Oltre al sonno e alla concentrazione ci sono anche altre cose che non sono state dette a nessuno.
Giornate intere che scompaiono, e brevi attimi che diventano un’eternità.

(Peter Høeg)

mercoledì 19 agosto 2009

Gualberto Alvino. Parodiando

1. Alessandro Baricco

Allora, soltanto allora, né un secondo prima né un secondo dopo, Magg Simpson, la vecchia, cara, dolce Magg, si nettò e richiuse il coperchio. Con fare guardingo. Quasi avesse cento occhi puntati sulla schiena.
Magg. Non c’era nessuno a Pottercanyonsville che sapesse chiudere un coperchio come lei. Lo contemplava per un lungo istante tentando invano di contenere l’emozione, poi agganciava il bordo con l’unghia del mignolo inanellato, e lo abbassava.
Così.
Semplicemente.
Senza il minimo sforzo.
Come se non avesse fatto altro in vita sua.
Lo abbassava, e intanto osservava i disegni delle ceramiche, che le ricordavano la sua casa nella prateria, laggiù, nel Michigan, sulle rive dell’omonimo lago. L’aveva fatta suo padre quella casa di pietre rosse e tronchi di quercia più duri del ferro. Suo padre. Sì. Il vecchio John Jim Billie Kenneth Gordon Charles Frank Simpson, detto Al. L’aveva costruita con le sue mani grandi e callose. Giorno dopo giorno. Per tutta la vita. E non era mai riuscito a finirla. Mai. Si può finire un sogno?
«Nessuno saprebbe abbassarli con tanta grazia, ― pensava la gente ― nessuno ci riuscirebbe mai. A Pottercanyonsville e non solo. Nessuno».
Non appena sentivano il tonfo del coperchio tutti si riversavano nelle strade in preda a una profonda agitazione, correvano col cuore in gola e dicevano Magg ha abbassato il coperchio, l’ha abbassato, e dappertutto si sentiva urlare Magg ha abbassato il coperchio, finché qualcuno urlava da un bovindo Magg ha abbassato il coperchio, e così per tutte le piazze si metteva a correre la voce Magg ha abbassato il coperchio, da una piazza all’altra, giù fino alla stazione, dove si sentiva una voce gridare Magg ha abbassato il coperchio talmente forte che nella fabbrica di sifoni c’era sempre chi lo sentiva e si girava verso il vicino per sussurrare Magg ha abbassato il coperchio, cosa che velocemente finiva sulla bocca di tutti, malgrado il frastuono della fabbrica, che costringeva tutti ad alzare la voce per farsi sentire, Che dici? Magg ha abbassato il coperchio? Sì, l’ha abbassato, in un crescendo culminante nella voce che alla fine riusciva a far capire anche all’ultimo operaio quanto era accaduto, Magg l’ha abbassato, il coperchio, un boato che echeggiava altissimo nel cielo, e negli sguardi, e nelle menti, se anche a Chuckachumpauatapalka Stan il bandito scendeva dal cavallo, cadeva a terra, rotolava nella polvere, bestemmiava a denti stretti Dio e la Madonna, riprendeva il suo cappello e ― a voce bassa, come se stesse pronunciando una formula sacra ― mormorava quasi tra sé e sé:
«Magg ha abbassato il coperchio, porco demonio, l’ha abbassato».
Era arrivata a Pottercanyonsville il quattordicesimo giorno d’aprile di vent’anni prima Magg Simpson, in groppa a un’asina albina su per la mulattiera che dal cimitero portava alla chiesa maggiore. E proprio là, sul sagrato della chiesa maggiore di Pottercanyonsville, il quattordicesimo giorno d’aprile di vent’anni prima, col sole che ardeva come un’immensa lampada accesa da una mano gigante in mezzo a un cielo più blu dei suoi occhi, Magg capì che quella sarebbe stata la sua occupazione principale, per il resto della sua vita.
Quella.
Proprio quella.
Per il resto della vita.
La sua occupazione.
Principale.
Fino alla morte.
Lasciò cadere le valigie che sua sorella Molly aveva legato con nastri da cappelli, allargò le gambe, si mise le mani sulla pancia, le premette più che potette, irrigidì il diaframma blaterando qualcosa tra le labbra polpute (nessuno sapeva cosa, solo Henry, il birraio del Michigan, lo sapeva, ma non l’avrebbe detto nemmeno sotto tortura), e la fece lì. Sul sagrato della chiesa maggiore di Pottercanyonsville. Al centro esatto del sagrato. Sotto gli sguardi increduli di Greg il postino, Pete Crast il banchiere, Miss Reed la merciaia e Hunky Dunky il lattoniere.
Fu proprio lui, il vecchio Hunk a gridare per primo.
Con le lacrime agli occhi.
Perché non riusciva a crederci.
Non ci riusciva.
No.
Saltò su dalla sedia, tossì, sputò a terra e urlò: «L’ha fatta. Qui. Sul sagrato della chiesa maggiore di Pottercanyonsville. Diavolo d’una donna. S’è accucciata, e l’ha fatta, senza pensarci due volte».
