Oltre al sonno e alla concentrazione ci sono anche altre cose che non sono state dette a nessuno. Giornate intere che scompaiono, e brevi attimi che diventano un’eternità. (Peter Høeg)
Vetro di clessidra che si frantuma
al volgere del tempo in anni sparsi
di granelli impalbabili e pesanti
E le mani come interstizi tra mattoni
a raccogliere il poco come sporco
Ma nei frammenti piccoli di vetro
l'occhio si specchia in mille forme
Non si capisce e attonito si volge
verso un sole abbagliante che non brucia
A piedi nudi poi ci passo sopra
Con tiepida allegria mastico aria
Del poco che rimango m'accontento
Spumanti bevo i giorni che verranno
L'uva dei sogni alla tua bocca regalo
Stava lì ad aspettare
che qualcosa accadesse
Camminava come uno
che cerca ma non sa
ancora che cosa chi
La strada come lama
a tagliare piedi e forze
Il vento un respiro prestato
Montagne di ricordi
Nessun rimpianto
Qualche sogno stanco
Sotto i passi fango
tra le mani polvere
La città insolente
alle spalle nel buio
crescente della statale
Andava spedito avanti
ma sembrava fermo
nell'oscurità intorno
Un camionista strombazzò
evitandolo Sussultò e rise
alzando il dito medio teso
È natale pensò Perché
Nessuna stella particolare
soltanto nebbia densa
E un cartellone rotto
pendeva sulla strada
tutto rosso e dorato
Lo irritò e scese giù
scavalcando il guard-rail
giù in un campo sterposo
Inciampando cadde
e rimase là seduto
a guardare niente
mentre una mucca
silenziosa sul collo
gli alitava calore
All'alba quasi
si ricordò uno smash
di John Newcombe
Un ufo un dinosauro
e quarantaquattro gatti
lo chiamarono per nome
Si alzò e riprese a camminare
Recentemente ho avuto modo di leggere Scritture a perdere. La letteratura negli anni zero di Giulio Ferroni (Laterza, 2010). Devo ammettere che poche altre volte, visto l’autore, mi è capitato di leggere pagine tanto carenti di significato e di interesse. Il libello appare in tutto e per tutto come una dissertazione liceale sulla letteratura contemporanea, anche a una lettura a salti come è stata la mia. Ammetto di non essere riuscito a sorbire tutto: fin dalle prime righe è chiara l’impostazione superficiale e c’è davvero da augurarsi che a redigere il testo sia stato un sottopagato ricercatore della Sapienza, Facoltà dove Ferroni è ordinario di letteratura italiana. È anche difficile scrivere una qualunque forma di critica a questo testo: tanto sono sorpassati gli argomenti che una critica finirebbe essa stessa per essere insignificante. Per fare solo un esempio, aprendo una pagina a caso: “… con romanzi fluviali, la cui velocità di scrittura è resa particolarmente agevole dal computer, che tra l’altro permette anche giochi di copia-incolla, con la possibilità di appropriazioni e riciclaggi da Internet di testi di varia origine raramente identificabili (riciclaggi sempre giustificabili rinviando alle teorie dell’intertestualità, del postmoderno e della combinatoria universale)”. Si rimane a bocca aperta, questo è quanto. Per inciso, d’Annunzio – tanto per fare un altro esempio a caso - era solito “riciclare” testi altrui, ma lo faceva direttamente dai libri, vista l’impossibilità di usare la rete. Tanta distanza dalla contemporaneità è abbastanza grave per un comune cittadino, figuriamoci per un docente universitario. Come dire che negli anni Zero (anni Dieci ormai) la Letteratura è morta, ignorando che internet ormai non si scrive più con la I maiuscola, quasi fosse un’entità estranea con personalità propria, ma che è una parte integrante dell’esistenza degli individui (occidentali, quantomeno). Bisogna tornare a distinguere la produzione letteraria dal mercato letterario; senza avere chiara in mente la distinzione si potrebbe facilmente concordare con il ragionamento di Ferroni. Il vero problema, inutile nasconderlo, è la sostenibilità economica delle pubblicazioni, ma nel nostro paese questo è un problema vecchio almeno quanto l’editoria. Che poi la comunicazione di massa stia imponendo nelle classifiche di vendita il ricettario di una sconosciuta giornalista di emittente privata è fatto acclarato e di cui ci si può dolere, ma intanto qualcuno quei libri li compra sulla scia della notorietà dell’autore. Trovare oggi un solo campo dove ciò non accada è impossibile. L’unica speranza – guarda caso - la dà proprio la rete, quel macchinario infernale che moltiplica la spazzatura letteraria in circolazione, l’unico luogo però dove una forma di