Oltre al sonno e alla concentrazione ci sono anche altre cose che non sono state dette a nessuno.
Giornate intere che scompaiono, e brevi attimi che diventano un’eternità.

(Peter Høeg)

martedì 26 ottobre 2010

Una nuova edizione di Si riparano bambole


ANTONIO PIZZUTO

SI RIPARANO BAMBOLE

A cura di Gualberto Alvino
Con una nota di Gianfranco Contini

Bompiani, ottobre 2010

venerdì 22 ottobre 2010

"Biro Insalata & Sogni" al Teatro Studio Keiros di Roma



BIRO INSALATA & SOGNI
un monologo
di Francesco Randazzo
con
Caterina Intelisano
regia
Annalisa Paolucci

voci
Walter Da Pozzo
Francesco Randazzo
Dario Tacconelli

disegno luci
Fosco Baldoni
aiuto regista
Monica Mariotti
effetti audio
Dario Tacconelli

TEATRO STUDIO KEIROS
Roma via Padova 38 a
MB p.zza Bologna (vedi mappa)

PRENOTAZIONE SEGRETERIA TELEFONICA
TEL: 06 44 23 80 26
PRENOTAZIONE e mail:
teatrokeiros@gmail.com

Biglietti:
12 euro intero
7 euro ridotto
3 euro tessera

3-4-5-6-7 Novembre 2010
h. 21:00 - Domenica h. 18:30

POSTI LIMITATI
PRENOTATE

PRENOTAZIONE SEGRETERIA TELEFONICA
TEL: 06 44 23 80 26
PRENOTAZIONE e mail:
teatrokeiros@gmail.com

Tra fissazioni, paure, idiosincrasie e genialità, si dipana la storia tragicomica di Anne H. una donna sola, in una strana casa, dove gli oggetti ricordano oppure le muovono guerra. Incapace di vivere la banalità del quotidiano casalingo, Anne, professoressa universitaria di Geometria Frattale, pur essendo una fertile mente scientifica, vive una realtà assolutamente sfasata. Non riesce ad adoperare oggetti di uso comune, le piace la maionese, ma non riesce ad adoperarne i tubetti; non sa cucinare, brucia tutto e praticamente mangia solo insalate in busta e beve solo caffè solubile; odia le penne stilografiche perché la macchiano; fuma solo sigarette senza filtro per evitare di fumarle dalla parte sbagliata. E soprattutto non accetta la morte della madre e finge che non sia avvenuta. Intanto uno sconosciuto, sbagliando numero, lascia messaggi d'amore e richieste d'appuntamenti alla sua segreteria telefonica. Questo elemento di disturbo innescherà un meccanismo stimolatore di incubi e di identificazione fra lei e la madre e fra l'uomo che telefona e il padre di Anne, che scopre di essere stata dipendente dalla figura del padre e gelosa della madre. Risolverà tutto attraverso alcuni sogni chiarificatori e con il coraggio di staccarsi dalle figure dei genitori per ricominciare ed essere veramente Anne. Un'ultima divertente lotta con gli oggetti, i terribili innocui oggetti che finalmente si arrendono: avviene una vera e propria metamorfosi. Finalmente donna, finalmente sé stessa Anne alla fine risponderà al misterioso uomo che telefona. Sorprendendolo e sorprendendoci.


Presentazione video:
http://www.vimeo.com/15636990

Pagina web:
www.biroinsalataesogni.tk


Il testo (in ebook):
http://www.lulu.com/product/ebook/biro-insalata-sogni/13222565





domenica 10 ottobre 2010

Tiziana Colusso. La criminale sono io


Il romanzo è liberamente scaricabile qui



Dalla prefazione di Marco Palladini:

