Mio cognato Nicola aveva preso quattro in matematica e sua sorella, ossia mia moglie Manuela Cernitori, dalla quale sono separato da sette anni (o forse otto, o nove, dieci, non ricordo bene, da un po’ di tempo non ricordo bene le cose, il portinaio me lo dice sempre quando passo davanti ai suoi vetri, guardandomi in modo periferico come fossi un ectoplasma: «Lei non ricorda bene le cose, sa?»; «Davvero ― rispondo io ― se n’è accorto anche lei?»), mi telefonò per dirmelo, anche se sapeva benissimo che quel Nicola non l’avevo mai visto e che di lui, del quattro in matematica e di tutti i suoi parenti non mi importava niente; non per cattiveria, ma perché sono fatto così, non posso farci niente, non c’è niente da fare, assolutamente niente, se mi fisso su una cosa niente e nessuno può farmi cambiare idea, nemmeno mia madre, con quella voce chioccia che mi dice sempre: «Tu sei immerso fino al collo nel compiacimento di te stesso… cazzo di figlio di merda, madonna! mi stai sui coglioni da quando sei nato, avrei dovuto buttarti nel cesso, brutto bastardo schifoso!». Compiacimento? Non sono d’accordo. Non capisco mai se nelle parole di mia madre c’è pura sincerità, o voglia di provocarmi, o una leggera diffidenza nei miei confronti. Qualcuno dice che non voglio capire, ma non credo sia così. Non lo credo per niente. Una volta ho visto un film di Totò e l’ho capito tutto, dal principio alla fine, dunque stupido non posso essere, anche se non sono mai stato un afferratore, uno di quelli che tirano fuori la lingua come i camaleonti e prendono una mosca a mezzo volo.
Insomma, per farla breve, il telefono ha squillato e al terzo squillo ho attraversato tutto il salone, il corridoio, la cucina, il tinello, la camera da letto, la veranda, lo sgabuzzino, il ripostiglio, la sauna, il bagno padronale, quello di servizio, la biblioteca, l’androne, l’altro corridoio, la stanza dei bambini che non ho mai avuto, sono arrivato nello studio, ho preso la cornetta e la mia ex moglie Manuela Cernitori ha urlato: «Oh, sei tu? Ci sei?». Dio, non potevo credere alle mie orecchie.
«Cazzo di domande sono? Sì che ci sono ― ho detto, ― se no chi t’avrebbe risposto? T’ho risposto io, qui, al telefono, chi altri? Non riconosci la mia voce? Va be’, saranno pure passati sette, otto, nove, o forse dieci anni, non lo ricordo bene, da un po’ di tempo scordo le cose, lo dice anche il portinaio quando passo davanti ai suoi vetri, però sono sempre il tuo ex marito, e la voce del tuo ex marito dovresti riconoscerla, subito, immediatamente, senza esitazione. Del resto, se uno telefona a casa di un altro e l’altro risponde non può chiedergli “Oh, ci sei?”. Ma certo che c’è, t’ha risposto lui, cazzo! E per giunta è tuo marito, la voce di tuo marito, benché ex. Dovresti riconoscerla, porca di una puttana, non è mica un estraneo, uno che senti per la prima volta, l’avrai sentita mille, diecimila, l’avrai sentita un milione di volte quella voce». Il sudore mi si congelava sotto le ascelle e malgrado questo riuscivo a conservare un tono deciso che mi stupiva sempre di più, mi sconcertava nel profondo.
«Ciao, ti ricordi di Nicolino?» ha detto lei schiacciando le vocali come in una porta. Nella sua voce esitante stava esplodendo un turbine di sensazioni opposte e contraddittorie che mi faceva sentire fuori posto, ignoto a me stesso, al mio cervello, alla mia anima, nient’altro che un forestiero in terra straniera.
