita; non della mia, per carità, non della mia: io quel giorno lo cancellerei dal calendario, perché proprio da quel giorno sono cominciati tutti i miei guai. Non è che voglio fare la figura del santo. È proprio così.

«Strascico? Ma di che strascico parli?» ho detto stringendo tra le dita la cornetta fin quasi a fracassarla, mentre dalla finestra filtrava uno spiffero che mi solleticava le caviglie dandomi un senso di sottile benessere che non avevo mai provato prima d’allora, mai. O forse sì, ma non così forte, forte e intenso, e aguzzo, e penetrante, e avvolgente, e inebriante, e subdolo, e rigenerante, e completo.

«Ma vaffanculo! Sempre il solito stronzo! Una volta gli hai anche offerto un tè alla menta e un cappuccino con poca schiuma nel baretto sotto casa» ha detto lei. C’era un senso strano di attesa nel suo tono, un senso di non spiegato e di non richiesto, ordinario ed estraneo, gioioso e snervato e determinato e indeciso.

«Aspetta, che vado a controllare la pasta» le ho detto, e mi è salita dentro una rabbia furiosa verso di lei quando ho visto che le pennette rigate erano scotte: una pappa molle e appiccicosa da far venire il voltastomaco. Ho vomitato l’anima, poi ho rovesciato la pentola nel lavandino e sono corso di nuovo nello studio.

«Pronto, ci sei?» ho detto ansioso.

«Sì che ci sono, mi hai detto di aspettare e ho aspettato. Che dovevo fare? Riattaccare? Uno dice aspetta e io aspetto, che diamine! Questione di educazione. Se avessi riattaccato ti saresti offeso di brutto e avresti attaccato una delle tue solite tiritere, non dire di no, avresti fatto così, eccome se l’avresti fatto, Cristo, non ti conoscessi» ha detto risentita, più cupa che sollevata, più malinconica che allegra, più solenne che affabile. Poi c’è stato un attimo di silenzio e ha detto quasi balbettando: «Com’era… la pasta?». Forse ripensava al nostro passato, un passato da cui stento ancora a liberarmi. Ma prima o poi ci riuscirò. A costo di cambiare medico.

«Guarda, è meglio che lasciamo stare» ho detto io perentorio.

«Va be’, ti richiamo domani» ha detto lei smontata.

«Se potessi farne a meno sarebbe meglio» ho detto io con tono rassegnato, come se l’universo mi cadesse addosso, «molto ma molto meglio, giuro, non lo dico così, è che sono convinto, al cento per cento, mai stato tanto convinto come lo sono adesso, credimi. Domani no. Facciamo dopodomani. E comunque di matematica non ci capisco un tubo. Cioè, prima ci capivo, ci capivo parecchio, ma da quando scordo le cose è come se fossi immerso in una specie di nebulosa viscida e pastosa, mia madre lo attribuisce al mio autocompiacimento, non credo».

Manuela ha taciuto per un lungo istante, poi ha sorriso nel modo più trattenuto e incerto che avessi mai incontrato in vita mia.


venerdì 28 agosto 2009

Pensava fosse un cane e invece era la sua nemesi


di Mauro Mirci

(da ParolediSicilia.it)

Tatar Sarari ha 45 anni, è marocchino, vive a Enna. Il 25 di agosto del 2009, è martedì sera, se ne sta seduto davanti a un bar a Pergusa. Non conosciamo le condizioni climatiche. Data la stagione, la latitudine e la personale esperienza, immaginiamo condizioni caldo-umide degne di una foresta pluviale. A tali condizioni possiamo, volendo, associare una birra ghiacciata da almeno 400 cl, non di meno. Insomma, dipendesse da noi, preferiremmo. Tuttavia, Tatar Sarari è marocchino, è possibile non beva alcolici perché mussulmano, oppure astemio, oppure soltanto perché la birra non gli piace e preferisce bere altro. Allora facciamo che abbia davanti un bicchierone di aranciata gelata.
La spalliera della sedia sulla quale si trova sfiora la parete esterna del locale, lui guarda la strada (a Pergusa i locali si trovano lungo la statale 561, che attraversa l’abitato). Accanto a sè ha un bastone, appoggiato al muro.
Passa un cane, un “meticcio randagio di grossa taglia”. In realtà questa descrizione ci dice poco. Diciamo allora che si tratta di un grosso cane, pelosissimo, alto una settantina di centimetri al garrese. Avrà sei o sette anni. E’ fulvo, con una stella bianca sulla fronte, il pelo arruffato, grandi orecchie pendule, lo sguardo da povero diavolo. Qualcuno gli ha mozzato la coda, anni fa. Per divertimento. Lui ci ha sofferto un po’ perché la coda gli serviva per mangiare. La dimenava, festosa, davanti agli avventori dei locali che affacciano sulla SS561, e quelli s’intenerivano e gli allungavano un boccone.