promozione a costo zero è ancora pensabile. Dal punto di vista della produzione letteraria invece non vedo la tabula rasa descritta da Ferroni, vedo più che altro che gli autori rappresentativi di questo tempo non vengono pubblicati, semplicemente, che non vuol dire non esistano o non scrivano. È una forma di ottundimento, certo, di controllo sociale, d’altronde la realtà oggettiva ci racconta di una quasi totalità di editori “forti” che fanno capo sempre agli stessi imprenditori e di una galassia di microeditori che nulla possono e che tutto pubblicano, purché a pagare sia l’autore. Nulla di nuovo, non c’era bisogno di scriverci un libro e di pubblicarlo aumentando la ridondanza. La letteratura del Novecento è superata e non c’è niente che si possa fare in questo senso, è un avvenimento naturale che la nostalgia non può invertire. Così come la nostalgia non dovrebbe diventare patina cerulea sulle lenti attraverso cui si vede il mondo. Detto questo, non è la prima volta nella storia che la letteratura – quella vera - si infila nell’ambiente underground e lì si sviluppa come una muffa in una cantina buia e umida per poi riemergere quando i tempi sono migliori. Banale evidenziare che se non si va a curiosare in quella determinata cantina non si troveranno tracce di muffe. Quella cantina oggi è internet, un mezzo grazie al quale gli autori si tengono in contatto e possono informarsi sulle produzioni degli altri, sui fermenti, sulle idee che vengono condivise per formare l’intelligenza collettiva, possono raggiungere un certo tipo di pubblico e farsi conoscere anche al di fuori dell’ala protettiva di un editore. Oggi per un autore è possibile prima trovare autonomamente lettori nel web, e poi – grazie a questo - magari trovare un editore. Una manciata d’anni fa non sarebbe stato possibile. Credere che la letteratura contemporanea sia quello che si trova in libreria dimostra una certa ingenuità. Quello che si trova in libreria è quello che si trova in libreria; se a febbraio non ci sono ciliegie in Italia non significa che altrove – dove il clima è favorevole - non stiano maturando o siano già mature. La Letteratura oggi è anche internet, e i veri giochi sono quelli che gli “accademici” fanno trasformando semanticamente una citazione in un’azione di riciclaggio di testi ignoti, snobbando la velocità della scrittura che si adegua ai modi del proprio tempo, al ritmo della contemporaneità asciugando il linguaggio, deliricizzando la narrazione, riducendo drasticamente la lunghezza dei testi, e sparano a zero su quello che probabilmente faticano a comprendere. Non per questo i processi evolutivi della cultura si fermeranno, pubblicazioni – scritture a perdere - come questa di Ferroni rendono al contrario ancora più marcata la necessità di un rinnovamento anche del panorama intellettuale italiano. Naturalmente a tutto questo c’è da aggiungere la poca voglia degli autori di infastidire l’editore con argomenti delicati o scomodi, lo scandaloso livello culturale medio in questo paese e gli investimenti inesistenti per rimediarvi, il quindicennale problema della concentrazione di potere politico e mediatico nelle stesse mani, lo stato pietoso della televisione pubblica, gli ostacoli alla diffusione e al libero accesso alla rete, il disfacimento della scuola, la mancanza di mecenati e di critica coraggiosa. Ma è un altro, lungo discorso.
Roba da robivecchi i tuoi ricordi roba da beccamorti andrebbero sepolti! Tu invece te li coccoli li accarezzi li soccorri A volte te li baci come se potessi rianimarli Il fatto è che l' anima non ce l' hanno e nemmeno più un corpo Hai mai visto un ricordo risorto?
II
Non è lo stesso rivederti in bianco e nero in un cinema assonnato che ha perduto il suo mistero Non è lo stesso ricordarsi le battute e perfino cosa dicono le scroscianti scene mute Non è lo stesso ritrovarsi nei paesaggi di una storia che riappare solo perché crea miraggi Non è lo stesso riconoscere il racconto e sapere che alla fine sarò io a pagare il conto
Che ti facessero un bunga bunga
in tel kül e ti mettessi a piangere
perché ti è piaciuto E ti cadesse
il bigolo arrugato skiantato da tir
Ti raccattassero poi ignudo urlante
in autostrada struccato e laido
come Chuky bambolotto orribile
con le mani insanguinate e sozze
Ti processassero per direttissima
e ti mandassero in Antartide a vita
ché non ti meriti nemmeno carcere
ma sparizione e silenzio per sempre.