Disse così, mentre cominciava a piovere. Sul mondo e su Hunky Dunky il lattoniere, che sapeva tutto di quella donna, perfino quanti capelli aveva in testa. O almeno così credeva. Tutto. Tranne il nome. Il nome no. Il nome non lo sapeva. Sapeva tutto meno il nome. Il resto sì, lo sapeva, o credeva di saperlo. Tutto. Per filo e per segno. All’infuori del nome. Quello no.
«Come si chiamerà?» chiese Hunk a Greg il postino.
Silenzio.
«Come si chiamerà?» chiese Greg il postino a Pete Crast il banchiere.
Silenzio.
«Come si chiamerà?» chiese Pete Crast il banchiere a Miss Reed la merciaia.
Silenzio.
«Come si chiamerà?» chiese Miss Reed la merciaia a Hunky Dunky il lattoniere.
«Lo domando a lei, faccio prima», rispose il vecchio Hunky sputando un grumo di tabacco che gli era rimasto incastrato fra i denti, più gialli d’una pannocchia in agosto, mentre saliva dai campi appena arati l’odore del grano.
E allora glielo chiese. Così. Nel modo più semplice e naturale possibile. La fissò nei suoi occhi blu come il cielo, cercò in ogni modo di dominare il tremore, e le chiese con voce flebile: «Di’, come ti chiami?».
«Magg. Magg Simpson. E tu?».
«Hunky Dunky mi chiamo. Faccio il lattoniere. E, mi venga un colpo, non ho mai visto una cosa simile, qui a Pottercanyonsville, e non solo».
«Ripetilo a voce alta. Che tutti sentano».
«Mai vista una cosa simile da quand’ero in fasce, parola di Hunk», e cadde in ginocchio. Aveva le palpebre più pesanti del piombo.
«Che ti succede, Hunky? Hai l’aria lontana. La puzza è arrivata fin lì?».
«Sì, perdio, ma non è questo. È che… stavo pensando fitto».
«A cosa, Hunk, non vuoi dirmelo?».
«Okay. Adesso te lo dico, Magg. Accada quel che accada. Pensavo che, perdio, mai nessuno aveva fatto una cosa simile qui sul sagrato, al centro esatto del sagrato della chiesa maggiore di Pottercanyonsville. E senza pensarci due volte».
«Lo credi davvero, o lo dici così, tanto per dire? Odio la gente che dice le cose tanto per dire. Uno potrebbe tacere. Invece apre la bocca, e parla. Decide di parlare. Di sua spontanea volontà. Senza che nessuno lo costringa. E poi che fa? parla così, solo per parlare? Ah no: se decidi di parlare senza che nessuno ti costringa, almeno dilla tutta. E per bene. Allora, dici davvero o lo dici tanto per dire? Perché se lo dici tanto per dire non andiamo per niente d’accordo. Per niente. Proprio per niente. Parola».
«Potessi cadere stecchito, Magg. Ora. Qui. Sul sagrato della chiesa maggiore di Pottercanyonsville, se quello che dico non è la verità. La pura, sacrosanta verità».
Ride e grida Hunky Dunky il lattoniere. Con le lacrime agli occhi. Mentre piove. Su di lui. Sul sagrato. Sul campanile della chiesa maggiore. Sul curato che spia dalla grata grattandosi il collo arrossato dal sudore. Su Pottercanyonsville. Sul mondo intero. Una pioggia fine, insistente, lucida e scivolosa come l’olio che suo padre Al spremeva dalle olive giganti del Michigan.
Magg ascolta.
Magg ascolta e vede tutto.
Magg non perde il benché minimo dettaglio.
Poi si pulisce con una foglia di fico, la ripone in un sacchetto che sua madre le cucì in punto di morte con le sue iniziali a trame d’oro (fu proprio su quel sacchetto che esalò il suo ultimo respiro), e si riveste con calma. Io non dimenticherò mai due cose: la sua calma, e quel modo di strabuzzare gli occhi in preda al piacere mentre cercava di farla più grossa che poteva, là, sul sagrato della chiesa maggiore di Pottercanyonsville, appoggiando i gomiti sulle ginocchia come un samurai.
Dopo un po’ si alzò, Magg.
Si alzò e prese le valigie.
Prima una.
Poi l’altra.
Con calma.
Con estrema calma.
Uno spettacolo.
Era come se la sua vita ― tutta, il presente, il passato, il futuro ― fosse racchiusa in quelle due manigliette di vacca, la vacca pezzata che lei stessa mungeva ogni mattina, laggiù, nella prateria, mentre suo padre Al spremeva le olive giganti del Michigan.
Prese le valigie sotto gli sguardi allibiti di Greg il postino, Pete Crast il banchiere, Miss Reed la merciaia e Hunky Dunky il lattoniere, a cui s’erano aggiunti nel frattempo Harold il fornaio, Maude la sarta, Thomas il becchino, Johnson il falegname, Oswald il macellaio, Didi Dodi la badessa, Jeoffrey lo sceriffo e Dustin Cravenford, giudice e sindaco di Pottercanyonsville. Anch’essi allibiti. Sì. Allibiti e ammirati. Si guardavano l’un l’altro e si chiedevano Come è possibile tutto questo? Non è possibile. Non ha senso.
E in effetti non aveva senso.
Proprio nessun senso.
Nessuno.

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