mercoledì 19 agosto 2009

Gualberto Alvino. Parodiando

1. Alessandro Baricco

Allora, soltanto allora, né un secondo prima né un secondo dopo, Magg Simpson, la vecchia, cara, dolce Magg, si nettò e richiuse il coperchio. Con fare guardingo. Quasi avesse cento occhi puntati sulla schiena.
Magg. Non c’era nessuno a Pottercanyonsville che sapesse chiudere un coperchio come lei. Lo contemplava per un lungo istante tentando invano di contenere l’emozione, poi agganciava il bordo con l’unghia del mignolo inanellato, e lo abbassava.
Così.
Semplicemente.
Senza il minimo sforzo.
Come se non avesse fatto altro in vita sua.
Lo abbassava, e intanto osservava i disegni delle ceramiche, che le ricordavano la sua casa nella prateria, laggiù, nel Michigan, sulle rive dell’omonimo lago. L’aveva fatta suo padre quella casa di pietre rosse e tronchi di quercia più duri del ferro. Suo padre. Sì. Il vecchio John Jim Billie Kenneth Gordon Charles Frank Simpson, detto Al. L’aveva costruita con le sue mani grandi e callose. Giorno dopo giorno. Per tutta la vita. E non era mai riuscito a finirla. Mai. Si può finire un sogno?
«Nessuno saprebbe abbassarli con tanta grazia, ― pensava la gente ― nessuno ci riuscirebbe mai. A Pottercanyonsville e non solo. Nessuno».
Non appena sentivano il tonfo del coperchio tutti si riversavano nelle strade in preda a una profonda agitazione, correvano col cuore in gola e dicevano Magg ha abbassato il coperchio, l’ha abbassato, e dappertutto si sentiva urlare Magg ha abbassato il coperchio, finché qualcuno urlava da un bovindo Magg ha abbassato il coperchio, e così per tutte le piazze si metteva a correre la voce Magg ha abbassato il coperchio, da una piazza all’altra, giù fino alla stazione, dove si sentiva una voce gridare Magg ha abbassato il coperchio talmente forte che nella fabbrica di sifoni c’era sempre chi lo sentiva e si girava verso il vicino per sussurrare Magg ha abbassato il coperchio, cosa che velocemente finiva sulla bocca di tutti, malgrado il frastuono della fabbrica, che costringeva tutti ad alzare la voce per farsi sentire, Che dici? Magg ha abbassato il coperchio? Sì, l’ha abbassato, in un crescendo culminante nella voce che alla fine riusciva a far capire anche all’ultimo operaio quanto era accaduto, Magg l’ha abbassato, il coperchio, un boato che echeggiava altissimo nel cielo, e negli sguardi, e nelle menti, se anche a Chuckachumpauatapalka Stan il bandito scendeva dal cavallo, cadeva a terra, rotolava nella polvere, bestemmiava a denti stretti Dio e la Madonna, riprendeva il suo cappello e ― a voce bassa, come se stesse pronunciando una formula sacra ― mormorava quasi tra sé e sé:
«Magg ha abbassato il coperchio, porco demonio, l’ha abbassato».
Era arrivata a Pottercanyonsville il quattordicesimo giorno d’aprile di vent’anni prima Magg Simpson, in groppa a un’asina albina su per la mulattiera che dal cimitero portava alla chiesa maggiore. E proprio là, sul sagrato della chiesa maggiore di Pottercanyonsville, il quattordicesimo giorno d’aprile di vent’anni prima, col sole che ardeva come un’immensa lampada accesa da una mano gigante in mezzo a un cielo più blu dei suoi occhi, Magg capì che quella sarebbe stata la sua occupazione principale, per il resto della sua vita.
Quella.
Proprio quella.
Per il resto della vita.
La sua occupazione.
Principale.
Fino alla morte.
Lasciò cadere le valigie che sua sorella Molly aveva legato con nastri da cappelli, allargò le gambe, si mise le mani sulla pancia, le premette più che potette, irrigidì il diaframma blaterando qualcosa tra le labbra polpute (nessuno sapeva cosa, solo Henry, il birraio del Michigan, lo sapeva, ma non l’avrebbe detto nemmeno sotto tortura), e la fece lì. Sul sagrato della chiesa maggiore di Pottercanyonsville. Al centro esatto del sagrato. Sotto gli sguardi increduli di Greg il postino, Pete Crast il banchiere, Miss Reed la merciaia e Hunky Dunky il lattoniere.
Fu proprio lui, il vecchio Hunk a gridare per primo.
Con le lacrime agli occhi.
Perché non riusciva a crederci.
Non ci riusciva.
No.
Saltò su dalla sedia, tossì, sputò a terra e urlò: «L’ha fatta. Qui. Sul sagrato della chiesa maggiore di Pottercanyonsville. Diavolo d’una donna. S’è accucciata, e l’ha fatta, senza pensarci due volte».