Biglietti:
12 euro intero
7 euro ridotto
3 euro tessera
3-4-5-6-7 Novembre 2010
h. 21:00 - Domenica h. 18:30
POSTI LIMITATI PRENOTATE
PRENOTAZIONE SEGRETERIA TELEFONICA
TEL: 06 44 23 80 26
PRENOTAZIONE e mail: teatrokeiros@gmail.com
Tra fissazioni, paure, idiosincrasie e genialità, si dipana la storia tragicomica di Anne H. una donna sola, in una strana casa, dove gli oggetti ricordano oppure le muovono guerra. Incapace di vivere la banalità del quotidiano casalingo, Anne, professoressa universitaria di Geometria Frattale, pur essendo una fertile mente scientifica, vive una realtà assolutamente sfasata. Non riesce ad adoperare oggetti di uso comune, le piace la maionese, ma non riesce ad adoperarne i tubetti; non sa cucinare, brucia tutto e praticamente mangia solo insalate in busta e beve solo caffè solubile; odia le penne stilografiche perché la macchiano; fuma solo sigarette senza filtro per evitare di fumarle dalla parte sbagliata. E soprattutto non accetta la morte della madre e finge che non sia avvenuta. Intanto uno sconosciuto, sbagliando numero, lascia messaggi d'amore e richieste d'appuntamenti alla sua segreteria telefonica. Questo elemento di disturbo innescherà un meccanismo stimolatore di incubi e di identificazione fra lei e la madre e fra l'uomo che telefona e il padre di Anne, che scopre di essere stata dipendente dalla figura del padre e gelosa della madre. Risolverà tutto attraverso alcuni sogni chiarificatori e con il coraggio di staccarsi dalle figure dei genitori per ricominciare ed essere veramente Anne. Un'ultima divertente lotta con gli oggetti, i terribili innocui oggetti che finalmente si arrendono: avviene una vera e propria metamorfosi. Finalmente donna, finalmente sé stessa Anne alla fine risponderà al misterioso uomo che telefona. Sorprendendolo e sorprendendoci.
[...] Un’ultima considerazione su questo romanzo è che, fin dal titolo, esso si presenta come una “confessione”. E allora tornano in mente in modo irresistibile le illuminanti pagine del saggio della filosofa spagnola Maria Zambrano su La confessione come genere letterario, dove l’analisi trascorre da Sant’Agostino a Rousseau, da Kierkegaard a Baudelaire, da Dostoevskij a Rimbaud, ai surrealisti etc. Dice la Zambrano che la confessione ricuce la frattura drammatica della Cultura Moderna, incapace di connettere “la verità della ragione e la verità della vita”. La confessione che si verifica dentro il tempo reale stesso della vita, subisce la sua confusione, il suo caos, la sua frammentarietà ed incompiutezza. Essa è, allora, la massima azione che si può compiere con la parola su se stessi, sul proprio essere/esserci. Con la confessione l’uomo cerca la parola che, a viva voce, possa gridare la verità della vita, spesso opposta a quella della ragione, cerca la definitiva intimità con sé, il punto in cui si cessa di sentirsi estranei nella propria casa-anima. Ecco, immergendosi nel flusso rammemorante della confessione, Tiziana Colusso è come se si fosse riposizionata presso se stessa, identificandosi per via espressiva con una donna sotterranea, una dostoevskijana donna “del sottosuolo” che, dopo la catabasi, è in attesa di poter compiere la sua agognata anabasi.
-Dammi otto buoni motivi perché non debba ucciderti- mi disse il terrorista col coltello Il mio cuore era in assedio Sentivo la lama sulla gola scorrere Non sapevo che dire e avevo timore Di non saper contare fino a nove Ma mi feci coraggio e segnando Con le dita cominciai: -Perché sono tuo amico- dissi esitante -Perché tengo famiglia- supplicai -Perché devo terminare il mio romanzo in dieci tomi -Perché non ho mai visto New York!- Sudavo freddo, perdevo colpi: il coltello Sul mio collo cercava uno zampillo Mi mancavano quattro ragioni -Perché non sono pronto-urlai -Perché voglio morire da eroe- Niente, non ero convincente E ne mancavano due Che non avessi un motivo? Non uno per volermi vivo? -Perché io sono un essere innocuo- Provai a impietosirlo E fu in quel momento che si aprì l’ abisso Io, che ero io, non ne avevo mezzo, di appiglio Sentii tutto crollarmi, mi sfilarono davanti gli anni Vidi il cielo gonfiarsi E aspettavo ormai che agisse ...Sono troppo poco Ulisse Per la tua isola, Circe... Eppure Ancora qualcosa mi tratteneva Qualcosa che scorreva in ogni vena Come un torrente, una rabbia, un insulto, una violenza E dissi -Perché voglio sopravvivermi!-
