Oltre al sonno e alla concentrazione ci sono anche altre cose che non sono state dette a nessuno.
Giornate intere che scompaiono, e brevi attimi che diventano un’eternità.

(Peter Høeg)

martedì 22 dicembre 2009

Canto di Natale




Faceva un tempo da schifo, un freddo che spaccava le ossa, vento tagliente, pioggia a gocce chiodate e un cielo scuro come l'ansia. I mobili Aiazzone comprati vent'anni prima si sgretolavano sotto la morsa del gelo che entrava dagli spifferi grandi come canali degli infissi scalcagnati delle finestre, due delle quali al posto del vetro c'avevano due tavole di compensato attaccate col silicone, ormai semi scollato. Il televisore trasmetteva ininterrottamente un effetto neve frusciante, il decoder non ce l'aveva, un apparecchio nuovo manco a parlarne, tanto valeva spegnerlo. Ma sua suocera si ostinava ad accenderlo e a passarci le giornate davanti, con lo sguardo fisso e un sorriso ebete, da rincoglionita qual'era. Per rispetto a sua moglie la lasciava fare. Tanto tra un po' avrebbero tagliato la corrente elettrica e sua suocera avrebbe fissato lo schermo spento. I bambini, per così dire visto che erano adolescenti animaleschi, s'accapigliavano, come sempre, dandosele selvaggiamente, ma non litigavano, erano esuberanti, così diceva sua moglie, sfogavano e basta, era il loro modo di giocare. Almeno così s'accaldano e non sentono troppo 'sto freddo pazzesco, pensò. Sua moglie rimestava il pentolone grande, nel quale bollivano da ore due carcasse di pollo. Comprate al supermercato. Il marketing s'era adattato alla crisi. Incellofanate, su vassoietti di polistirolo bianco fulgido, sotto la luce del bancone macelleria, erano apparse queste meraviglie, a sessanta centesimi al chilo, ti portavi a casa un pollo, senza petto e senza cosce. Ma almeno ti sembrava di potertelo permettere, un pollo. Visto che erano in cinque a mangiare, per le feste sua moglie ne aveva comprati due. Avevano il pregio che a forza di rosicchiarli e succhiare le ossa, ti stancavi e ti passava la fame. In più c'era il brodo, che era sempre meglio di quello dei dadi, che tra l'altro erano più costosi. L'odore era buono, faceva venire l'acquolina in bocca, ma questo era uno svantaggio, perché quando tutto arrivava in tavola, il niente che era straziava l'anima e il corpo. Ciò nonostante sua moglie canticchiava. Che cazzo c'hai da cantare, pensava Natale, siamo nella merda, mangeremo quattro ossa e una tazza di brodo; tua madre è rimbecillita davanti al televisore scassato e ogni tanto chiama tuo padre, che è morto da vent'anni, e lo rimprovera per qualche minchiata che avrà fatto quarantanni prima e che è una delle poche cose che ormai si ricorda; i tuoi figli, i nostri figli, sono due idioti violenti che a scuola vanno malissimo fin dall'asilo nido e il buongiorno si vede dal mattino; tu sei patetica con quella camicia rosa coi volant, attillata sopra la ciccia da quarantenne esausta, quella pantacollant ti fa un culo a mappamondo che a te ti fa sentire la cugina di Jennifer Lopez ma tanto io lo so che quando te la togli la forza di gravità te lo schianta, e io sono un fallito disoccupato, a cinquantanni passati, c'è la crisi, che ci vuoi fare, passerà, sta già passando: si come no, sopra di me sta passando, come un tritacarne e che cazzo c'avrai da cantare, eh? Boh.
Gli girano i coglioni a Natale e per non litigare con sua moglie, per non ammazzare sua suocera e buttarla nella pentola a tocchi insieme alle carcasse di pollo, per non legare col filo spinato quei figli che a tredici e quattordici anni hanno testosterone e idiozia pompati dappertutto, acchiappa la giacca a vento ed esce. Torno più tardi. Copriti bene che fa freddo, gli fa la moglie. Sì.
Il freddo, così di colpo, come una tavolata sulla faccia, appena fuori, lo fa barcollare. Ma è troppo incazzato e cammina a passi lunghi e saltellanti, una specie di corsa da struzzo nella galleria del vento, un due tre, un due tre, un due tre... Sbuffa anche, sbuffa e smadonna, sbuffa e smadonna. Birubìp. Birubìp. E si ferma. Un cazzone col suv. Ha messo l'antifurto, col telecomando, ma avrà schiacciato due volte oppure con 'sto freddo l'impianto elettrico dell'auto è andato in pappa, fatto sta che il tipo si sta allontanando, ma l'auto l'ha chiusa e riaperta, senza accorgersene. Natale lo vede sparire dentro a un portone, carico di pacchi infiocchettati e buste griffate. Stronzo, pensa. Gli fa rabbia, gli fa invidia. Però se lo ricorda che anche lui fino a qualche anno prima, tornava a casa con i pacchetti regalo, senza Suv e i regalini erano modesti, ma tutto aveva una sua dignità, Natale aveva dignità, la sua vita, piccola ma dignitosa.
S'avvicina all'auto. Sbircia intorno. Non c'è nessuno. Apre la portiera ed entra. Si siede al posto di guida e poggia le mani sul volante. Quant'è alta 'sta macchina, paiono camioncini 'sti Suv. Esagerati. Però è figo starci sopra. Ti senti forte. Potente. 'Na stronzata, ma fa bene. A uno come a me fa bene davvero, pensa. Un po'. Un po' poco, ma adesso mi pare tanto. Che fregatura, pure 'sto Suv. Nel calore dell'abitacolo, sospira, guarda avanti a sé il parabrezza appannato. Si addormenta. Senza sogni, come se scivolasse dentro un tubo nero e caldo. Di botto una musichetta esasperata invade il vano dell'auto, Natale sobbalza, si sveglia, si rende conto che il tipo ha dimenticato il cellulare, apre la portiera e schizza fuori. Corre via. Ma fa in tempo a incrociare l'uomo che sta andando a recuperare il telefonino. Giusto in tempo, pensa, mi mettevo nei guai ancora di più, e tanto non la rubavo, non so nemmeno come si fa a farla partire senza chiavi, e poi adesso con 'sti gps, pure se fai cento chilometri ti rintracciano. Soprattutto non sono un ladro, ancora no. Sono onesto. Un coglione fottuto, ma onesto, io. Fino alla fine. Non serve a niente, se sto come sto, ma sono così, colpa di mia madre, di mio padre, di tutti quei buoni principi che mi stanno dentro e addosso e non si scollano nemmeno se sono disperato, come adesso.
Le campane elettriche di una chiesa vicina suonano perdendo colpi.
Natale ricomincia a correre stile struzzo, aggiungendo dei movimenti di braccia e colpi di mani sulle cosce per non farle gelare. E corre e salta. Non se ne accorge subito del cane che lo insegue. Una specie di cane bastardo con un ricordo antico di cane lupo nella testa e nella coda, con un corpo a botte, di colore smerdato, che testimonia generazioni di meticciato trombante. Poi il cane lo supera, in un guizzo di esaltazione canina, corre un poco avanti, si ferma, salta, gli va incontro, salta ancora, riparte avanti. Per un attimo Natale si spaventa, pensa che il cane voglia aggredirlo, ma subito dopo capisce che quel cazzone vuole giocare. Perciò continua a correre, a saltare, a battere le mani, agitare le braccia, col cane che lo imita, corre, salta e invece di muovere le braccia, scuote la testa e agita le orecchie. Ogni tanto incrociano un Babbo Natale di plastica gonfiabile e Natale, senza smettere di correre gli molla un calcio o uno schiaffone in faccia.
Si fermano davanti a un cassonetto che sembra non puzzare, tanto è il freddo. Natale si piega e respira affannato. Gli duole il fianco. Suda persino. Il cane si ferma, gironzola, sbuffa, sniffa il cassonetto, alza la zampa e gli schizza su una pisciatina. Natale continua il gioco d'imitazione tra lui e il bastardone, piscia anche lui sul cassonetto. Ahhh. Ci voleva. Sente di nuovo il freddo. Una specie di manina gelida sul collo. E si volta di scatto. Nessuno. La strada è deserta. La luce giallastra dei lampioni è ovattata da un'infinità di macchioline bianche. Nevica. A Natale nevica. Quando cazzo mai ha nevicato qui? Ma nevica. Fa un freddo bestiale e nevica. Bello. Guarda il cane che s'è seduto e con la zampa si da colpetti sulle orecchie, a scacciare i fiocchi che lo colpiscono lievi e freddi. È neve, dice Natale al cane. È solo neve. Non avere paura. È bella da vedere, no? Ti piace?
E il cane gli risponde. Alza il muso e mugola, mugola forte, mugola tanto fino a ululare. Ulula a lungo. E anche Natale ulula. Ulula, ulula. Uuuuuuhhhhhh. Uuuuuuuuuuuhhhhh. Da soli, nella notte, come un canto lungo e modulato, soli e insieme, ululano, cantano come bestie, cantano nella neve, bianca come lo sconcerto che li attraversa, cantano, mentre Gesù sta nascendo.