Disse così, mentre cominciava a piovere. Sul mondo e su Hunky Dunky il lattoniere, che sapeva tutto di quella donna, perfino quanti capelli aveva in testa. O almeno così credeva. Tutto. Tranne il nome. Il nome no. Il nome non lo sapeva. Sapeva tutto meno il nome. Il resto sì, lo sapeva, o credeva di saperlo. Tutto. Per filo e per segno. All’infuori del nome. Quello no.
«Come si chiamerà?» chiese Hunk a Greg il postino.
Silenzio.
«Come si chiamerà?» chiese Greg il postino a Pete Crast il banchiere.
Silenzio.
«Come si chiamerà?» chiese Pete Crast il banchiere a Miss Reed la merciaia.
Silenzio.
«Come si chiamerà?» chiese Miss Reed la merciaia a Hunky Dunky il lattoniere.
«Lo domando a lei, faccio prima», rispose il vecchio Hunky sputando un grumo di tabacco che gli era rimasto incastrato fra i denti, più gialli d’una pannocchia in agosto, mentre saliva dai campi appena arati l’odore del grano.
E allora glielo chiese. Così. Nel modo più semplice e naturale possibile. La fissò nei suoi occhi blu come il cielo, cercò in ogni modo di dominare il tremore, e le chiese con voce flebile: «Di’, come ti chiami?».
«Magg. Magg Simpson. E tu?».
«Hunky Dunky mi chiamo. Faccio il lattoniere. E, mi venga un colpo, non ho mai visto una cosa simile, qui a Pottercanyonsville, e non solo».
«Ripetilo a voce alta. Che tutti sentano».
«Mai vista una cosa simile da quand’ero in fasce, parola di Hunk», e cadde in ginocchio. Aveva le palpebre più pesanti del piombo.
«Che ti succede, Hunky? Hai l’aria lontana. La puzza è arrivata fin lì?».
«Sì, perdio, ma non è questo. È che… stavo pensando fitto».
«A cosa, Hunk, non vuoi dirmelo?».
«Okay. Adesso te lo dico, Magg. Accada quel che accada. Pensavo che, perdio, mai nessuno aveva fatto una cosa simile qui sul sagrato, al centro esatto del sagrato della chiesa maggiore di Pottercanyonsville. E senza pensarci due volte».
«Lo credi davvero, o lo dici così, tanto per dire? Odio la gente che dice le cose tanto per dire. Uno potrebbe tacere. Invece apre la bocca, e parla. Decide di parlare. Di sua spontanea volontà. Senza che nessuno lo costringa. E poi che fa? parla così, solo per parlare? Ah no: se decidi di parlare senza che nessuno ti costringa, almeno dilla tutta. E per bene. Allora, dici davvero o lo dici tanto per dire? Perché se lo dici tanto per dire non andiamo per niente d’accordo. Per niente. Proprio per niente. Parola».
«Potessi cadere stecchito, Magg. Ora. Qui. Sul sagrato della chiesa maggiore di Pottercanyonsville, se quello che dico non è la verità. La pura, sacrosanta verità».
Ride e grida Hunky Dunky il lattoniere. Con le lacrime agli occhi. Mentre piove. Su di lui. Sul sagrato. Sul campanile della chiesa maggiore. Sul curato che spia dalla grata grattandosi il collo arrossato dal sudore. Su Pottercanyonsville. Sul mondo intero. Una pioggia fine, insistente, lucida e scivolosa come l’olio che suo padre Al spremeva dalle olive giganti del Michigan.
Magg ascolta.
Magg ascolta e vede tutto.
Magg non perde il benché minimo dettaglio.
Poi si pulisce con una foglia di fico, la ripone in un sacchetto che sua madre le cucì in punto di morte con le sue iniziali a trame d’oro (fu proprio su quel sacchetto che esalò il suo ultimo respiro), e si riveste con calma. Io non dimenticherò mai due cose: la sua calma, e quel modo di strabuzzare gli occhi in preda al piacere mentre cercava di farla più grossa che poteva, là, sul sagrato della chiesa maggiore di Pottercanyonsville, appoggiando i gomiti sulle ginocchia come un samurai.
Dopo un po’ si alzò, Magg.
Si alzò e prese le valigie.
Prima una.
Poi l’altra.
Con calma.
Con estrema calma.
Uno spettacolo.
Era come se la sua vita ― tutta, il presente, il passato, il futuro ― fosse racchiusa in quelle due manigliette di vacca, la vacca pezzata che lei stessa mungeva ogni mattina, laggiù, nella prateria, mentre suo padre Al spremeva le olive giganti del Michigan.
Prese le valigie sotto gli sguardi allibiti di Greg il postino, Pete Crast il banchiere, Miss Reed la merciaia e Hunky Dunky il lattoniere, a cui s’erano aggiunti nel frattempo Harold il fornaio, Maude la sarta, Thomas il becchino, Johnson il falegname, Oswald il macellaio, Didi Dodi la badessa, Jeoffrey lo sceriffo e Dustin Cravenford, giudice e sindaco di Pottercanyonsville. Anch’essi allibiti. Sì. Allibiti e ammirati. Si guardavano l’un l’altro e si chiedevano Come è possibile tutto questo? Non è possibile. Non ha senso.
E in effetti non aveva senso.
Proprio nessun senso.
Nessuno.