In un pamphlet non meno fatuo e rotondamente innecessario dei bersagli su cui scocca da anni le sue infiammate saette (Scritture a perdere. La letteratura negli anni zero, Roma-Bari, Laterza, 2010) Giulio Ferroni avverte impellente il bisogno di dirci — spacciando vieti truismi per gemme sapienziali e condendoli con un’enfasi retorica da umiliare il più navigato «scrittore di successo» — che i programmi di Maria De Filippi, «scuola dello scorrevole nulla», proiettano «ogni aspetto dell’esistere in funzione dell’evidenza televisiva» e «dell’espansione spettacolare»; che i reality show, la televisione del dolore, le esibizioni di dilettanti sono i modelli in cui il voyeurismo tocca la sua apoteosi; che i talk show, non che produrre informazione, si risolvono in «gare di apparenza» dove non conta la ricerca della verità ma la mortificazione dell’avversario, e i valori proposti da molti telefilm «tracciano modelli di un mondo senza altri orizzonti che non siano quelli di un esistere come consumo»; che la società della comunicazione, luogo «dell’esteriorizzazione dell’esperienza» e della «serialità illimitata», determina l’inflazione della cultura e l’azzeramento d’ogni coscienza critica e riflessiva; che non tutti i libri sono buoni, ergo bisogna stamparne di meno, privilegiando la qualità, ossia la «ricerca dell’essenziale» (sic!); che il corpo di Eluana Englaro è stato costretto a una vita indegna di questo nome e gridano vendetta le parole del presidente del Consiglio, «giunto a dire che la condizione della ragazza era tale da permetterle comunque di partorire»; che si va imponendo sempre più il modello del mercato, per cui la validità di un prodotto artistico è determinata in base alle vendite e all’audience; che lobbies e conventicole lasciano ben poco spazio alla libertà e all’indipendenza degli autori, mentre gli intellettuali si sono ormai arresi «alle forme del degrado quotidiano, all’aggressiva necessità dell’esibizione, […] ai modelli di vita e di comunicazione suggeriti e imposti dai media». Fior di concetti di cui rigurgitano le gazzette, la blogosfera, i salotti televisivi, i centri anziani, i circoli del tennis, i comitati di quartiere, i bar dello sport. Ma l’originalità del critico romano non ha confini. Col tono di chi svela le leggi dell’universo il nostro passionario tiene a puntualizzare nientemeno che Internet — come i coltelli, le seghe elettriche, gli aghi, l’energia atomica e il curaro — può essere un’arma a doppio taglio: «dipende sempre dalla coscienza e dall’intento di chi lo usa»; che Gomorra — dato altrettanto sacrosanto che proverbiale — non è poi un gran pezzo di letteratura; che i romanzi noir italiani non hanno carica critica e si somigliano come gocce d’acqua (toh, credevamo fossero capolavori assoluti); che la Mazzantini è una narratrice sciatta, la scrittura di Paolo Giordano neutra, plastificata, priva di qualunque accensione, e Stabat mater di Tiziano Scarpa uno stanco racconto di vicende banali, «senza nessun colore e nessuna ‘verità’ storica», come se nessuno sapesse che si tratta d’operazioni commerciali preparate a tavolino da editor sletterati e manager rampanti, figlie e sorelle di, col simbolo del dollaro stampato in fronte; che la critica letteraria è ormai del tutto esautorata e s’è ridotta a squallida propaganda editoriale; che meritano il più acceso biasimo — nonché un’attenzione degli scrittori assai maggiore di quella che mostrano per «l’inflazionata materia del noir» — l’abitudine dei ragazzi di stravaccarsi in treno appoggiando «le scarpe sul sedile di fronte, senza nessun riguardo per chi dovrà in seguito sedervisi» (in seguito, beninteso) e l’abbondare di rifiuti d’ogni sorta sui cigli delle strade statali (statali, non provinciali, comunali e cantonali, che sono invece pulitissime): «pacchetti vuoti di