© Francesco Randazzo - 2009

domenica 20 dicembre 2009

ARCENCIEL MONDO


ANTICIPAZIONI 2010
Presso la sede della libreria caffè Rinascita a Roma in Via P. Alpino, 48 dal 23 gennaio iniziano i nuovi appuntamenti del Progetto Arcenciel Mondo, curato da Regina Franceschini Mutini, Ivana Conte, Paola Bacchetti. Artisti italiani e internazionali vi danno appuntamento nelle seguenti date: sabato 23 gennaio dalle ore 18 Uemon Ikeda artista e performer giapponese e Massimo Giannotta poeta e traduttore della poesia giapponese; 20 febbraio dalle ore 18: Serge Uberti, pittore e scultore francese con Cristina Baruffi e Manuel Cassano. 20 marzo sempre alle ore 18 uno spettacolo di e con Marco Palladini scrittore e performer; 24 aprile ore 18 una serata di teatro: Paola Bacchetti in "Volontarie della libertà"

sabato 5 dicembre 2009

Gualberto Alvino. Parodiando

7. SANDRO VERONESI

— Sai una cosa stellina? — le chiedo osservando la frattale complessità del suo viso ovale e regolare.
— Cosa? — chiede lei mentre frotte di turisti giapponesi carichi di macchine fotografiche di ultima generazione accapano sotto gli archi con gran rumori: boing, sclomp, stu-tun, bumbumbum.
— Hanno appena rifatto il manto stradale e già c’è un’infinità di buche. Se non stiamo attenti ci rompiamo una gamba, se non peggio — dico io con atteggiamento particolarmente preoccupato.
— Solo una gamba dici? Qui si rischia di brutto, te lo dico io! — fa lei togliendosi un sassolino dalla scarpa, non solo metaforicamente.
— Sono d’accordo — rispondo facendomi largo tra i turisti giapponesi, uno dei quali ha un polso fasciato e ogni tanto se lo guarda come se fosse sorpreso o incuriosito; un altro, invece, sbircia di continuo l’orologio, come se avesse un appuntamento importantissimo al quale non può mancare. Noto che ha i tacchi alti ed è molto basso di statura: forse ha i tacchi alti proprio per compensare la bassa statura, mi sorprendo a pensare. Ma senza darlo a vedere, perché lei si infuria se si accorge che mi metto a pensare cose cazzutissime come questa. Le chiama contorsioni mentali, e forse ha ragione.
— Meno male — fa lei con gli occhi rimbombanti di dolcezza e di austerità al tempo stesso — che una volta, almeno una volta ti dichiari d’accordo con me. Cos’è, è morto il papa? È la prima volta, la prima volta in assoluto che ti sento dire che sei d’accordo con qualcosa che dico o penso. Dimmi la verità, lo dici solo per farmi contenta, non è così? Non ti conoscessi…
— Come sei abbronzata! L’abbronzatura ti dona moltissimo. Sei bellissima. Sbaglio o hai messo l’abbronzante che t’ho regalato io a Pasqua? Posso offrirti un caffè? — dico io come se niente fosse, con un sorriso incistato di nonchalance, facendo cadere il discorso da lei intrapreso, perché so che è molto pericoloso. Ormai la conosco come le mie tasche, e certi suoi discorsi so benissimo che tasso di pericolosità hanno e dove portano.
— Sì, ho messo il tuo abbronzante, è buonissimo sai? Dici un caffè? — fa lei abbastanza stralunata, mettendosi a riflettere molto a lungo, mentre il raglio di un clacson mi scuote da capo a piedi. Quando riflette sembra miope. È questo che mi è sempre piaciuto di lei, fin da subito.
— Non fare complimenti d’accordo? Ma se hai da fare non fa niente — dico.
— No non ho niente da fare. È che detesto il caffè. Magari un tè mi andrebbe di più — dichiara sinceramente lei. E questa sincerità la apprezzo molto.
— Va bene andiamo, c’è un bar proprio dall’altra parte della piazza — e glielo indico con il mento, zac, ma mi esce fuori un movimento goffo, simile a un tic, e una fitta di autocommiserazione mi trapassa dolorosamente il viso. Dovrò stare attento a quello che dico e soprattutto a come lo dico, altrimenti il tè con lei posso scordarmelo. Mi schiarisco la voce, tanto per fare qualcosa.
— Sì andiamo — dice lei ignorando il mio movimento. Non mi si fila nemmeno un po’, ma poi mi prende sottobraccio con un’allegria che mi sconcerta. Mi chiedo cos’abbia in mente.
— Sai mi sono sempre chiesta come fanno a trasformare la polvere in liquido. Sono cose così diverse tra di loro. Per me è e rimane un mistero indecifrabile — dice poi riflessiva e lievemente agitata, come ogni volta che tocca argomenti seri e scottanti.
— In effetti è una faccenda molto complicata. Tempo fa, quando facevo il consulente finanziario a Manhattan, un barman pakistano mi disse che fanno pressappoco così: mettono un po’ d’acqua a bollire, poi ci infilano dentro una bustina di tè, l’acqua penetra nella bustina, scioglie il tè e il tè è pronto. Però t’avverto che non so se crederci completamente: quel pakistano non era molto affidabile, anzi non lo era affatto, né come persona né tanto meno come barman.
— Straordinario! Chi l’avrebbe mai detto? Certo che la chimica è una cosa fantastica al giorno d’oggi!
— Fantastica? Diciamo pure meravigliosa — la correggo io stringendole forte un gomito e parte dell’avambraccio fino a farle male. Ma non tanto da farla gridare.
— Guarda, — le dico subito dopo — stanno arrivando altri giapponesi. È una vera e propria invasione. Sembrano pilotati da un’entità invisibile. Non sembra anche a te stellina?
— Sono d’accordissimo. Ho anch’io la tua stessa medesima sensazione — risponde lei incollandomi gli occhi addosso mentre una giapponese si soffia il naso minuscolo, talmente minuscolo che pare invisibile. Mi domando tra me cosa ci sia da soffiare e inoltre come faccia a produrre quel rombo assordante che fa voltare tutti i passanti.
— Ecco il bar. Entriamo? O hai cambiato idea? Se vuoi ci sediamo su una panchina a chiacchierare del più e del meno — dico poi distrattamente.
— Perché? — fa lei allarmata.
— Non lo so. Lo dico per te. Mi è sembrato che l’entusiasmo per il tè ti fosse improvvisamente passato — rispondo laconico sperando intensamente che lei insista per il tè.
— Oh no, grazie della premura ma un tè lo berrei molto volentieri. Magari prenderei anche un pasticcino piuttosto che un maritozzo con panna, ho qualcosa qui nello stomaco che… — dice mettendosi una mano sullo stomaco e massaggiandoselo con dei rapidi movimenti circolari. Noto che ha un’unghia senza smalto, cosa straordinaria per una persona attenta e precisa come lei. Che cosa le starà succedendo?
— D’altra parte, come potrebbe essere altrimenti? Ieri sera ti sei rimpinzata di nespole e rum della peggiore qualità. C’era da aspettarselo! — sentenzio io con tono cupo e paterno, sentendo montare uno strano magone che quasi mi soffoca.
— Sai cosa stavo pensando? — chiede lei all’improvviso, e il magone mi si scioglie come neve al sole. Respiro.
— Cosa? — dico io.
— Secondo me quel pakistano t’ha detto una cazzata. Deve esserci qualcosa di più complicato e misterioso che non ha voluto, o non ha potuto dirti! — conclude calcando molto la voce su o non ha potuto e contemporaneamente sbarrando gli occhi, come se avesse di fronte un morto vivente o comunque qualcosa di terribilmente spaventoso.
— Lo credo anch’io — rispondo guardando un vecchio giapponese che s’infila il dito mignolo in un orecchio e comincia a rotearlo furiosamente mostrando il bianco degli occhi per l’intensissimo piacere che prova. Sarà pieno zeppo di cerume, penso. Magari finora è stato sordo e all’improvviso comincia a sentirci. Un autentico miracolo. Ma bando ai pensieri cazzuti.
— E se invece del tè prendessimo una birretta chiara? — propone lei entusiasta.
— Perché no? — azzardo io. Sono sempre stato affascinato dal suo spirito d’avventura, fin dal primo momento che l’ho vista. Ricordo che la prima volta la invitai a un cinema e lei propose invece un’amatriciana all’aglio calabrese nella trattoriola sotto casa sua. Per me fu un momento magico. Quasi una rivelazione.
— Che poi anche qui c’è un mistero che non mi quadra mica sai? — dice seria di colpo.
— Tipo?
— Tipo che anche fare la birra deve essere una faccenda molto molto complicata. Mi sono sempre chiesta com’è possibile che…
— Complicatissima — la interrompo io con cautela, per non indispettirla. — Pare che venga dall’orzo, ma non posso dire di esserne sicuro al mille per mille, te lo dico subito.
— Cos’è, mi prendi in giro? Eh? Ti prendi gioco di me? Io l’orzo lo bevevo col latte da piccola ogni mattina prima di scuola in quantità industriali e non mi sono mai ubriacata, mai. Invece se prendo un goccio di birra, un solo goccio, comincio a dare i numeri e ci metto tre giorni a rimettermi in sesto. Tu ne sai qualcosa — esclama lei con tono inarrivabilmente perentorio squadrandomi dalla cima dei capelli alla punta dei piedi col suo solito sguardo indagatore. Di cui ormai non riesco a fare a meno.
— Infatti, sembra impossibile anche a me stellina. È un mistero. Un vero mistero — dico io mentre un altro gruppo di giapponesi cala sinistramente dalla china.