«Cazzo ne so io di Nicolino?» ho detto con un senso di durezza che mi saliva rapido dentro, anche se non ne ero sicuro, avrei voluto esserlo, ma non lo ero, non lo ero affatto. Era pazzesco, da un po’ di tempo mi sentivo così, e neanche il mio medico ci capiva qualcosa; i medici, tutti uguali, sono capaci soltanto di bussare a quattrini, centoquaranta a visita due volte a settimana per dodici mesi fanno tredicimilaquattrocentoquaranta, per dieci anni centotrentaquattromilaquattrocento, per tutta la vita, ammesso che campi ancora a lungo, e di questo passo non credo, viene fuori una cifra pazzesca. Avrei dovuto studiare medicina invece di fare il vetrinista, o il vetraio, o il veterinario, non ricordo bene, da un po’ di tempo scordo le cose, lo dice anche mia madre, colpa del compiacimento, dice. Sarà. Non credo.
«Come, cazzo ne so? Nicola, Nicolino, il più piccolo, quello che al matrimonio mi reggeva lo strascico e a un certo punto ha vomitato i confetti sulla guida rossa e a mio padre per poco non prendeva un infarto e mia madre per soccorrerlo è caduta e io per soccorrere lei ho messo male un piede e mi sono rotta un femore, otto mesi sulla sedia a rotelle» ha detto lei sorpresa, e forse anche un po’ delusa che non riuscissi a ricordare il giorno più bello della sua vita; non della mia, per carità, non della mia: io quel giorno lo cancellerei dal calendario, perché proprio da quel giorno sono cominciati tutti i miei guai. Non è che voglio fare la figura del santo. È proprio così.
«Strascico? Ma di che strascico parli?» ho detto stringendo tra le dita la cornetta fin quasi a fracassarla, mentre dalla finestra filtrava uno spiffero che mi solleticava le caviglie dandomi un senso di sottile benessere che non avevo mai provato prima d’allora, mai. O forse sì, ma non così forte, forte e intenso, e aguzzo, e penetrante, e avvolgente, e inebriante, e subdolo, e rigenerante, e completo.
«Ma vaffanculo! Sempre il solito stronzo! Una volta gli hai anche offerto un tè alla menta e un cappuccino con poca schiuma nel baretto sotto casa» ha detto lei. C’era un senso strano di attesa nel suo tono, un senso di non spiegato e di non richiesto, ordinario ed estraneo, gioioso e snervato e determinato e indeciso.
«Aspetta, che vado a controllare la pasta» le ho detto, e mi è salita dentro una rabbia furiosa verso di lei quando ho visto che le pennette rigate erano scotte: una pappa molle e appiccicosa da far venire il voltastomaco. Ho vomitato l’anima, poi ho rovesciato la pentola nel lavandino e sono corso di nuovo nello studio.
«Pronto, ci sei?» ho detto ansioso.
«Sì che ci sono, mi hai detto di aspettare e ho aspettato. Che dovevo fare? Riattaccare? Uno dice aspetta e io aspetto, che diamine! Questione di educazione. Se avessi riattaccato ti saresti offeso di brutto e avresti attaccato una delle tue solite tiritere, non dire di no, avresti fatto così, eccome se l’avresti fatto, Cristo, non ti conoscessi» ha detto risentita, più cupa che sollevata, più malinconica che allegra, più solenne che affabile. Poi c’è stato un attimo di silenzio e ha detto quasi balbettando: «Com’era… la pasta?». Forse ripensava al nostro passato, un passato da cui stento ancora a liberarmi. Ma prima o poi ci riuscirò. A costo di cambiare medico.
«Guarda, è meglio che lasciamo stare» ho detto io perentorio.
«Va be’, ti richiamo domani» ha detto lei smontata.
«Se potessi farne a meno sarebbe meglio» ho detto io con tono rassegnato, come se l’universo mi cadesse addosso, «molto ma molto meglio, giuro, non lo dico così, è che sono convinto, al cento per cento, mai stato tanto convinto come lo sono adesso, credimi. Domani no. Facciamo dopodomani. E comunque di matematica non ci capisco un tubo. Cioè, prima ci capivo, ci capivo parecchio, ma da quando scordo le cose è come se fossi immerso in una specie di nebulosa viscida e pastosa, mia madre lo attribuisce al mio autocompiacimento, non credo».
Manuela ha taciuto per un lungo istante, poi ha sorriso nel modo più trattenuto e incerto che avessi mai incontrato in vita mia.
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