[...] Un’ultima considerazione su questo romanzo è che, fin dal titolo, esso si presenta come una “confessione”. E allora tornano in mente in modo irresistibile le illuminanti pagine del saggio della filosofa spagnola Maria Zambrano su La confessione come genere letterario, dove l’analisi trascorre da Sant’Agostino a Rousseau, da Kierkegaard a Baudelaire, da Dostoevskij a Rimbaud, ai surrealisti etc. Dice la Zambrano che la confessione ricuce la frattura drammatica della Cultura Moderna, incapace di connettere “la verità della ragione e la verità della vita”. La confessione che si verifica dentro il tempo reale stesso della vita, subisce la sua confusione, il suo caos, la sua frammentarietà ed incompiutezza. Essa è, allora, la massima azione che si può compiere con la parola su se stessi, sul proprio essere/esserci. Con la confessione l’uomo cerca la parola che, a viva voce, possa gridare la verità della vita, spesso opposta a quella della ragione, cerca la definitiva intimità con sé, il punto in cui si cessa di sentirsi estranei nella propria casa-anima. Ecco, immergendosi nel flusso rammemorante della confessione, Tiziana Colusso è come se si fosse riposizionata presso se stessa, identificandosi per via espressiva con una donna sotterranea, una dostoevskijana donna “del sottosuolo” che, dopo la catabasi, è in attesa di poter compiere la sua agognata anabasi.

domenica 3 ottobre 2010

OTTO BUONI MOTIVI

-Dammi otto buoni motivi
perché non debba ucciderti-
mi disse il terrorista col coltello
Il mio cuore era in assedio
Sentivo la lama sulla gola scorrere
Non sapevo che dire e avevo timore
Di non saper contare fino a nove
Ma mi feci coraggio e segnando
Con le dita cominciai:
-Perché sono tuo amico- dissi esitante
-Perché tengo famiglia- supplicai
-Perché devo terminare il mio romanzo in dieci tomi
-Perché non ho mai visto New York!-
Sudavo freddo, perdevo colpi: il coltello
Sul mio collo cercava uno zampillo
Mi mancavano quattro ragioni
-Perché non sono pronto-urlai
-Perché voglio morire da eroe-
Niente, non ero convincente
E ne mancavano due
Che non avessi un motivo?
Non uno per volermi vivo?
-Perché io sono un essere innocuo-
Provai a impietosirlo
E fu in quel momento che si aprì l’ abisso
Io, che ero io, non ne avevo mezzo, di appiglio
Sentii tutto crollarmi, mi sfilarono davanti gli anni
Vidi il cielo gonfiarsi
E aspettavo ormai che agisse
...Sono troppo poco Ulisse
Per la tua isola, Circe...
Eppure
Ancora qualcosa mi tratteneva
Qualcosa che scorreva in ogni vena
Come un torrente, una rabbia, un insulto, una violenza
E dissi
-Perché voglio sopravvivermi!-