venerdì 20 novembre 2009

Gualberto Alvino. Parodiando

6. Ernesto Ferrero

Quello fu l’autunno più ventoso che la storia di Trieste rammenti, ma nessuno, che mi consti, ne ha mai scritto né parlato, e a distanza di tanti anni non ne ho ancora compreso il motivo. Forse perché quest’epoca cinica e brutale ci costringe a dimenticare in fretta, tutto, anche le cose cocenti e dolorose, drammatiche e tragiche, amare e penose, tristi e crudeli: maceriamo tutto nel mortaio dell’oblio e un momento dopo scordiamo persino d’averlo fatto. Ma questo l’avrei capito più tardi. Molto più tardi. Crescendo.
Soffiava, il vento. Soffiava e urlava come una faina impazzita, scardinando pali e parapetti, scrollando insegne e carrozze, alberi e siepi, sferzando il molo, facendo oscillare i piroscafi all’àncora. Una mattina, mentre mi recavo a scuola proteggendomi gli occhi col cestino più leggero di una piuma (c’era poco, ben poco da mangiare allora), vidi un battellino staccarsi dalla gòmena e rovesciarsi sul dorso come uno scarafaggio; un mozzo perse il basco e lo rincorse per decametri e decametri sotto lo sguardo atterrito dei pescatori, le cui canne s’impigliavano ai pennoni, e non c’era verso di sbrogliarle se non ricorrendo all’aiuto di Gallo Spennato e di suo cognato, un albino maleodorante e sordomuto che noi chiamavamo Aquila Sconocchiata non solo perché veniva dalle lontane Indie, ma perché, pur soffrendo d’artrosi, quando faceva del bene sembrava volare. Gallo e Aquila erano gli unici a mantenersi impassibili nella bufera, le gote arrossate dal gelo, i capelli unti di brillantina, mentre lo spavento faceva tremare ai pescatori i polsi e le vene, pance e gambe, calzoni e cappelli. Loro due li guardavano con pietà, poi si arrampicavano sui pennoni con quattro bracciate, snodavano rapidamente le matasse e si lasciavano scivolare giù senza batter ciglio nella gratitudine generale.
L’unica nota allegra che mi riesca di ricordare in quell’inferno del 1927, a Trieste.
Fu un autunno lungo, il più lungo e temibile per unanime giudizio.
I panni stesi sui balconi della città vecchia si torcevano, svolazzavano, sembravano stendardi sontuosi e sprezzanti che annunciassero una vittoria. Alcuni crepitavano come petardi, altri emettevano il verso stridente e prolungato dei grilli che catturavo ogni mattina nell’orto di zio Beppi balzando da una frasca all’altra con l’agilità d’un felino, e che poi alloggiavo nella tasca interna della casacca fino a sera, quando li tiravo fuori, li salutavo e li liberavo nella bruma, pensando eccitato alla caccia del giorno dopo.
Mi sembra che sia passato un secolo da allora.
Quel vento m’incuteva una paura del diavolo, e correvo a rifugiarmi tra le braccia di colei che sola aveva il potere di placare la mia angoscia con un semplice gesto, una parola: mia madre. Che mi prendeva le mani, le stringeva come aggrappandosi all’ultima speranza, s’illuminava d’un sorriso etereo, mi scrutava per lunghi minuti con un cipiglio ardente e fin straziante, poi ciondolando il capo mormorava:
― Te capisco, fio mio, ah se te capisco, te capisco ben, 'dona santisima, fa spavento anca a mi 'sto ventasso de 'a malora, ma no pensarghe… pasarà.
E invece non passava. Non passava mai. Anzi, sibilava più forte, sempre più forte, da occidente, da oriente, da sud, da nord, dall’alto, dal basso, da destra, da sinistra, di fianco, e tutti si chiudevano nei pastrani e correvano terrorizzati a ripararsi nei portoni dei palazzi e delle chiese. Ma i vecchi e i bambini, per tacere dei malati, non resistevano a tanta furia: venivano risucchiati dai vortici e sparivano, come cancellati da un colpo di spugna.
Tutti erano terrorizzati. Tutti. Ma non mio padre, a cui il vento era sempre piaciuto, al punto da intristirsi quando si fermava. Se le foglie dell’acero che lui stesso aveva piantato da ragazzo davanti al balconcino del salotto accennavano a calmarsi, spalancava la finestra e smetteva di respirare finché il vento non riprendeva a soffiare. Allora godeva. Godeva con tutta l’anima, con gli occhi, con la bocca, con le viscere, con le braccia, con le gambe, coi gomiti, in ogni poro. Godeva della gioia di sentirsi carezzato da quelle dita forti e immateriali, imprendibili eppur concrete, più concrete del granito. Godeva per sé e per il mondo intero, anche per quelli che al vento non volevano abbandonarsi. Era un godimento umano, ma anche animale: insieme estremo e mite, informe e pensoso, epidermico e profondo. Ogni volta pareva che un vulcano gli scoppiasse dentro e gli squassasse tutte le fibre dell’essere.
Quando l’autunno finì e arrivò l’inverno, fui felice come non ero mai stato prima. Uscivo nelle strade e non mi sembrava vero di non sentire nemmeno un alito sugli indumenti e sulla pelle. Che bel mondo sarebbe il mondo, pensai, senza un soffio di vento!
Tutti fummo felici. Tranne mio padre, Gallo Spennato e Aquila Sconocchiata, che si costruirono con trecento metri di stoffa rigida e settemila stecche di pioppo il ventaglio più grande del Friuli-Venezia Giulia, e trascorsero mesi, interi mesi ad agitarlo nel giardino dietro casa per scacciare la malinconia in attesa del vento.
― Dove troveranno mai tanta costanza? ― mi domandai infilando un grillo nel taschino, mentre zio Beppi mi rincorreva brandendo la roncola a mo’ di fioretto.

sabato 14 novembre 2009

Il Mago Zurlì s'è incazzato.


Il Mago Zurlì s'è incazzato. È difficile immaginarselo così, furibondo contro l'Antoniano che ha avuto la sconsideratezza di metterlo da parte. Difficile immaginarselo digrignante e furioso invece che plastificato in quel suo sorriso scolpito in faccia a mostrare ridondante e posticcia simpatia per le centinaia, migliaia di mocciosetti canterini che ha traghettato al loro quarto d'ora di successo e che lo hanno saldamente tenuto ancorato ad un ruolo collodiano per quasi mezzo secolo. Diciamoci la verità, già da anni non incantava nessuno e tutti, compresi quelli che come me da bambini erano rimasti fregati dal suo costume in mantello e calzamaglia negli anni settanta, si chiedevano che cazzo c'entrava quel vecchietto ostinatamente sorridente ma sempre più indispettito, allo Zecchino d'Oro. Adesso che l'anno messo fuori corso, lui s'è ribellato e ha detto: "Chi ha detto che Tortorella non ci sarà allo Zecchino d’Oro perché è vecchio e superato? Ho l’età del Papa e del Presidente della Repubblica e non ho la badante e il morbo di Parkinson»."
Ha ragione.
Questo è il punto cruciale, il nodo gordiano della faccenda. Il Mago Zurlì ha ragione.


Questo è il paese dove vanno in pensione solo i poveracci, tutti i posti più rilevanti dall'industria, alla cultura, alla politica sono occupati da vecchi. Magari grandi vecchi, ma vecchi. Obama ha 47 anni, Berlusconi 73, tanto per fare un esempio. In Italia a 47 anni o sei un fallito precario o una giovane promessa. Se qualche giovane s'affaccia e prende il posto del vecchio è per ragioni dinastiche, vedi Elkann alla Fiat o Marina e Piersilvio Berlusconi a Mondadori e Mediaset; e questo avviene soltanto perché c'invecchieranno nel ruolo, fino alla loro naturale, biologica fine. Il giovane che traghetterà il PD verso il futuro è un signore di 58 anni, un virgulto sprintoso secondo il modello italico. Se qualche altro trenta/quarantenne s'affaccia e riesce ad ottenere un incarico è solo in virtù di una paternalistica concessione e in cambio di una totale adesione alla weltanschauung del vecchio che gli ha dato l'investitura, il quale ne ha un ritorno d'immagine giovanilistica che nella sostanza è vuota d'ogni senso: sono giovani servi precocemente invecchiati.
La Serracchiani era tosta sul nascere, e tutti ad applaudire, ma adesso?
Ne consegue che se sei giovane, brillante, creativo, intelligente, preparato o invecchi precocemente, ti sistemi da qualche parte e non molli fino a che non ti vengono a mettere il catetere e ti dicono che sei morto, oppure? Molti vanno via. Molti tenacemente invecchiano lottando ( e poi, se ci riescono, vanno in pensione).

Ma è il Paese che è così. Mettiamocelo in testa. L'idea della fissità rassicura i più. Il ventenne geniale è bello e straordinario se ha un nome straniero, qui da noi al massimo va in tv in una trasmissione per fenomeni da baraccone.
Bisognerebbe ci fosse una generazione, forse due, che si mettesse da parte, saltarla a piè pari, passare al nuovo, rischiando certo, ma perché no? Peggio di come stiamo. Ma le file sono lunghe e nessuno sarà mai disposto a cedere.