sigarette (l’osservazione può utilmente documentare il livello del mercato, indicando le marche più vendute), sacchetti di plastica pieni e vuoti [gli scrittori prestino la massima attenzione: pieni, ma anche vuoti!], bottiglie di vetro e di plastica [di cartone manco l’ombra], tetrapak per i più vari alimenti [non, si badi, per un solo alimento!], vaschette di carta alluminio, fazzoletti di carta [non già di ferro, né di creta] fatti volare da automobilisti certo tanto attenti all’igiene personale». Questo per la pars destruens. Quanto alla construens, il grande storico della letteratura propone una ricetta altrettanto semplice che risolutiva: la forma breve del racconto, «oggi la più adatta a toccare la frammentarietà e la pluralità dell’esperienza, a scavarne il senso con tensione linguistica ed espressiva: essa può costituire una risposta critica allo zapping interminabile della comunicazione e alla sua apparente continuità e scorrevolezza, all’aggressione sistematica della televisione e della pubblicità. La relativa brevità dei racconti rispecchia in fondo lo spezzettarsi della realtà che oggi ci è dato […]. Proprio nel suo proiettare, a livelli diversi, questi frantumi […], il racconto si fa carico della residua possibilità dello stile e della ricerca linguistica, cose che non hanno ormai più spazio nel romanzo, condotto dalla rapidità e scorrevolezza della scrittura informatica a dare immagini illusorie, fittizie, mistificatrici». Questione di misure, dunque, nient’altro che di misure. Vi hanno insegnato che esistono romanzi buoni e meno buoni, racconti bene e mal fatti, scritture forti e spesse e scritture grigie e futili, a prescindere dai temi trattati e dal numero delle pagine su cui si stendono? Ebbene, avete avuto pessimi maestri. Si sa, il romanzo è troppo lungo per poter riflettere «lo spezzettarsi della realtà» (solo il breve può essere specchio del frammentario e della pluralità esperienziale), ed è troppo rapido per non dare «immagini illusorie, fittizie, mistificatrici». Avevamo la panacea sotto gli occhi e non lo sapevamo. Scrittori, improvvisati o di razza, grandi o minimi che siate, accorciate le misure, basate le vostre narrazioni sui ragazzi stravaccati nei treni e tutti i mali della letteratura italiana saranno d’incanto sanati.
I luoghi d’accoglienza emanano sempre un forte senso di non appartenenza, di gradevole insignificanza estetica, comodità fisica precaria; si è soli, in un luogo che si è pronti a lasciare senza rimpianti, ma dove pure è piacevole stare. Senza quell’attaccamento spasmodico che invece ci consuma a casa nostra. E che ci fa soffrire. Anche gioire, ma sempre con un filo sottile di paura celata.
Dovremmo vivere come in un Hotel, con cura e semplicità dell’esserci, pronti al distacco. Pienamente presenti. Tentare almeno.
«Il mio primo 11 settembre storico risale al 1973, la democrazia cilena di Salvador Allende rovesciata dal colpo militare del generale traditore Pinochet, la morte in combattimento del presidente. Fu un 11 settembre che mobilitò la gioventù del mondo nelle piazze, a lungo, e la nostra in particolare. L' 11 settembre delle torri crollate invece mi riguardò come spettatore inerte abbagliato dalla televisione che ripeteva all'infinito i fotogrammi spettacolari del disastro. La reazione del secondo 11 settembre non fu popolare e mondiale, ma occidentale e militare, con le irrisolte conseguenze di truppe spedite in Afganistan e Irak».
A vent’anni dalla princeps (Milano, Leonardo, 1990) Franco Cordelli riesuma per i tipi dell’editore romano Giulio Perrone L’Italia di mattina — con l’aggiunta del sottotitolo Il romanzo del Giro d’Italia benché non vi si narri nulla di nulla —, infliggendo al pubblico dei lettori l’ennesimo castigo.
Giro d’Italia 1989. Un cronista-scrittore di nome Scipione racconta, tappa per tappa, la corsa ciclistica; attraversa paesi e città — da Taormina a Trento, con traguardo a Firenze. Porta con sé libri e domande: viaggia, legge, si interroga. «Scipione scriveva e i corridori gli correvano intorno», attraverso un’Italia che lo sorprende per luce e bellezza.