venerdì 1 ottobre 2010

Gualberto Alvino. Una parola su Giulio Ferroni

In un pamphlet non meno fatuo e rotondamente innecessario dei bersagli su cui scocca da anni le sue infiammate saette (Scritture a perdere. La letteratura negli anni zero, Roma-Bari, Laterza, 2010) Giulio Ferroni avverte impellente il bisogno di dirci — spacciando vieti truismi per gemme sapienziali e condendoli con un’enfasi retorica da umiliare il più navigato «scrittore di successo» — che i programmi di Maria De Filippi, «scuola dello scorrevole nulla», proiettano «ogni aspetto dell’esistere in funzione dell’evidenza televisiva» e «dell’espansione spettacolare»; che i reality show, la televisione del dolore, le esibizioni di dilettanti sono i modelli in cui il voyeurismo tocca la sua apoteosi; che i talk show, non che produrre informazione, si risolvono in «gare di apparenza» dove non conta la ricerca della verità ma la mortificazione dell’avversario, e i valori proposti da molti telefilm «tracciano modelli di un mondo senza altri orizzonti che non siano quelli di un esistere come consumo»; che la società della comunicazione, luogo «dell’esteriorizzazione dell’esperienza» e della «serialità illimitata», determina l’inflazione della cultura e l’azzeramento d’ogni coscienza critica e riflessiva; che non tutti i libri sono buoni, ergo bisogna stamparne di meno, privilegiando la qualità, ossia la «ricerca dell’essenziale» (sic!); che il corpo di Eluana Englaro è stato costretto a una vita indegna di questo nome e gridano vendetta le parole del presidente del Consiglio, «giunto a dire che la condizione della ragazza era tale da permetterle comunque di partorire»; che si va imponendo sempre più il modello del mercato, per cui la validità di un prodotto artistico è determinata in base alle vendite e all’audience; che lobbies e conventicole lasciano ben poco spazio alla libertà e all’indipendenza degli autori, mentre gli intellettuali si sono ormai arresi «alle forme del degrado quotidiano, all’aggressiva necessità dell’esibizione, […] ai modelli di vita e di comunicazione suggeriti e imposti dai media».
Fior di concetti di cui rigurgitano le gazzette, la blogosfera, i salotti televisivi, i centri anziani, i circoli del tennis, i comitati di quartiere, i bar dello sport. Ma l’originalità del critico romano non ha confini. Col tono di chi svela le leggi dell’universo il nostro passionario tiene a puntualizzare nientemeno che Internet — come i coltelli, le seghe elettriche, gli aghi, l’energia atomica e il curaro — può essere un’arma a doppio taglio: «dipende sempre dalla coscienza e dall’intento di chi lo usa»; che Gomorra — dato altrettanto sacrosanto che proverbiale — non è poi un gran pezzo di letteratura; che i romanzi noir italiani non hanno carica critica e si somigliano come gocce d’acqua (toh, credevamo fossero capolavori assoluti); che la Mazzantini è una narratrice sciatta, la scrittura di Paolo Giordano neutra, plastificata, priva di qualunque accensione, e Stabat mater di Tiziano Scarpa uno stanco racconto di vicende banali, «senza nessun colore e nessuna ‘verità’ storica», come se nessuno sapesse che si tratta d’operazioni commerciali preparate a tavolino da editor sletterati e manager rampanti, figlie e sorelle di, col simbolo del dollaro stampato in fronte; che la critica letteraria è ormai del tutto esautorata e s’è ridotta a squallida propaganda editoriale; che meritano il più acceso biasimo — nonché un’attenzione degli scrittori assai maggiore di quella che mostrano per «l’inflazionata materia del noir» — l’abitudine dei ragazzi di stravaccarsi in treno appoggiando «le scarpe sul sedile di fronte, senza nessun riguardo per chi dovrà in seguito sedervisi» (in seguito, beninteso) e l’abbondare di rifiuti d’ogni sorta sui cigli delle strade statali (statali, non provinciali, comunali e cantonali, che sono invece pulitissime): «pacchetti vuoti di sigarette (l’osservazione può utilmente documentare il livello del mercato, indicando le marche più vendute), sacchetti di plastica pieni e vuoti [gli scrittori prestino la massima attenzione: pieni, ma anche vuoti!], bottiglie di vetro e di plastica [di cartone manco l’ombra], tetrapak per i più vari alimenti [non, si badi, per un solo alimento!], vaschette di carta alluminio, fazzoletti di carta [non già di ferro, né di creta] fatti volare da automobilisti certo tanto attenti all’igiene personale».
Questo per la pars destruens. Quanto alla construens, il grande storico della letteratura propone una ricetta altrettanto semplice che risolutiva: la forma breve del racconto, «oggi la più adatta a toccare la frammentarietà e la pluralità dell’esperienza, a scavarne il senso con tensione linguistica ed espressiva: essa può costituire una risposta critica allo zapping interminabile della comunicazione e alla sua apparente continuità e scorrevolezza, all’aggressione sistematica della televisione e della pubblicità. La relativa brevità dei racconti rispecchia in fondo lo spezzettarsi della realtà che oggi ci è dato […]. Proprio nel suo proiettare, a livelli diversi, questi frantumi […], il racconto si fa carico della residua possibilità dello stile e della ricerca linguistica, cose che non hanno ormai più spazio nel romanzo, condotto dalla rapidità e scorrevolezza della scrittura informatica a dare immagini illusorie, fittizie, mistificatrici».
Questione di misure, dunque, nient’altro che di misure. Vi hanno insegnato che esistono romanzi buoni e meno buoni, racconti bene e mal fatti, scritture forti e spesse e scritture grigie e futili, a prescindere dai temi trattati e dal numero delle pagine su cui si stendono? Ebbene, avete avuto pessimi maestri. Si sa, il romanzo è troppo lungo per poter riflettere «lo spezzettarsi della realtà» (solo il breve può essere specchio del frammentario e della pluralità esperienziale), ed è troppo rapido per non dare «immagini illusorie, fittizie, mistificatrici».
Avevamo la panacea sotto gli occhi e non lo sapevamo.
Scrittori, improvvisati o di razza, grandi o minimi che siate, accorciate le misure, basate le vostre narrazioni sui ragazzi stravaccati nei treni e tutti i mali della letteratura italiana saranno d’incanto sanati.

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