Languiremo così, tra vecchi tenaci e protervi o dovremo aspettare un dopoguerra che, per ragioni di numero d'adulti morti lasci spazio ad un nuovo, vero ricambio? Nessuno se lo augura e dunque, ha ragione Cino Tortorella, in arte il Mago Zurlì, ridategli il posto. Se lo merita tutto. Anche noi.


Francesco Randazzo




giovedì 12 novembre 2009

«Notte Segreta» a Valencia, Spagna

parolediteatro.blogspot.com


Jueves, 19 de Noviembre 2009
19:00 horas
LUGAR: Sala Zircó
PRECIO:3€
LECTURA DRAMATIZADA
Noche Secreta” de Francesco Randazzo, trad. de Francesco Randazzo.
Director: Josep V. Valero
con: Maribel Bravo y Anna Mari

Viernes, 20 de Noviembre 2009
11.00 horas
LUGAR:Salón de Actos-Colegio Mayor “LLuis Vives”
CONFERENCIA:"Los autores italianos al extranjero"
con los autores Francesco Randazzo y Gianni Clementi.

Tutto il programma de Festival al link: parolediteatro.blogspot.com

martedì 3 novembre 2009

Gualberto Alvino. Parodiando

5. Tommaso Pincio

Era la fine degli anni Ottanta, che qualcuno definisce meravigliosi, altri orribili, altri discreti, altri ancora passabili, o almeno vivibili, quando Torquatus W. Ufonson, un umano Speckerwalsh di quarta generazione che aveva già consumato tre quarti della sua vita su questo pianeta e che si affacciava proprio allora al quarto quarto trascinandosi nella più penosa tristezza, e che non aveva mai fatto del male ad anima viva, o perlomeno così aveva sempre creduto nell’ingenuità senza fondo che gli certificavano tutti, parenti compresi, ma trascorreva il suo tempo libero ― e ne aveva tanto, tantissimo, fors’anche troppo, a giudicare dalla noia che lo prendeva spesso, in certe stagioni spessissimo, e non c’era niente da fare ― trascorreva il suo tempo libero giocando con i suoi marzianini di piombo e le sue cosmonavine in miniatura di tutte le specie e dimensioni allineate sugli scaffalini di tec ben stagionato nel suo bungalow di faggio giallo sulla collina più alta della contea di Madox Springs, proprio sotto Stanford, la città più fumosa di tutto l’East Side, e questo dipendeva dalle molte fabbriche che c’erano, nessuno seppe mai di cosa, però il fumo usciva alla grande e invadeva impunemente case; polmoni. Tutto.
Quella contea godeva la fama di essere la più infame di tutti gli Stati Uniti. O almeno una delle più infami. Senz’altro. E questo non meravigliava nessuno. Non poteva meravigliare nessuno visto che la fedina penale più immacolata di Stanford registrava un elenco di crimini da far paura al più tremendo dei banditi (allora li chiamavano gangsters, cornuti, o semplicemente figli di puttana) di tutte le contee limitrofe. E non solo quelle limitrofe. Anche quelle più distanti.
Una mattina di maggio di verso la fine degli anni Ottanta, Torquatus W. Ufonson, mentre si preparava il suo green tea nella kitchen d’olivastro che aveva appena comprato a rate benché le sue magre finanze non glielo permettevano, improvvisamente e senza la benché minima possibilità di scampo, fu attanagliato da un dubbio. Un dubbio atroce, una morsa sgradita, corrosiva, che non lo mollava un solo momento, specie quando era d’umore non particolarmente fantastico, il che avveniva quasi sempre, malgrado si sforzava di non farlo succedere, e che si riaffacciava quando non se l’aspettava, tra capo e collo, e avrebbe fatto l’impossibile per cancellarlo, benché non riusciva a sentirselo come suo. Eppure lo era, suo, non c’era dubbio, non c’era il benché minimo dubbio che era suo. Ormai si era incancrenito, si era incarnito, proprio come un’unghia, nelle profondità della sua anima turbata e confusa in cui lui annaspava come un naufrago che intravede, sì, la terra e le cime degli alberi coronate di nubi e il vento che le scuote e gli uccelli che volteggiano in mezzo a nuvole di insetti di ogni specie e dimensione che vorticano nella luce che si staglia contro il mare che bolle come se una fiamma lo scaldasse nei visceri che sembrano quelli di un mostro, ma siccome sta per affogare, non ce la fa più, e allora si lascia andare pensando: se deve andare così; vada.
Ma Torquatus W. Ufonson non si sarebbe lasciato andare, mai, a qualsiasi costo, nemmeno per tutto l’oro del mondo. Ci voleva coraggio, certo. Ma a lui il coraggio non gli era mai mancato, non era mai stato un problema fin da quando suo padre gli disse, «Vai pure, ma ci vuole coraggio, se non ce l’hai c’è poco da fare». Tali parole gli riecheggiavano nell’anima spessissimo, a Torquatus W. Ufonson.
Torquatus W. Ufonson non si ricordava con precisione il momento in cui quel dubbio aveva fatto il suo primo avvento, impiantandosi per la prima volta prepotentemente e ineluttabilmente nella sua mente fremente. Perché adesso? si chiedeva, perché proprio a lui, che non aveva mai dato fastidio a nessuno, che giocava innocuamente con le astronavine e i marzianini di piombo, che si limitava ad avere un sistema di vita per cui fantasticava al massimo qualche incontro ravvicinato del primo tipo, e solo qualche volta, ma raramente, molto raramente, del secondo? Al terzo poi, non ci avrebbe mai pensato. Mai. Perché era fatto così. Non faceva mai il passo più lungo della propria gamba. Che sapeva che era cortissima, e non gli avrebbe mai consentito di fare un passo che fosse particolarmente lungo, non in senso assoluto, in senso relativo, solo in rapporto alla proprio gamba, cioè, non in relazione a tutto. Sperava solo di sfangarla, ecco tutto. Sfangarla: intorno a questa parola si era svolta tutta la sua vita. O quasi.
Non che non ci avesse mai pensato, non che non sapeva cos’era, un dubbio. Ci aveva pensato a questa cosa del dubbio, sicuro. Doveva farci una qualche cosa. Lo sapeva bene che doveva farci una qualche cosa. Solo, non adesso. Un po’ più in là. Magari a settembre. A ottobre. A novembre. O a Natale, perché no? Natale, a Madox Springs, era stupendo, tutti si compravano una camicetta nuova e buttavano la vecchia, una radio nuova e buttavano la vecchia, un frigorifero nuovo e buttavano il vecchio, chissà da dove proveniva questa tradizione molto molto originale che a Torquatus W. Ufonson faceva molto piacere osservare con molta attenzione tra le stecche delle sue persiane, mentre accendeva con molta cautela le lucine di tutte le sue astronavine o scrutava i marzianini illuminati dalla luce radente del pub sotto casa sua da dove proveniva ondeggiando nell’aria una puzza insopportabile di pancetta di terza scelta e di uova andate a male. Sarebbe sceso a litigarci di brutto con quelli là, però rimandava sempre. Di volta in volta. Come rimandava tutte le cose appartenenti alla propria vita, benché era uno Speckerwalsh, e gli Speckerwalsh, si sa, quando c’è da agire agiscono; alla grande.
Partiva da lontano quel dubbio, da molto lontano. Da così lontano che lui neanche si svegliava la mattina e quello già era pronto a bucargli il cervello, come uno che ha un trapano acceso in mano e non aspetta altro che il momento più giusto e migliore per poterlo usare al meglio contro chiunque gli capita casualmente sottomano benché è totalmente con le mani pulite, innocentissimo voglio dire.
Voleva, doveva fare una qualche cosa. Ma non ci riusciva a farla.
Qualche volta, ma molto di rado, andava al distributore automatico di gassose di Hobbes Street, che fu poi chiamata Bongo Road in onore al tamburo del primo giudice di Stanford che lo percuoteva dopo aver emanato ogni sentenza quasi per suggellarla con un ritmo che salava il sangue di tutti quelli che c’erano. Ognuno che aveva voglia di gassosa bastava dicesse: «Bongo», bastava questa parola: ciò per far capire quanto Bongo era diventato il simbolo in assoluto della gassosa; in altri termini, non dicevano più, «Voglio una gassosa», ma solo, «Bongo», e gli altri capivano al volo, dopo qualche minuto.
Andava lì, Torquatus W. Ufonson, infilava la moneta nell’apposita fessura, poi si sedeva a terra sfoggiando il suo sorriso estatico che di estatico aveva unicamente l’apparenza, perché lui all’interno si sentiva al contrario preciso dell’estasi, diciamo pure: imbestialito come un negro, benché di nero aveva solo i sopraccigli, il resto era più bianco del bianco lavato con tre passaggi a cento gradi in una lavatrice Turbomax Super 156 Tipo Extra. Infilava la moneta e aspettava paziente, pensando ai suoi marziani. Solo allora si sentiva meglio. Non proprio bene, solo meglio. Lo sapeva bene che quel dubbio lo avrebbe mollato solo qualora avesse dato una risposta ad esso. Bene. Ma come fare? Pure se avesse voluto, Torquatus W. Ufonson non ci sarebbe riuscito molto bene. Del resto, certe cose, o riescono bene, o no. E questo lo sapeva. Lo sapeva benissimo, fin nel profondo dell’essere.
Torquatus W. Ufonson si era perso. Si era perso in tanti sensi. Si era perso nel senso più generale di ostinarsi a non voler considerare l’eventualità che il mondo intorno a lui fosse reale e in quello più particolare e immediato di non sapere dove diavolo era potuta finire la Stanford di un tempo, quella della sua infanzia che correva come il fiume Zxhythwskj (qualcuno lo scriveva Yzxtvwjw, altri Xzitvs e altri ancora Ptpofak, non si capì mai la grafia esatta, finché un vecchio capo apache disse, «Si scrive Mkzxxyqiq, ecco come si scrive!»), solo che il fiume prima o poi arrivava al mare, mentre lui non arrivava da nessuna parte. Mai!
Nella contea di Madox Springs nevicava che Dio la mandava. Nevicava sempre, in ogni stagione. Nevicava come scorrevano fiumi di birra. Che a parte la neve era l’unica cosa che ti poteva venire in mente di dire su quello schifo di contea che tutti odiavano a morte e che ci avrebbero messo la dinamite e che non si decidevano invece mai a lasciare, come se ci fossero appiccicati con la colla Samson, quella che Torquatus W. Ufonson adoperava per riparare i suoi marzianini, pur se piombo e colla non è che vanno molto d’accordo, anzi; puoi provare cento, mille volte, ma due pezzi di piombo con la colla, Samson o non Samson, mica li attacchi, il piombo si fonde, altro che colla! Ci vuole un forno a più di 10.000 gradi, la colla serve per la carta, la stoffa, il legno morbido, certe volte la ceramica, eccetera eccetera eccetera. Ma il piombo…
La vita di Torquatus W. Ufonson si lasciava trasportare da una corrente di placida e morbosa malinconia che correva verso il niente, tra un marzianino da riparare e una cosmonavina da lucidare, e magari da farci un sogno, di quelli che ti lasciano un segno la mattina, quando ti svegli con il palato impastato e una voglia di caffè che si impossessa senza tregua della tua gola secca come se fosse stata bruciata da un lanciafiamme o cosparsa d’acido, ovvero cose molto simili.
E infatti. Una notte verso le tre, tre e mezza, Torquatus W. Ufonson sognò che si costruiva un’astronave vera, e che un esercito di marziani in carne e ossa lo circondava pian piano scrutandolo alla stessa maniera con cui lui scrutava i marzianini di piombo sullo scaffalino di tec.
Vale a dire: sinistramente.
Torquatus W. Ufonson se l’aspettava, in effetti. Da tanto tempo. Da una quantità di tempo che non riusciva nemmeno più a quantificarla. E finalmente era venuto il momento.
E da quel momento, del dubbio più neanche l’ombra.