giovedì 6 agosto 2009

Là comincia il Messico

Gualberto Alvino vellica e soddisfa pienamente qualsivoglia predilezione per forme espressive gustose e dense di senso, per tutti i barocchismi, (gaddismi, manganellismi, pizzutismi) («iobocca: perpetuo mastichìo del nonpensarmi»), e contorsioni, e circumvoluzioni, ciò che è eccessivamente scabro o ridondante, ciò che è succosamente compiacente, certi lemmi pastosi, inusuali, desueti, i periodi brevi, secchi e sincopati, e nondimeno quelli dove la prosa s’allunga e tende all’infinito e la punteggiatura assume il ruolo, direi senz’altro la grande responsabilità, di coniugarsi e di fondersi alla metrica realizzando misteriose sincronie. Una danza, il fondo schiena del fantino con la groppa, una qualunque, d’un cavallo che è al trotto, montato all’inglese. Là comincia il Messico è un percorso sinusoidale verso il delirio, cui pare alludere l’avvinghiarsi di certi toni e timbri rari, ricercatissimi, austeri, fortemente inquietanti, un incalzare di dissonanze sullo sfondo. Luca Tassinari dice che «è un testo che lascia in secondo piano il significato, a tutto vantaggio della forma». La forma, in fondo, è tutto ciò che aggredisce, ciò che s’infiltra immediatamente nei nostri sensi. Su quest’impatto, sull’esito piuttosto di quest’impatto, il cervello riflette, rumina, medita lungamente. Si ha il senso, leggendo questo testo, che il Messico sia un implicito confine. Una soglia ontologica. Tutto ha un suo senso pieno, tutto si muove in una ribollente sintonia, all’interno e all’esterno di una discriminante. Opinabile, incerta, relativa, forse del tutto e solo affabulatoria.

