Giro d’Italia 1989. Un cronista-scrittore di nome Scipione racconta, tappa per tappa, la corsa ciclistica; attraversa paesi e città — da Taormina a Trento, con traguardo a Firenze. Porta con sé libri e domande: viaggia, legge, si interroga. «Scipione scriveva e i corridori gli correvano intorno», attraverso un’Italia che lo sorprende per luce e bellezza.
Così il risvolto di prima (vergato certo dallo stesso autore, come si evince dall’inutile lineetta, dal supervacaneo «viaggia» dopo il perfetto equipollente «attraversa paesi e città», e soprattutto dagl’ineffabili corridori correnti).
Ottima idea, non c’è che dire. Sennonché il libro è quanto di più stucchevole, scombinato e indigesto sia stato prodotto nell’ultimo mezzo secolo dall’editoria non solo italiana.
Periodi fluviali, caotici, spesso resi indecifrabili da deficiente controllo sintattico e da accessi lirici tanto involuti che fuor di luogo:
fu ucciso per le stesse ragioni per cui fu ucciso, a pochi chilometri di distanza, il figlio della donna a causa delle cui lacrime ciò che vive [ciò che vive?] poté diventare non solo ciò che si pietrifica e smette di pulsare [sarebbe?], ma anche ciò che cova sotto la cenere, “sotto il vulcano” [sì sì, il romanzo di Malcolm Lowry; e allora?], ed è prima o poi destinato a tornare alla luce, sia pure sotto altra forma — come in un poema di Ovidio [deve trattarsi delle Metamorfosi; ma perché quello là fu ucciso?];
se il ciclismo ha in sé la forza di superare se stesso [predicato estensibile a qualunque sport], di tirarsi fuori dagli impicci di ciò che sta ai margini [impicci di ciò che sta ai margini?] ed è quindi egoistico per chi vi soggiorna [soggiorna dove, nel ciclismo? non può essere: il ciclismo non è un luogo] e claustrofobico per chi vi transiti [idem] (il solitario Giuliani aveva concluso la sua fuga, senza conquista della maglia rosa ma con una vittoria “etica”), ciò che lo ha generato [generato che cosa?] o semplicemente protegge il nocciolo agonistico, la sua perla, ogni volta che non trovi uno sbocco sul mare e che dal fuoco [che mare? quale fuoco?] non riesca a ripercorrere la strada all’indietro, fatalmente precipita in un suo buio più oscuro del buio precedente [chi, che cosa precipita?];
se non facciamo fatica a capire le ragioni che spingono chi possiede privilegi ancora maggiori [maggiori di quali?] a ordinare ai carri armati di tutto travolgere davanti a sé, c’è quel guizzo di irragionevolezza che resiste a ogni spiegazione [be’, certo, se è irragionevole non può non resistere a ogni spiegazione] nel gesto di sacrificare la propria bicicletta — la propria vita — gettandola sotto il carro armato, o lasciando che l’enormità e la pesantezza della macchina da guerra polverizzi ciò che è leggero e a tutti i costi vuole restare tale [la bicicletta? questa la risposta esatta?].
Incredibili banalità profuse a piene mani, truismi, tòpoi e modismi da agghiacciare il più paziente e volenteroso dei lettori: «vendere cara la pelle», «c’è chi vince e c’è chi perde», «senza arte né parte», «al suo paese, che si chiamava Pozzillo — e che Pozzillo si chiama tuttora, naturalmente [naturalmente, appunto]»; «i padri debbono accettare i proprio [sic] figli», «svettano i pioppi» [già, cos’altro può fare un pioppo se non svettare?], «inscrivere il suo nome nella leggenda» [16.700 risultati in Google], «bagliori sinistri» [2.280].
Improprietà, goffaggini, asserti peregrini se non esattamente irrazionali, veri e proprî sfondoni:
la hall tutta vetri e specchi, organizzata in modo che non sembrasse avere un centro» [organizzata? fino a prova contraria, un ambiente non si organizza, si arreda];
Le difficoltà improvvise, che si presentino nella seconda o nella penultima tappa, sono sempre suscettibili di rievocare ciò che fu, di chiamare i corridori all’imitazione delle grandi gesta del passato [suscettibile significa ‘capace di subire alterazioni, modificazioni’, ergo ha valore passivo, non attivo];
— Noi di Sicilia siamo diversi — aveva detto il pescatore: senza orgoglio, come di chi dica una verità lapalissiana [recte: come chi dica];
Già il capoluogo, nell’avvistarlo dall’alto e da lontano, era una smentita alla contemporaneità urbana [come dire: Giovanni, nel guardarlo, è bello?];
quel paese mitico […] dove settant’anni prima nacque Fausto Coppi [recte: era nato];
Era il Diario siciliano di Ercole Patti […]. Ogni brano risultava puntigliosamente contrassegnato da una data — novembre 1932, settembre 1936 [a) se un diario (dal lat. diarius ‘di un giorno’) non contenesse date che diario sarebbe?; b) puntigliosamente? Tutt’altro: manca il giorno];
nessuno potrebbe negare che non c’è più vero scrivere, nel nostro secolo, di quello giornalistico [nessuno? eserciti di letterati di prim’ordine sarebbero pronti a giurare solennemente il contrario];
il paesaggio in un racconto è ciò che viene detto ambiente, le circostanze etniche e morali che danno luogo all’azione [le circostanze etniche e morali costituirebbero l’ambiente di un racconto? in quale testo di narratologia sarà mai scritto?];
i corridori avevano affrontato disagi e fatiche considerevoli, che la maggior parte dei tifosi di tutti gli altri sport non immaginano [perché, il pugilato, l’alpinismo o la maratona sono passeggiate di salute?];
rosso-arancione-verde [è universalmente noto che i colori del semaforo sono il rosso, il verde e il giallo, non l’arancione].
«Ho nostalgia, desiderio di una prosa sorvegliata» dichiara il romanziere romano nell’intervista in appendice al volume.
Per davvero?
Da «Fermenti», XXXIX 2010, n. 235.
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