lunedì 19 ottobre 2009

4 e 5 Novembre - "L'asciugamano" al Palermo Teatro Festival


29 Ottobre - Malpelo e Iqbal


Festival ‘Le voci dell’anima" – Incontri teatrali settima edizione

Teatro degli Atti - Rimini

Giovedi 29 ottobre 2009 ore 21

Compagnia Argo – Siracusa

Malpelo e Iqbal

di Francesco Randazzo
con
Junio Ambrogio, Fabio Garan, Veronica Buonarrivo
coreografie di
Fabio Garan
regia
Junio Ambrogio

…una delle più gravi vergogne dell’umanità ancora irrisolta: lo sfruttamento del lavoro minorile…
una sotria distante nel tempo, ma vicina nello spazio (’Rosso Malpelo’ di Verga) che si incrocia nel finale della rappresentazione ad un’altra storia distante nello spazio ma estremamente vicina nel tempo (l’assassinio del bambino pakistano Iqbal)per ribadire come la piaga del lavoro minorile non appartenga nè ad un luogo, nè ad un periodo storico preciso….

Il programma del festival, qui.

Il testo, qui.

23 Ottobre - "Per il bene di tutti" al Festival Universoteatro


Université de Toulouse II Le Mirail, France.

Compagnia: I Chiassosi
Referente dell’Università: Prof.ssa Evelyne Donnarel
Regia: Jean-Claude Bastos
Titolo dello spettacolo: “Per il bene di tutti”
Con: Berrone Stéphane, Ferrato-Abadia Lionel, Boulahmi Nabaouia, Lapeyronie Célia, Escourolle Claire, Menduni Paolo, Milia Bruno, Rasero Matteo

“Per il bene di tutti” di Francesco Randazzo

Gli abitanti di un villaggio di frontiera organizzano delle ronde notturne per respingere gli immigrati che attraversano il fiume e tentano di “invadere” la loro terra. Una notte, un clandestino riesce a oltrepassare la frontiera, ma viene catturato. Nell’arco di una giornata, all’interno di un unico spazio claustrofobico, in cui la presenza latente del clandestino è evocata in ogni momento, un piccolo gruppo di borghesi (il commerciante e la moglie, il meccanico e la figlia, il dottore, un giovane naziskin e un pazzo fanatico) discute sul da farsi, esponendo al pubblico e a sé stesso le ragioni legittime che lo spingono ad agire: per difendersi, per paura, per follia. Ne nasce un quadro spietato della società contemporanea, il lato oscuro della nostra anima di cittadini privilegiati. Con una scrittura libera e originale, che lascia spazio all’immaginazione e punta su un ritmo recitativo e teatrale dei più creativi, questo dramma tratta di un argomento di grande attualità, in un’Italia che ha aperto le porte a un’immigrazione brutale e inaspettata. La messinscena minimalista gioca sui contrasti cromatici e sulla frenesia che accompagna i discorsi dei personaggi, riuscendo a trasmettere disagio e senso di colpa nel pubblico che viene preso a testimone di questa tragedia contemporanea.

La scheda info del Festival: qui.

Lo spettacolo sarà visibile in diretta streaming sul web ai link:
http://universoteatro.solot.it
oppure
mms://66.71.191.54/wmp01-ml22

Il testo:
in italiano, qui
in francese (testo italiano a fronte), qui.


venerdì 16 ottobre 2009

Felice Paniconi. Rosa

L’anima delle rose

Torna al mattino l’anima alle rose
e si dissolve in nuvolette d’oro
la rugiada dolce amica delle cose

Della notte nulla a me rimase
oltre l’orizzonte tagliato
dal muro delle case

Settembre muore

Muore Settembre nelle ultime piogge
con lenti passi come di un cieco
mentre in alto le stelle
allontanano il cielo.

Per sempre una domanda
non sfuggita la mente
afferra e solo allora
mi accorgo quanto vana
sulla terra ogni cosa
tranne questa pioggia e questa rosa.


L’angelo dell’autunno

Nella chiarezza delle autunnali
sere un angelo scende
nel calmo cielo e sole mite
che la terra tutta prende.

A poco a poco sentono da lontano
gli alberi dell’inverno i passi.

Ma questa rosa sola
al vento la corolla non vuol dare
nell’avidità ardente della sera.

La rosa del mirteto

Non ho mai amato la rosa
ma sempre fiori di campo
velati anemoni o papaveri del grano
e gli umili ciclamini dei fossi

Non ho mai amato le orgogliose rose

Ma poi tra i mirti e i poggi
una rosa apparve che univa
alla saggezza del suo rango
dei fiori di campo

Una rossa rosa romita
dalla sua bellezza ferita

mercoledì 14 ottobre 2009

Controfigura

Controfigura

Marsilio Editore
pp. 176
2009
isbn: 978-88-317-9887-7


Una lunga passeggiata dentro Roma secondo il percorso immaginato nel romanzo che Lucio Grimaldi aveva pensato tanti anni prima: di questa storia, progettata ma mai portata a compimento, il protagonista ritrova casualmente un suo vecchio taccuino. Ha inizio così una flânerie trasognata nel cuore di Roma, alla riscoperta dei luoghi e dei personaggi della propria giovinezza in un intreccio di memorie del passato e folgoranti agnizioni di un presente forse reale o forse solo immaginario. Un romanzo emotivamente coinvolgente, ricco di sorprese e di surreale ironia, di umori beffardi, di atmosfere e di poesia.