Mauro Calenda

Gualberto Alvino
Là comincia il Messico
Firenze, Polistampa, 2008

domenica 2 agosto 2009

Felice Paniconi

Il colore rosso

Sotto il tavolo, ferito, ho trovato il colore
rosso. Era caduto inavvertitamente
abbandonando la fitta e ordinata schiera.
L’ho raccolto e adagiato sul tavolo
e mio figlio quando è arrivato da scuola
è stato contento di ritrovarlo dicendomi
che lo aveva tanto cercato. L’ha accarezzato,
gli ha rifatto la punta e lo ha rimesso
al suo posto. Ora marcia fiero con i suoi compagni,
sembra che non sia successo nulla
ma la cicatrice sul vestito è il monumento al dolore
e, anche se si sforza di non ricordare,
la sua lancia è un po’ più corta.


Passeggiata

Mi chiede mia figlia perché volando
gridano i gabbiani. Vorrei rispondere
con i versi del poeta perché pace
non hanno, non hanno un nido
e sono in perpetuo volo.

Ma fissando il cielo le dico
perché vogliono che in alto guardiamo
i loro voli. Mia figlia
mi guarda e stringiamo le mani
ed io penso che forse
il mare è amico loro
che il cielo è più azzurro
dopo lunghi richiami.

sabato 1 agosto 2009

Due poesie di Gualberto Alvino

Prima della cosa

Per «Anterem», il cui scampo

è un poco anche il nostro

guarda che succede

fra la terza e la quinta

hanno come dei marchi non so dei graffiti dai colori

arsi li avranno fatti con le unghie

fra la testa e il collo

che pieghe carnose

rosse vien voglia di morderle pare

d’averle in bocca è impossibile

non vorrei dirlo ma si abbracciano

guarda

intrecciano le dita come se tra loro corresse chissà quale

certi si baciano succhiano non lo dànno a vedere

l’elementarità animalesca l’incedere

goffamente ardito il prorompere

canino degli ossi il pullulare dei liquami vanno

tornano sempre più insistenti

si slaccia la cravatta fingono persino

d’essere stracchi pur potendo incollarsi interi quarti

ci scommetterei tutta la mia

chi non conosce la loro forza uno

si porta piano la palma alla bocca mostra

la doppia fila l’avorio scintilla un diamantino come vedi basta

un niente perché tutto s’ingrani nella giusta chiarezza è come

il lampeggiare un mobile gioco di luci

d’ombre la volontà di far accadere una cosa a dispetto di

non dà luogo ad alcuna certezza

guarda

flettono i gomiti

al vertice tra i distributori e il fanale

il pupazzo appeso al balcone un basto di doni

si grattano le ciglia mettono le mani a conca col gesto che

da piccoli ricordi? ti sei cacciato in un bel guaio

credevi d’uscirne illeso di poter facilmente doppiare

la cima invece ci sei dentro con tutte le

guarda

non vorrei dirlo ho perfino paura di

svelto

scendi nel retro c’è una porticina verde dai cardini

non è più quella d’un tempo

la sala dei costumi ha un odore forte ci abbiamo passato intere

stagioni là dentro col conte calvo dal lobo mozzato a la manière de

un attore di farse dalle mille voci l’inseparabile

pastrano ci scavava gli ombelichi con la punta

del mignolo dopo averci colato dentro un po’ di saliva

anche d’estate

chissà da quanto non ci pensi lo vedo da come ti si secca

la lingua che parlano è graziosa mi allarma il loro oscillare

ostentando un certo quale

ci vorrebbe un byte nel cervello per non

digrignare le sinapsi sono state recise

credo ormai da parecchio

che succede?

