Oltre al sonno e alla concentrazione ci sono anche altre cose che non sono state dette a nessuno.
Giornate intere che scompaiono, e brevi attimi che diventano un’eternità.

(Peter Høeg)

giovedì 6 maggio 2010

Mario Lunetta. «Là comincia il Messico» di Gualberto Alvino


Là comincia il Messico di Gualberto Alvino è un brillantissimo esempio di narrazione autofagica, nel senso che i frammenti di vicende che quasi a caso affiorano dal magma diegetico vengono immediatamente divorati da un flusso linguistico ribollente, ipermetaforico, sempre in bilico tra esaltazione e depressione, in una sfida alla funzione fàtica davvero di straordinaria tensione e di stupefacente capacità illusionistica. Chi ha confidenza col genere western sa che la battuta «Là comincia il Messico» è la proverbiale liberatoria psicologica che pronunciavano i banditi in fuga, convinti dell’impunità una volta superato il confine. Nel controromanzo di Alvino sta a significare il mutamento che per ineluttabile forza di aridità si verifica nel Protagonista verso il confine-non fine del libro, che quasi come una mostruosa resurrezione trapassa da peritissimo dissettore letterario a feroce, sfrenato pseudoperito settore di corpi umani ormai animato soltanto da una cieca furia sanguinaria. Dentro c’è una duplice molla: la frustrazione e la vendetta, attuata non come risarcimento ma unicamente come punizione. Certo è che l’ego dell’uomo, che non parla ma viene parlato dal proprio inconscio, è ipertrofico, quindi incapace di comunicare con se stesso. Di qui, quella sorta di abdicazione ad esprimersi che lo chiude in una torre d’avorio terribilmente precaria, piena di crepe e di fratture; quella colluttazione perenne con la letteratura, col Verbo, col Senso perennemente ignoto: enigma e stemma di unicità difesa fino alla morte. Ma oltre quel confine non c’è il Messico, perché oltre la paranoia c’è solo il buio della follia, di cui l’impazzimento della parola ormai disancorata da tutto, alienata da se stessa, è estremo, insensato paradigma.
Nella letteratura del Novecento la Galleria dei Mutamenti (e dei Mutanti) è decisamente folta, e va dai crepacci dell’orrore alle pieghe della malinconia fredda, da Pirandello a Kafka a Bulgakov a Butor, ed ancora, ancora. Ne La modification, quest’ultimo adotta, con secca mossa spiazzante, la seconda persona plurale. Alvino pratica la seconda singolare, come — direi — necessità testuale impone: dal momento che il suo controromanzo ha l’allure di un’interminabile, aggrovigliata seduta analitica senza catarsi. Il Protagonista è un critico e un filologo di gran fama, e noi conosciamo la qualità di Gualberto Alvino, appunto critico e filologo che si è sempre misurato con scritture letterarie complesse e eterodosse, da quelle di Pizzuto a quelle di Bufalino e di D’Arrigo. Che non abbia il nostro dichiarato guerra aperta a certe discipline non di rado praticate come puro esercizio di neutralistica dissezione anatomica, proprio per rivendicarne il senso dialettico che conferisce loro energia e concreta precisione? Ecco allora che Gualberto, straordinario fuorilegge, oltrepassa il confine e affronta quel fertilissimo deserto che si chiama Narrativa. O meglio, Narrazione. E lo fa naturalmente coi mezzi, il bagaglio tecnico e la sagacia che la sua lunga esperienza critico-filologica gli consente, anche come scrittore di fiction.
Scrive Nietzsche in Umano, troppo umano che «i filologi non sono che liceali invecchiati». È una crudeltà abbastanza gratuita, ma mi pare si attagli perfettamente al Protagonista alviniano. Chi è infatti costui? Al di là dei suoi cospicui meriti professionali, sarebbe semplice (ma anche semplicistico) definirlo uno psicopatico passivo, incapace di aprirsi alle pulsioni degli affetti, della generosità, della carità umana. Un padre di cui la Voce gli rinfaccia sia morto a causa sua: «non gli hai parlato per vent’anni perché temevi di assorbirne l’indole collerica e criminale»; una madre mancata poco dopo per suicidio, sulla quale ha composto un epitaffio «versando lacrime di plastica»; un fratello poeta che lo ha sempre sostenuto e incoraggiato negli studi, e a proposito del rapporto col quale la Voce lo inchioda spietatamente: «Sostieni che lui, provvedendo alla tua educazione, ha fatto il proprio dovere di fratello maggiore, e se oggi sei quel che sei lo devi solo ed esclusivamente a te stesso, perché hai saputo far tesoro dei suoi insegnamenti rendendoti presto completamente autonomo. Ti appelli, inoltre, alla non eccelsa qualità dei suoi prodotti e affermi che un critico non può anteporre ai propri obblighi futili questioni di natura privata a affettiva. Sei certamente nel giusto».