Luigi Fontanella vive tra Roma, Firenze e Stony Brook (Long Island, New York). È ordinario di Lingua e Letteratura Italiana presso la State University di New York. Ha pubblicato libri di poesia e saggistica. Tra i titoli più recenti: Pasolini rilegge Pasolini (Archinto 2005), L'azzurra memoria. Poesie 1970-2005 (Moretti & Vitali 2007), Oblivion (Archinto 2008). Per la narrativa ha pubblicato varie prose in rivista e il diario-racconto Hot Dog (Bulzoni 1986). Questo è il suo primo romanzo.



domenica 11 ottobre 2009

Gualberto Alvino. Parodiando

4. Carlo Lucarelli

Cinzia di Tor Tre Teste tossisce, si passa la lingua sui denti, una, due, tre volte, mordicchiandosi il labbro superiore fino a farlo sanguinare, poi ingoia il sangue e inizia a mulinare la sua Speedy Monogram della Red Apple stringendo il laccetto di plastica come un guinzaglino. Fa così ogni volta che ha un pensiero sinistro, o che qualcosa di grave sta per accadere. «Chi credi di essere, una sensitiva? È meglio che la pianti con le tue cazzate!» le ripete sempre con sarcasmo Diego di Testaccio, il ragazzo con cui sta ormai da più di due anni, facendo scricchiolare talora le Pakerson Classic, talaltra le Church’s modello Burwood sui vialetti di ghiaia dell’università dove si è iscritto solo per far tacere sua madre, una vecchia professoressa di greco in pensione che non lo perde mai di vista, spiandolo da dietro alle fessure ovali dei suoi occhietti a mandorla, eredità di suo nonno, cinese di Canton trasferitosi in Europa subito dopo la guerra cino-nipponica per aprire una catena di ristoranti e di tolette per cani che assurse agli onori della cronaca per una serie di omicidi su cui si trovò ad indagare il padre di Diego di Testaccio, uno con l’ulcera gastrica e con il fuoco di Sant’Antonio che gli causava dei dolori lancinanti sulle spalle e lungo l’intera schiena, ma con un fiuto che avevano pochi investigatori, all’epoca. Lui e la madre di Diego di Testaccio s’innamorarono pazzamente mentre lei gli spalmava sulla schiena un balsamo descritto in un testo ionico di farmacopea che lei aveva scovato tra i fogli di guardia di un codice antico.
Valeria di Valle Canestra continua a tormentarsi l’orlo dei 501 Standard Fit e le frange dei polacchini Givenchy fingendo di reprimere prima un rutto poi uno sbadiglio, perché sa che cosa vuole Cinzia di Tor Tre Teste, vuole chiederle di entrare a farla insieme, come facevano da bambine nel bagno della scuola, e a lei verrà l’angoscia perché lì per lì non saprebbe prendere una decisione: l’afrore di ammoniaca la disgusta, ma al tempo stesso la attrae, la seduce in maniera irresistibile, «Smettila di rimestare nel piscio!» le dice sempre sua madre. E frattanto ha una gamba che trema. Le trema talmente, la gamba, che un rasta di passaggio le chiede se per caso si senta male, se ha bisogno d’aiuto, perché una gamba tremare così non l’ha mai vista in vita sua, dev’esserci per forza qualcosa che non va, per forza. Valeria di Valle Canestra pensa ma vedi questo, credendo sia il guardiano, che le sta dietro da quando l’ha vista uscire da un cesso con un seno di fuori; poi: «Oh, ti ho chiesto qualcosa? Eh? Ti ho chiesto qualcosa? No. Allora fai dietrofront e esci dal bagno delle donne! Quello dei maschi è occupato? Cazzi tuoi!» risponde lievemente seccata, tornando subito a rintanarsi nei suoi pensieri, mentre si sente tra i glutei e fino all’attaccatura delle cosce la stretta sorda delle emorroidi che le viene ogni volta che pensa fitto. «Vorrei ficcarci un palo dentro!» dice sempre a sua sorella Federica di Rocca di Papa quando le chiede se ha dolore. «Smetti di pensare fitto e vedi che ti passa» replica Federica di Rocca di Papa. Invano, perché Valeria di Valle Canestra a smettere di pensare non ci pensa, non ci pensa nemmeno lontanamente.
Katiuscia del Quadraro Vecchio se ne sta in un angolo, la schiena lunga e dritta appoggiata alla parete di maioliche bianche chiazzate di sputi e scritte oscene. Fissa le altre come se le vedesse per la prima volta, e intanto un velo di tristezza le vela gli occhi azzurri, perché sa che prima o poi toccherà a lei, sa che Cinzia di Tor Tre Teste, se Valeria di Valle Canestra si rifiuterà, chiederà a lei di entrare in bagno, e Barbara del Tiburtino III: «Su, non fare la scema, questo è l’unico bagno libero. E poi, un bagno così, quando ci ricapiterà? Ci hai pensato a questo? Di’, ci hai pensato almeno una volta? Da quanto cerchiamo un bagno? E proprio ora che l’abbiamo trovato vorresti…» Ma Katiuscia del Quadraro Vecchio non l’ascolta, alza il bavero della Ralph Lauren e se lo serra stretto intorno al collo come se volesse farsi risucchiare da quell’imbuto di stoffa cremisi, sparirci dentro, per sempre. Un tempo preferiva di gran lunga le Lacoste, perché il caimano era sempre stato il suo animale preferito, ma quei nidi d’ape le irritavano la cute troppo delicata, allora passò senza rimpianti alle Ralph Lauren, altra classe, altra finezza, anche se le trovava un po’ troppo larghe, «a vela» diceva, intendendo «a sacco», o forse «a cascata», chissà.
D’un tratto si sentì un tonfo, e quattro teste rasate irruppero nell’ambiente. Erano a volto scoperto, e Barbara del Tiburtino III spalancò la bocca ed emise un grido talmente acuto che un cane, fuori, latrò per un minuto buono, e anche più, perché era stato l’unico a poterlo sentire, tant’era acuto; questione d’onde, frequenze. Poi chiese:
― Voi volete ucciderci, vero?
― Perché dovremmo uccidervi? ― chiese a sua volta quello che doveva essere il capo, perché era il più alto di tutti, e una cicatrice gli sfregiava lo zigomo sinistro e parte del destro fino all’orecchio traforato di metalli, mentre gli altri tre erano bassi di statura e avevano la pelle liscia come quella dei neonati.
― Come perché? È chiaro, siete a volto scoperto. Se non volevate ucciderci sareste venuti mascherati, magari con le maschere dei presidenti, come in Point Break, o da Topolino e Zio Paperone, come in quel romanzo giallo con un nome di donna nel titolo, scopiazzato da Point Break, scritto dal figlio di quel primario parmigiano che fa venire il latte ai ginocchi al secondo rigo e malgrado ciò vende a sfascio. Mi chiedo come sono possibili certe cose? Chi li compra? E soprattutto: perché? A certe persone va tutto bene, gli arrivano soldi da ogni parte, non bastava il padre primario? Anche royalties a pioggia! Di questo passo dove andremo…
Molto probabilmente voleva dire: «a finire». Ma non terminò la frase che qualcosa la colpì alla bocca dello stomaco lasciandola senza fiato, in un conato asciutto. Era il pugno di quello che doveva essere il capo, perché era troppo alto, rude e violento per non esserlo, mentre gli altri tre tacevano pendendo dalle sue labbra. Le si avvicinò e le soffiò all’orecchio:
― Basso, tarchiato, fighettino, un po’ flatulento, esse blesa, quando cammina alza i talloni e pende leggermente a sinistra, Rolex Yacht-Master II al polso destro, tenuto leggermente lento, allacciato al quarto o al quinto buco, jeans Diesel a bottoncini d’acciaio, tranne il primo, gliel’ho fatto saltare io con un calcio perché rompeva troppo i coglioni. Dov’è?
― T’ammazzo, figlio di puttana! ― esclamò Katiuscia del Quadraro Vecchio senza troppa convinzione, pizzicandosi la cintura Holl d’alcantara. Le fece eco Cinzia di Tor Tre Teste, cui l’orrore e la tensione esplosero dentro. E fece quello che faceva sempre quando si trovava in uno stato d’eccitazione. Cominciò a cantare una canzone di Sergio Bruni, isterica e sonora, senza riuscire a fermarsi. Ci aveva perso più di un marito, per quello.
― Reazione nervosa, eh? Va bene. Ricomincio da capo. Basso, tarchiato, fighetto, un po’ flatulento, esse blesa, quando cammina alza i talloni e pende leggermente a sinistra, Rolex Yacht-Master II al polso destro, tenuto leggermente lento, allacciato al quarto o al quinto buco, jeans Diesel a bottoncini d’acciaio, tranne il primo, gliel’ho fatto saltare io con un calcio perché rompeva troppo i coglioni. Dov’è? Parla, se non vuoi crepare prima del tempo. La vedi questa? ― e le mostrò una scimitarra turca appena lucidata che sapeva d’Amphora Verde Rich Aroma, infatti c’era attaccato un vecchio grumo di tabacco secco che svolazzava per lo spostamento d’aria che si era verificato in seguito al movimento di qualcuno o qualcosa.
― Aspetta un po’, ti riferisci al rasta di poco fa? ― mormorò Barbara del Tiburtino III scuotendo la testa incredula.
― Sì, perché? ― fece lui curioso, sollevando la scimitarra sul collo tremante della ragazza con uno sguardo che non prometteva niente di buono.
― Porca troia! E non potevi dirlo subito che cercavi il rasta? Un rasta si riconosce dai capelli, mica dal Rolex e tutte le menate che hai messo in fila!
― Allora? Dov’è? Sputa, o ti pentirai di essere nata. La vedi questa? Vuoi che ti tronchi il collo? Credi mi ci voglia molto per farlo? Eh? Credi mi ci voglia molto per troncarti il collo?
― Primo cesso a destra. È mezz’ora che è là dentro, non senti la puzza?
― Cristo se la sento! Avrà ingoiato un gatto morto! Grazie infinite.
― E di che? Comunque questo è… il bagno delle donne ― aggiunse poi con una punta di esitazione mista ad orgoglio femminile.
― Ah sì? ― rispose lui imbarazzato rinfoderando la scimitarra. Ma era chiaro che presto o tardi l’avrebbe risfoderata. Chiarissimo.