ci stanno dicendo qualcosa

specie quello alto con la spilla di rame sul dorso la lingua triforcuta

un ronzio cela il viso nel bavero dando per scontato a quanto pare

che abbiamo già benché sappiano fin troppo bene

non vorrei dirlo ma è come se ci vedessero una parla

frasi sospese sintagmi

quasi ernie

dischi di fuoco

sembra un ladro in chiesa con quel suo modo di curvare

le spalle l’issarsi sulle punte cammina sull’acqua

un testo corrotto è pur sempre un testo supponiamo ad esempio

lo sguardo lampeggia

che l’unico superstite sia stato

questo non comporta nessuna modificazione

si tira un dito lo schiocco

se per sbaglio ha scritto una parola mentre intendeva scriverne un’altra

i sensi dell’opera non sono affatto inesauribili

c’è infatti sempre un punto in cui l’universo deve per forza

riportare in nota le lezioni divergenti in linea di pura

astrazione più o meno esplicitamente

quale chi somniando vede

tutta una parte e la più calda

di gran lunga più affidabile

non capisco perché dovrei usare vocaboli miei per

trastullarli non capisco proprio

ce ne sono già pronti e quanti basta insufflarli

specie dove ogni distinzione viene meno

ma è sufficiente qui l’aver compreso

sorrise parolette

suntuosi edifizî

soccorre l’esempio del piede piagato ovvero

la vessata questione del cignale supino

il problema di cosa significhi volontà

se un testo viva davvero di vita propria

suscettibili di più interpretazioni

imho

non certo infinite



Pepe


già nel primo terzo del suo corso

a ben vedere

mentre dormiva col nonno sul giaciglio di sponze

nell’umidore crocchianti a ogni girata

sembrava parlasse nel sonno

vomito rutti accessi di fol’amor invece contava

le pere raccolte dalle figlie di terzo letto le tramutava in talenti

non sapeva nemmeno il suo nome

tre mogli e nessuna regina

pedicabo et inrumabo

l’ultima morta cadendo per colpa d’un filologo sbronzo

in quella taverna sfondata

con mezzo quintale in testa e un feto di pochi giorni

sarebbe stata mia madre il suo cavallo Barone

correva al primo fischio

il figlio sembrava più vecchio di lui lo chiamava tatillo

toccandosi il petto col mento al suo passare salutava

in istilo umilissimo e rimesso

rabdomando con l’asta di ciliegio tralatizia

puoi camminare senza?

quel modo finisecolare quasi villano

un pane rinfarciato due birre roventi

fissi sul tavolo venerdì mercato c’era quasi sempre

il sole le ragazze con gli orologi scintillanti dei fratelli

i nipoti guidavano tutti i camion

secondo 4 sa di boschereccio di funghi troppo maturi

9 dice che al centro dell’aia c’è una botola

coperta da un pezzo di bótte schiacciato sotto cui

si spalanca tutto un mondo prova ne sia che

il leppo i muri sbrecciati

la zia belga tornava solo per bagnarsi nel fiume

e portarsene l’odore per gli amici minatori si tuffava

tre volte da un tronco poi sbatteva le camicie

sui sassi le appastava dimenando

i fianchi per suo marito simbionte appostato

sulla centrale i baffi grifagni Charleroi

vibravano a ogni boccata

il sassofono sul mignolo schiere di bimbi

imparaci la musica

pesci dalle buche sporgevano i capini a tempo di

fumava senza filtro tossendo con pudore poi

ripartiva spargendo sorrisi la macchia d’umidità sul soffitto

fu il primo quadro che vide

com’è destino d’ogni precursore

proprio così

ve ne ritrovo invero tutti gli elementi

dal primo all’ultimo

sembra incredibile ma un etimo non si cerca si trova

dal cerchio al centro

dal centro al cerchio

conferendogli una sua propria tonalità

svolte al difuori d’analisi di stile

libero completamente scevro da

interferenze perburbatrici

con la foga d’un enigmista

sbrogliando il bandolo dell’arruffata matassa

tutto un viluppo d’immagini ciascuna con un suo

aroma quelle dei sogni non sono più accese

si organizzano in gruppi spesso in conflitto tra loro

e pensare che non possono fare a meno

l’uno dell’altro del resto si sa

i deboli cercano i deboli

forti non ve ne sono tuttavia le corazze

parrebbero d’ottima lega

ma non bisogna credere che l’ermeneutica

sia deformazione è un controsenso

dato che l’opera non è forma ma tensione

si dice l’interpretazione è tanto più autentica quanto

più evita di consegnarsi alla distorsione

chiede perché l’opera deva diventare parte

del nostro presente

non saprei ma sia chiaro fin d’ora

che lo sconfinato amore per la lingua

rivendico il diritto d’affermare

in piena scienza e coscienza

è il primo movimento di un percorso

florebat olim

a raggiera

in mille direzioni

che ne sarà del ciliegio?



Da «L’Immaginazione», giugno 2009, 247 pp. 6-7.