Così il risvolto di prima (vergato certo dallo stesso autore, come si evince dall’inutile lineetta, dal supervacaneo «viaggia» dopo il perfetto equipollente «attraversa paesi e città», e soprattutto dagl’ineffabili corridori correnti). Ottima idea, non c’è che dire. Sennonché il libro è quanto di più stucchevole, scombinato e indigesto sia stato prodotto nell’ultimo mezzo secolo dall’editoria non solo italiana. Periodi fluviali, caotici, spesso resi indecifrabili da deficiente controllo sintattico e da accessi lirici tanto involuti che fuor di luogo:
fu ucciso per le stesse ragioni per cui fu ucciso, a pochi chilometri di distanza, il figlio della donna a causa delle cui lacrime ciò che vive [ciò che vive?] poté diventare non solo ciò che si pietrifica e smette di pulsare [sarebbe?], ma anche ciò che cova sotto la cenere, “sotto il vulcano” [sì sì, il romanzo di Malcolm Lowry; e allora?], ed è prima o poi destinato a tornare alla luce, sia pure sotto altra forma — come in un poema di Ovidio [deve trattarsi delle Metamorfosi; ma perché quello là fu ucciso?];
se il ciclismo ha in sé la forza di superare se stesso [predicato estensibile a qualunque sport], di tirarsi fuori dagli impicci di ciò che sta ai margini [impicci di ciò che sta ai margini?] ed è quindi egoistico per chi vi soggiorna [soggiorna dove, nel ciclismo? non può essere: il ciclismo non è un luogo] e claustrofobico per chi vi transiti [idem] (il solitario Giuliani aveva concluso la sua fuga, senza conquista della maglia rosa ma con una vittoria “etica”), ciò che lo ha generato [generato che cosa?] o semplicemente protegge il nocciolo agonistico, la sua perla, ogni volta che non trovi uno sbocco sul mare e che dal fuoco [che mare? quale fuoco?] non riesca a ripercorrere la strada all’indietro, fatalmente precipita in un suo buio più oscuro del buio precedente [chi, che cosa precipita?];
se non facciamo fatica a capire le ragioni che spingono chi possiede privilegi ancora maggiori [maggiori di quali?] a ordinare ai carri armati di tutto travolgere davanti a sé, c’è quel guizzo di irragionevolezza che resiste a ogni spiegazione [be’, certo, se è irragionevole non può non resistere a ogni spiegazione] nel gesto di sacrificare la propria bicicletta — la propria vita — gettandola sotto il carro armato, o lasciando che l’enormità e la pesantezza della macchina da guerra polverizzi ciò che è leggero e a tutti i costi vuole restare tale [la bicicletta? questa la risposta esatta?].
Incredibili banalità profuse a piene mani, truismi, tòpoi e modismi da agghiacciare il più paziente e volenteroso dei lettori: «vendere cara la pelle», «c’è chi vince e c’è chi perde», «senza arte né parte», «al suo paese, che si chiamava Pozzillo — e che Pozzillo si chiama tuttora, naturalmente [naturalmente, appunto]»; «i padri debbono accettare i proprio [sic] figli», «svettano i pioppi» [già, cos’altro può fare un pioppo se non svettare?], «inscrivere il suo nome nella leggenda» [16.700 risultati in Google], «bagliori sinistri» [2.280]. Improprietà, goffaggini, asserti peregrini se non esattamente irrazionali, veri e proprî sfondoni:
la hall tutta vetri e specchi, organizzata in modo che non sembrasse avere un centro» [organizzata? fino a prova contraria, un ambiente non si organizza, si arreda];
Le difficoltà improvvise, che si presentino nella seconda o nella penultima tappa, sono sempre suscettibili di rievocare ciò che fu, di chiamare i corridori all’imitazione delle grandi gesta del passato [suscettibile significa ‘capace di subire alterazioni, modificazioni’, ergo ha valore passivo, non attivo];
— Noi di Sicilia siamo diversi — aveva detto il pescatore: senza orgoglio, come di chi dica una verità lapalissiana [recte: come chi dica];
Già il capoluogo, nell’avvistarlo dall’alto e da lontano, era una smentita alla contemporaneità urbana [come dire: Giovanni, nel guardarlo, è bello?]; quel paese mitico […] dove settant’anni prima nacque Fausto Coppi [recte: era nato];
Era il Diario siciliano di Ercole Patti […]. Ogni brano risultava puntigliosamente contrassegnato da una data — novembre 1932, settembre 1936 [a) se un diario (dal lat. diarius ‘di un giorno’) non contenesse date che diario sarebbe?; b) puntigliosamente? Tutt’altro: manca il giorno];
nessuno potrebbe negare che non c’è più vero scrivere, nel nostro secolo, di quello giornalistico [nessuno? eserciti di letterati di prim’ordine sarebbero pronti a giurare solennemente il contrario];
il paesaggio in un racconto è ciò che viene detto ambiente, le circostanze etniche e morali che danno luogo all’azione [le circostanze etniche e morali costituirebbero l’ambiente di un racconto? in quale testo di narratologia sarà mai scritto?];
i corridori avevano affrontato disagi e fatiche considerevoli, che la maggior parte dei tifosi di tutti gli altri sport non immaginano [perché, il pugilato, l’alpinismo o la maratona sono passeggiate di salute?];
rosso-arancione-verde [è universalmente noto che i colori del semaforo sono il rosso, il verde e il giallo, non l’arancione].
«Ho nostalgia, desiderio di una prosa sorvegliata» dichiara il romanziere romano nell’intervista in appendice al volume. Per davvero?
Un mese fa è scomparso Gabriele Mandel Kahn, Maestro Sufi, uomo di sterminata cultura, rappresentante del miglior Islam illuminato, è stato divulgatore e traduttore di molte opere, tra le quali mi piace citare il canzoniere di Rûmî il grande poeta mistico persiano. Impegnato quale uomo di pace al dialogo tra le varie religioni, ha attraversato il secolo passato e questo primo decennio, quale vero maestro, d'arte, filosofia, umanità.