domenica 4 ottobre 2009

PER IL BENE DI TUTTI a Radio Teatro Onda Rossa



Martedì 06 Ottobre 2009 ore 14

● Radio Onda Rossa 87.9 FM ●

PER IL BENE DI TUTTI di Francesco Randazzo

con Giovanni Carta, Emanuela Trovato, Gian Luca Bianchini, Walter Da Pozzo, Adriano Davi, Francesco Sala, Silvia Cippitelli, Rebecca Braccialarghe


«Persone normali, in un normale paesino di provincia al confine. Dall’altra parte gli altri: pericolosi per definizione. Uomini anche loro ma diversi, stranieri e soprattutto indesiderati. Al di là della religione e dell’umana solidarietà, principi validi in teoria e a distanza di sicurezza, tutti nel paese sono d’accordo. E si organizzano. Formano una piccola ma motivatissima milizia anti immigrati, ronde notturne a guardia della riva del fiume che fa da confine. Determinati a non fare passare nessuno. Ma uno di loro riuscirà a passare e sarà catturato. Che fare? Tutti i nodi dovranno venire al pettine e tutti, al di là dei ruoli normali e per bene delle loro piccole vite protette dagli schermi quotidiani, dovranno rivelare l’aspetto più oscuro, le ragioni vere del loro animo e delle loro azioni, affermando l’assolutezza di un principio sbagliato, con buone, sane ragioni: per proteggersi, per non soccombere, per il bene di tutti. Una storia preoccupante, che ci pone di fronte alle nostre piccole colpevoli omissioni di ogni giorno, alle nostre piccole connivenze silenziose, ai discorsi agghiaccianti della cosiddetta gente per bene...».

Il progetto RadioTeatro:
A Radio Onda Rossa (87.900 F.M., via dei Volsci 56 – 00185, Roma. I

IN STREAMING su
http://http://www.ondarossa.info/, cliccando su “in diretta”
O IN PODCAST (dopo la diretta) al link: http://www.scarphrec.org/visionari/perilbeneditutti.mp3


giovedì 1 ottobre 2009

Anna Utopia Giordano

Rapsodia


Ho perdonato la giustizia, la tolleranza.


Trasporto graffi allotropici,

avventure incise con pece

e simboli anidri (sabbia,

lacune, un Orisha mortale).


Cnidociglio, sentiero prolungato

fra planimetrie soteriologiche

– dravya, guṇa, karma –

sfuma flegma, una confessione.


Mi accarezza un soffio estroflesso,

flosgenico, intriso d’umor vitreo

e bile, attraverso spirocheti mesofili

e capsule di flocculi dorsali


funzioni tonali,

i suoni si sciolgono:


ecpirosi


mediante


mercoledì 30 settembre 2009

“Teatro di Babele” - Tavola rotonda sulle lingue del teatro


IN ALTRE PAROLE - Rassegna di drammaturgia contemporanea internazionale
QUARTA EDIZIONE


Direzione Artistica: Marco Belocchi e Pino Tierno


In collaborazione con la Biblioteca Nazionale centrale di Roma e con il patrocinio dell’Accademia Nazionale D’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”


Tavola rotonda sulle lingue del teatro, dal titolo “Teatro di Babele” alla Biblioteca Nazionale centrale di Roma.

2 ottobre alle ore 11:00.


Intervengono: Gian Maria Cervo, Enrico Luttmann, Francesco Randazzo, Pino Tierno, Flavia Tolnay.

Biblioteca Nazionale, Viale Castro Pretorio 105 - 00185 Roma
Tel. +39 06 49891.
Ingresso libero

sabato 26 settembre 2009

Gualberto Alvino. Parodiando

3. Salvatore Niffoi

Qui da noi, a Malloppeddas, sangu crama sangu, e certe mattine neanche il sole si fida di sorgere per non far succedere scandalo grande: lo vedi barcollare come un ubriaco in mezzo al cielo, che a quell’ora è più livido e viola dell’arraschiu di un tisico morente, e rituffarsi dietro le montagne di Sas Bulas Spoioladas come un topo nella sugna, fiùùùùùùùùùù, fìfì, fiùùùùùùùùùùùùùù, come una lamia sulle mammelle d’una pitzinna, oltre i vigneti di Abbas Tzicorrosas et Putzinosas, tàtàn, tàn tàn, cacatàtàtàn, tàtàn tàtàn tàtàn tàtàn, come un lupo sull’anzone strazziolato, verso la pianura di Sa Buzara de Babbachiuzi Tzoppu, splìn, splìììììììììììììììììììn, tìn tìn tìn, spùc, spòc, spùc, e atzutzuddarsi con la luna barbaricina che non vuole saperne di tramontare e di perdersi il primo isquartamento della giornata. Perfino il maestrale, da urlo, si fa bisi-bisi sommesso per non coprire i lamenti dei latitanti contro carabinieri e malagiustiscia, taccullidas de bocchisorzos iscannados che calano come un manto morbido e triste sulla vallata: «Eo mi corco in su lettu meu, anima e corpus incumando a Deu, anima e corpus a Santu Giuanne; s’inimigu mai no m’ingannet, s’inimigu mai no mi tochet, né a die né a notte, né in vida né in morte, iscuru a chie confidat in homines, pustis de sa tempesta benit calma, abba et bentu benint a passare, sa vortuna ata arribare».
Già, perché a Malloppeddas, come a Mammuddones, a Su Coddu Ismiddatu, a Sas Madixeddas Subra Mortos, a Viduantzia Gaddighinosa, a Bagassedda Ischerfiada e a Passu Tra Fogu la vita è cupa e dirgrasciata come la lottura, la miseria fa venire il gelo ai piedi, e sangue chiama sangue, rayolu rayolu, astiu astiu, vinditta vinditta. Frùùùùùùùùùù, bùmbùmbùm, scatataplàk, plìk, plèk. Così è sempre stato, e così sempre sarà, fino alla fine dei tempi. Pthù!
Se vi trovate a passare di qui tirate dritto e non guardate in faccia nessuno. Non azzardatevi: conosco più di un balentino che ancora scappa a gambe levate per la Calada d’iscramintados con la carne a brandelli, e altri che non hanno avuto nemmeno il tempo di pentirsi della troppa abbalansa.
Oddeu, mischineddos, manco ai cani.
Questa gente non è stoffa da farci stole. La loro pelle scavata nel marmo ingrato di Nurghilè è fulva come un’ascia appena cavata dalla brace, le loro mani sono più dure del cristallo di cava, gli occhi sembrano quelli di una faina nel pollaio. E chi è colpito dal fulmine ringrazia Dio per averlo baciato in fronte, poi si avventa sul primo che passa come un falco sul coniglio sbadato, aaaaaah, aaaaaaaaaaaaah, aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaah, sdùn sdùn, trìcchete, tràcchete.
Tirate dritto. E state alla larga soprattutto da mannai Zippulledda Corconè, che vaga eternamente per le strade con le sue scarpe di vacchetta, la cappa di velluto e le gambe a ighisi come verghe di steccato, nichidada e ammuscincada come una mastina orba della cucciolata.
«E comente ti permittis? ― è il suo grido di guerra quando qualcuno le posa gli occhi addosso, anche per sbaglio. ― Custa la paghi cara, berme, burdu! Ti tzaccu s’ischina, ti mangio il cuore, ti crasto con la roncola, ti brucio la casa con tutta la tua berentzia, ti spacco la colondra con l’istratzone fino alla pelcia del culo, che il crancu t’allufflasse il cervello, su malecaducu t’irbeccasse, la gutta ti deve abbulvuddare come un pallone prenu di cacarugnulu, t’addentigasse il demonio, che tu possa derroccare nell’isprefundu, ballaloi! Ajò, io passeggio in grascia e Deus e tu osi guardarmi per far parlare la zente limbuda? Non puoi barigare alla mia vendetta, cozzone! Accocónati e fatti ratzigare cussu cabu di mortu, abuminiu de sa terra, birgonza de su populu gabillu!». E se la vittima non le sfugge di mano, tutti alzano gli occhi al cielo e si fanno il segno della croce. Tutti, tranne il padre e i fratelli del malcapitato, che restano fermi come pietre pregustando il momento in cui la squarteranno come una scrofa dopo averla fottuta a turno come solo i barbaricini sanno fare, e spargeranno le sue carni smembrate nelle forre di Malloppeddas, Mammuddones, Su Coddu Ismiddatu, Sas Madixeddas Subra Mortos, Viduantzia Gaddighinosa, Bagassedda Ischerfiada e Passu Tra Fogu.
Perciò si narra che i bambini di queste parti nascondono i loro sogni nei teschi sbeccuzzati dai corvi.

venerdì 25 settembre 2009

"Notturno Italiano" intervista Calogero Giallanza


La notte tra Venerdi 25 e Sabato 26 settembre alle 00, 05, Carlo Posio nella storica trasmissione della RAI "Notturno Italiano" intervista Calogero Giallanza. Presentazione del suo Cd "Al muhda ilayy" Vincitore del Premio IMAIE 2009.
Notturno Italiano può essere ascoltato via Internet da questa pagina:
http://www.international.rai.it/notturnoitaliano/index.php
per Radio Onde Medie, e su Raitalia Radio. Nel territorio italiano sulle frequenze: 900 Khz (Milano); 1107 Khz (Roma); 657 Khz (Napoli).

sabato 12 settembre 2009

IN ALTRE PAROLE: Francesco Randazzo e Caryl Churchill


IN ALTRE PAROLE
Rassegna di drammaturgia contemporanea internazionale
IV edizione (a cura di Marco Belocchi e Pino Tierno)


17 Settembre 2009

Teatro Lo Spazio - Via Locri 42/44, Roma

ingresso libero

ore 19:30

Per il bene di tutti
di Francesco Randazzo

Reading

interpreti (in ordine di apparizione) :

Giovanni Carta
Emanuela Trovato
Francesco Sala
Walter Da Pozzo
Silvia Cippitelli
Gianluca Bianchini
Adriano Davi
Annalisa Paolucci

regia:
Francesco Randazzo


Finalista Premio Fondi La Pastora 1996

Vincitore Premio Candoni Arta Terme 1996

Motivazione:
“Per le sue doti espressive emerse da una scrittura asciutta, rapidissima, guizzante, pregnante e di forte realismo, e per la sua essenza di assoluta antiretoricità nel trasmettere un messaggio crudo, libero da moralismi, che guarda con cinica preoccupazione i tempi che verranno.”