I suoi rapporti con le donne non conoscono che la sequenza a-dialettica padrone-schiava. Quelli col rampollo, si chiudono nel puro e semplice rifiuto, per la sola ragione che lo ritiene condannato alla mediocrità: «quanto di peggiore — insiste la Voce — avresti potuto auspicare per il tuo unico figlio». Anche i rapporti con gli amici e gli allievi sono improntati a un che di perverso, in cui è dominante il principio paranoide della sopraffazione. L’inclinazione sadomaso intride questa burrascosa seduta analitica in forma di romanzo: e il Protagonista-paziente sembra più intrigato — da letterato per sempre perduto nelle foreste pluviali delle parole — dal dottor Lacan piuttosto che dal dottor Freud.
Nel suo delirio si accampa un groviglio di allucinazioni uditive, che si dipanano in una sequenza di voci del tormento, ma non della coscienza critica. Sarebbe un momento liberatorio, ma la sua arroganza non può consentire a mettersi in discussione, proprio per l’assoluta identificazione prodottasi in lui negli anni tra il flusso del suo sangue e il sangue della letteratura. Così, non può che difendere, a ogni piè sospinto, la superiorità del critico sul creatore: «Uno scrittore è solo uno scrittore, ma un grande critico può far brillare l’universo nel palmo della mano».
È inevitabile e giusto, in un testo come quello di Alvino, che la dimensione saggistico-teorica sulla letteratura abbia uno spazio preciso: e lo è in rapporto alla professione del Protagonista che si trova coinvolto in un processo spietato in veste di imputato, ma anche (e forse, soprattutto) in rapporto alla concezione che la scrittura letteraria con funzione allegorica ha il nostro narratore. Si potrebbe perfino parlare di Là comincia il Messico come di saggismo diluito in metafore a catena, di una scrittura di iperbolica ricchezza stilistico-semantica impegnata a slittare senza tregua dalla dimensione della violenza spinta fino all’efferatezza a quella del sublime irriso e rovesciato di senso. In questo gioco solo apparentemente deregolato, ma in realtà stretto da una regia di straordinario rigore, il narratore utilizza certi suggerimenti di grande marchio, torcendoli alla sua maniera fintamente dissennata: mi viene da pensare, a proposito di certi movimenti catalogici alviniani, ai celebri accumuli di oggetti preziosi cari al Des Esseintes di A rebour; come, a proposito di certe situazioni particolarmente abiette, al Bataille di Le bleu du ciel o di Ma mère. Quel che è certo è che lo stridore fra l’opulenza sontuosa della lingua di Gualberto e gli orrori che essa esprime assume una strana piegatura verso il comico: tanto che potremmo parlare di lingua “neroniana”. Col suo Super-Eliogabalo Arbasino ha disegnato un affresco comico-parodico. Nel suo de-romanzo Gualberto Alvino mette in scena un tragico infame. Ma quelli del romanzo arbasiniano erano gli anni Sessanta, anche con le loro fiammate non solo carnevalesche. Il testo alviniano è di questi nostri anni di degrado totale e di assenza della speranza.
Ecco allora che in questo libro il buio psichico attraversato da lucori sulfurei si manifesta tutto dentro il grande buio dell’epoca. Alvino è troppo consapevole per non sapere che la storia entra comunque nella letteratura: per cui, anche quando non esplicitamente evocata, magari solo per frammenti e detriti, la sua ombra avvolgente non lascia per un attimo la scrittura. Ciò avviene brutalmente anche in quel particolarissimo “libro filmico” — mi si passi la metafora intercodice — o «libro-drammaturgico» violentemente espressionistico che è Là comincia il Messico.
Questo “mostro” della Forma Scorporata che è il Protagonista non può non trovarsi stretto in un’angoscia sterile, tra le baldorie e le orge che il figlio organizza nell’appartamento che abita su quello del padre e la sua caccia folle al mot juste. A paragone, Flaubert era un dilettante alquanto sciatto. «Scordavi che scrivere è modo d’essere, non qualità; stato, non azione», questo gli rimprovera la Voce. È, alla fine, una taccia di superficialità, accampata nel delirio certosino di perfezione ogni volta nec ultra. Ma sicuramente il Protagonista, chiuso nello specchio del proprio narcisismo ipertrofico e del proprio egoismo totalitario, ignora l’adagio di Oscar Wilde che ricorda come la massima colpa sia la superficialità. È forse contro di essa, e per rinfacciargliela senza pietà, che il figlio si fa capobranco di una folla efferata che agisce sempre più aggressivamente nei suoi confronti, fino alla fine, alla distruzione, all’autodistruzione, ritmata dagli interventi sempre più catastrofici della Voce, che non ha mai un cedimento in direzione della pietà, e sembra animata invece da un fiato instancabile di castigo.
Un tour de force linguisticamente superbo, il romanzo di Alvino; specie se confrontato con la media dei romanzi da banco che la nostra editoria coloniale sforna su un format di inutile mediocrità, in una lingua predisposta per un target imbottito di telefilm dove «il Messico» non comincia mai. Nel caso di Alvino, il Messico sta certo per “l’Italia”, di cui Sergio Muscetta, figlio del magnifico Carlo, scrisse una volta, con sarcastica disperazione: «Oh Italia, terra d’eroi / dove non avviene mai il poi».

Da «L’Immaginazione», a. XXVI, marzo 2010, n. 253, pp. 55-57.

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