Sul suo sito si possono ammirare anche le sue opere di ceramica.
Non l'ho mai conosciuto di persona, ma attraverso sua figlia Paola, mia cara amica, ero entrato nella sua mailing list, grazie alla quale ricevevo lettere di saggezza e conoscenza.
Qualche mese fa, la notizia della sua malattia, da lui accolta come un'opportunità, utile al suo risveglio interiore; così scriveva nella sua lettera agli amici:
«Voi tutti sapete oramai che ho un tumore al polmone, che la chemioterapia è pesante da sopportare, che la via alla guarigione è lunga e piena di imprevisti.
Ne sono felice. Perché? Ero giunto ad un momento della mia evoluzione sufi in cui non progredivo più, in cui perfino cominciavo a dubitare dell’esistenza di Dio, in cui nulla mi soddisfaceva e nulla avevo più voglia di fare quasi che la fonte dell’ispirazione che alimentò per oltre sessantanni la mia vita si fosse esaurita.
Ed ecco: questa situazione invece mi insegna molto, l’evoluzione ha ripreso forza, imparo ancora, progredisco ancora. Adesso ho abbandonato ancor più alcuni concetti illusori, ho ridimensionato i valori, ho iniziato a far ordine fra le mie troppe scartoffie e a liberarmi da quelle inutili buttandole via.
Ringrazio Dio di avermi dato la possibilità di continuare a credere in Lui, ad adorarLo con l’intensità necessaria a capire sempre di più come il Sufismo ci prende per mano e ci conduce all’essenza del misticismo, lontano dagli orpelli del mondo terreno deleterio transitorio e vano.
Tutto il tempo che trascorriamo nelle vicende materiali vane nell’Aldilà sarà vanificato; tutto il tempo che nel mondo fenomenico dedichiamo sinceramente a Dio nell’Aldilà sarà per noi una testimonianza favorevole.
Che bella evoluzione, Dio, che bel vigore, che bel dono mi hai fatto! Grazie.
Gabriele»
La grandezza di un uomo, la sua forza, la sua fede.
L'ho ammirato e mi ha commosso per queste sue parole e questa serenità, questo entusiasmo, fino alla fine. Che è soltanto un passaggio.
Qualche anno fa scrissi su Mirkal una nota su una foto molto particolare che lo ritraeva in India con uno shadu senz'ombra, al Maestro piacque e la ripropongo, per chi volesse leggerla, qui.
Di seguito i video di un documento intervista, molto bello, in cui Mandel si racconta, comunica, trasmette, il suo pensiero, la sua esperienza. Ne consiglio vivamente la visione.
Mi piace pensare che, se non qui, un giorno lo incontrerò, da qualche altra parte, dove tutto è luce, pace, gioia.
Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga,
fertile in avventure e in esperienze.
I Lestrigoni e i Ciclopi
o la furia di Nettuno non temere,
non sarà questo il genere d'incontri
se il pensiero resta alto e il sentimento
fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.
In Ciclopi e Lestrigoni, no certo
né nell'irato Nettuno incapperai
se non li porti dentro,
se l'anima non te li mette contro.
Devi augurarti che la strada sia lunga,
che i mattini d'estate siano tanti
quando nei porti - finalmente e con che gioia -
toccherai terra tu per la prima volta:
negli empori fenici indugia e acquista
madreperle coralli ebano e ambre
tutta merce fina, anche aromi
penetranti d'ogni sorta, più aromi
inebrianti che puoi,
va in molte città egizie
impara una quantità di cose dai dotti.
Sempre devi avere in mente Itaca
- raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull'isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
in viaggio: che cos'altro ti aspetti?
E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso,
Già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.
Σα βγεις στον πηγαιμό για την Ιθάκη,
να εύχεσαι νάναι μακρύς ο δρόμος,
γεμάτος περιπέτειες, γεμάτος γνώσεις.
Τους Λαιστρυγόνας και τους Κύκλωπας,
τον θυμωμένο Ποσειδώνα μη φοβάσαι,
τέτοια στον δρόμο σου ποτέ σου δεν θα βρεις,
αν μέν’ η σκέψις σου υψηλή, αν εκλεκτή
συγκίνησις το πνεύμα και το σώμα σου αγγίζει.
Τους Λαιστρυγόνας και τους Κύκλωπας,
τον άγριο Ποσειδώνα δεν θα συναντήσεις,
αν δεν τους κουβανείς μες στην ψυχή σου,
αν η ψυχή σου δεν τους στήνει εμπρός σου.
Να εύχεσαι νάναι μακρύς ο δρόμος.
Πολλά τα καλοκαιρινά πρωιά να είναι
που με τι ευχαρίστησι, με τι χαρά
θα μπαίνεις σε λιμένας πρωτοειδωμένους·
να σταματήσεις σ’ εμπορεία Φοινικικά,
και τες καλές πραγμάτειες ν’ αποκτήσεις,
σεντέφια και κοράλλια, κεχριμπάρια κ’ έβενους,
και ηδονικά μυρωδικά κάθε λογής,
όσο μπορείς πιο άφθονα ηδονικά μυρωδικά·
σε πόλεις Aιγυπτιακές πολλές να πας,
να μάθεις και να μάθεις απ’ τους σπουδασμένους.
Πάντα στον νου σου νάχεις την Ιθάκη.
Το φθάσιμον εκεί είν’ ο προορισμός σου.
Aλλά μη βιάζεις το ταξείδι διόλου.
Καλλίτερα χρόνια πολλά να διαρκέσει·
και γέρος πια ν’ αράξεις στο νησί,
πλούσιος με όσα κέρδισες στον δρόμο,
μη προσδοκώντας πλούτη να σε δώσει η Ιθάκη.
Η Ιθάκη σ’ έδωσε τ’ ωραίο ταξείδι.
Χωρίς αυτήν δεν θάβγαινες στον δρόμο.
Άλλα δεν έχει να σε δώσει πια.
Κι αν πτωχική την βρεις, η Ιθάκη δεν σε γέλασε.
Έτσι σοφός που έγινες, με τόση πείρα,
ήδη θα το κατάλαβες η Ιθάκες τι σημαίνουν.
(Από τα Ποιήματα 1897-1933, Ίκαρος 1984)
Il video è tratto dall'ultima scena di «Cavafy», film diretto nel 1996 da Yiannis Smaragdis (con Dimitris Katalifos nel ruolo del titolo). Il video si rivela interessante esclusivamente perché ci permette di ascoltare il testo greco. Il film in realtà verte sugli aspetti passionali della vita di Kavafis, lasciando purtroppo sullo sfondo il Kavafis poeta.
Le Pagelle di Antonio Pizzuto furono pubblicate dal Saggiatore di Alberto Mondadori, con versione francese e note della svizzera Madeleine Santschi, in due distinti volumi di venti componimenti ciascuno: Pagelle I (1973) e Pagelle II (1975). Le stampe, licenziate ma non sorvegliate dall’autore, erano gremite a tal punto di mende tipografiche, sviste, errori da risultare a tratti indecifrabili. Pagelle rappresenta un momento capitale nell’evoluzione stilistica del prosatore più sperimentale dell’altro secolo: il passaggio dal regime delle lasse («episodi» iscritti in un unico disegno narrativo, ancorché fruibili nella loro essenza di blocchi compatti, e dominati dall’imperfetto, tempo della duratività e dell’indeterminazione) a quello appunto delle pagelle (brevi componimenti in sé conclusi, caratterizzati dalla soppressione del verbo ai modi finiti con relativa, inevitabile disgregazione di personaggi e vicende). Per Gualberto Alvino, meticoloso curatore di questa edizione critica commentata, «Pagelle costituisce principalmente l’atto di nascita della cosiddetta ‘sintassi narrativa’, spina dorsale del narrare opposto al raccontare: questo consistendo nella registrazione d’un dipanarsi d’eventi cristallizzati nella loro impartecipabile compiutezza, quello componendo l’aporia di tradurre l’azione in rappresentazioni col sancire la riduzione del fatto a pura astrazione».
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La presentazione della raccolta, che è anche un manifesto poetico della collana, è di Alessandra Terniche ha scritto per noi:
Oppressi da tempi cupi non abbiamo smesso di pensare a costruire una società civile. Chiusi nelle case tra muri di non ascolto non abbiamo smesso di essere gli uomini che siamo. Troppo spesso impossibilitati ad agire diamo il nostro contributo ai giorni con opere invisibili, nascoste e potenti quanto la nostra forza costretta. Sommersi dal chiacchiericcio riusciamo a parlarci. Spegniamo gli schiamazzi insulsi dei battibecchi in tv e urliamo il nostro dissenso. Sul nomeincodicecesare risputiamo il veleno pensando a Shakespeare. Non scriviamo alla moda. Non amiamo patinato. Amiamo i corpi vivi di chi abbiamo riconosciuto O ci ha riconosciuti. Le nostre vite non trascorreranno invano. Tracciamo solchi, cresciamo figli con fatica, impegno e l'entusiasmo della costruzione E quando le vite passano e le case restano ci sediamo nel vuoto tra le cose che hanno perduto senso. Un lampo di luce. E scriviamo poesie