*

Persone normali, in un normale paesino di provincia, una provincia al confine. Dall’altra parte gli altri: pericolosi per definizione. Uomini anche loro, come gli abitanti del paese, ma diversi, stranieri e soprattutto indesiderati. Al di là della religione e dell’umana solidarietà, tutti principi validi in teoria e a distanza di sicurezza, tutti nel paese sono d’accordo. E si organizzano. Formano dei gruppi, una piccola ma motivatissima milizia anti immigrati, ronde notturne a guardia della riva del fiume che fa da confine. Determinati a non fare passare nessuno. Ma uno di loro riuscirà a passare e sarà catturato. Che fare? I paesani sono tutti brave persone, persone normali, come se ne incontrano tutti i giorni, dappertutto: casalinghe, negozianti, medici, impiegati, meccanici, studenti. Tutti i nodi dovranno venire al pettine ed ognuno, al di là dei ruoli normali e per bene delle loro piccole vite protette dagli schermi quotidiani, dovrà rivelare l’aspetto più oscuro, le ragioni vere del loro animo e delle loro azioni, affermando l’assolutezza di un principio sbagliato, con buone, sane ragioni: per proteggersi, per non soccombere, per il bene di tutti. Una storia preoccupante, che ci pone di fronte alle nostre piccole colpevoli omissioni di ogni giorno, alle nostre piccole connivenze silenziose, di fronte ai discorsi agghiaccianti della cosiddetta gente per bene...
F.R.


ore 21:30

Sette bambine ebree
di Caryl Churchill
a play for Gaza
Traduzione di Masolino D'Amico

performance a favore di Medical Aid for Palestinians (MAP)


interpreti (in ordine di apparizione) :

Giorgina Cantalini
Clara Costanzo
Rossana Veracierta
Caterina Intelisano
Brunilde Maffucci
Matilde Piana
Rebecca Braccialarghe

regia:
Francesco Randazzo

"Sette bambine ebree" di Caryl Churchill è una breve e folgorante piece, scritta e messa in scena dall'autrice dopo l'ultima devastante campagna militare israeliana a Gaza.
Sette adulti (genitori o familiari) suggeriscono cosa dire ad una bambina. Sette differenti bambine ebree, di epoche differenti. Dall'Olocausto ai fatti di Gaza.
Attraverso la percussività della continua ripetizione conativa "Ditele..." e "Non ditele..." si attraversano la storia e le contraddizioni della coscienza di un popolo, dall'essere vittima alla trasformazione nel suo contrario, in continua alternanza.
La piece ha scatenato reazioni fortissime e opposte. Dall'acclamazione per il coraggio e la forza della denuncia alle accuse di antisemitismo. Non è un opera antisemita, ma sicuramente è antisionista. L'autrice lo è, e di contro ai suoi detrattori, ci sono anche favorevoli opinioni di intellettuali ed artisti ebrei antisionisti.
È un testo controverso e fastidioso. Vuole scuotere, far discutere, mettere in dubbio, avviare pensiero e azione critica. Nasce per questo. Vive per questo. Certamente nel suo risultato finale è un atto d'accusa, ma contro la guerra e la sopraffazione, il calcolo e l'interesse e, soprattutto, ha l'urticante pregio di mettere in evidenza le contraddizioni e le oscillazioni della coscienza di un popolo. Ed è proprio questa linea continua di affermazioni di princìpi e immediati capovolgimenti, di certezze sobillate dal dubbio, di scelte estreme che subito affiorano nella consapevolezza dell'errore che mi sembra il tratto essenziale di questo testo.
Ho dunque immaginato sette donne, tutte madri e figlie, tutte allo stesso tempo mittenti e destinatarie dei brevi monologhi che si sfilano come nella collana di un retaggio che si sfalda e riafferma continuamente, a qualunque costo.
F.R.

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Assistente alla regia:
Annalisa Paolucci

Si ringraziano:
Regina Franceschini Mutini
Associazione La Saletta

venerdì 11 settembre 2009

11 Settembre 1973


Salvador Allende

11 SETTEMBRE 1973

DOCUMENTI RADIOFONICI

Ultimo discorso del presidente Salvador Allende


7:55 a.m. RADIO CORPORACIÒN

Parla il Presidente della Repubblica dal Palazzo de La Moneda. Informazioni confermate segnalano che un settore della Marina avrebbe isolato Valparaìso e che la città sarebbe occupata, il che significa un sollevamento contro il Governo, il Governo legittimamente costituito, il Governo che è protetto dalla legge e dalla volontà del cittadino.

In queste circostanze, chiamo tutti i lavoratori. Che occupino i loro posti di lavoro, che accorrano alle loro fabbriche, che mantengano calma e serenità. Fino a questo momento a Santiago non c’è stato alcun movimento fuori dell’ordinario da parte delle truppe e, secondo quanto mi ha informato il capo della Guarnigione, Santiago starebbe aqquartierata e normale.

In ogni caso io sto qui, nel Palazzo del Governo, e resterò qui, difendendo il Governo che rappresento per volontà del popolo.

Ciò che desidero, essenzialmente, è che i lavoratori stiano attenti, vigili e che evitino le provocazioni. Come prima cosa dobbiamo vedere quale sarà la risposta, che spero positiva, dei soldati della Patria, che hanno giurato di difendere il regime stabilito, espressione della volontà dei cittadini, e che assolveranno la dottrina che rese prestigio al Cile e che trae questo prestigio dalla professionalità delle Forze Armate. In queste circostanze, ho la certezza che i soldati sapranno compiere i loro obblighi. Ad ogni modo, il popolo ed i lavoratori, fondamentalmente, devono mobilitarsi attivamente, ma nei loro posti di lavoro, ascoltando la chiamata e le istruzioni che potrà fare e dargli il compagno Presidente della Repubblica.

8:15 a.m.
Lavoratori del Cile:
vi parla il presidente della Repubblica. Le notizie che abbiamo fino a questo momento, ci rivelano l’esistenza di una insurrezione della Marina nella Provincia di Valparaìso. Ho ordinato che le truppe dell’esercito si dirigano a Valparaìso per soffocare questo tentativo di golpista. Dovete aspettare le istruzioni che emanerà la Presidenza. Abbiate la sicurezza che il Presidente resterà nel Palazzo de La Moneda difendendo il Governo dei Lavoratori. Abbiate la certezza che farò rispettare la volontà del popolo che mi ha dato l’incarico di governare fino al 4 Novembre 1976.

Rimanete attenti nei vostri luoghi di lavoro aspettando le mie informazioni. Le forze leali rispettando il giuramento fatto alle autorità, insieme ai lavoratori organizzati, schiacceranno il golpe fascista che minaccia la Patria.

8:45 a.m.

Ai compagni che mi ascoltano:

La situazione è critica, siamo di fronte ad un colpo di Stato, al quale partecipa la maggioranza delle Forze Armate. In quest’ora oscura voglio ricordarvi alcune mie parole dette nel 1971, ve le dico con assoluta tranquillità, non ho stoffa di apostolo né di messia. Non ho propensione al martirio, sono un lottatore sociale che compie un incarico che il popolo mi ha dato. Ma, lo intendano coloro che vogliono far indietreggiare la storia e disconoscere la volontà maggioritaria del Cile; Senza avere vocazione di martire, non farò un passo indietro. Che lo sappiano, che lo sentano, che se lo registrino profondamente: lascerò La Moneda quando avrò compiuto il mandato che il popolo mi ha dato, difenderò questa rivoluzione cilena e difenderò il Governo perché questo è il mandato che il popolo mi ha consegnato. Non ho altra alternativa. Solo crivellandomi di colpi potranno impedire la volontà di compiere il programma del popolo. Se mi assassinerete, il popolo seguirà la sua rotta, continuerà il suo cammino, con la differenza forse che le cose saranno più dure, molto più violente, perché sarà una lezione obiettiva molto chiara per la massa di questa gente che non si ferma di fronte a niente.

Tenevo in conto questa possibilità, non la offro né la facilito.

Il processo sociale non sparirà perché è sparito un dirigente. Potrà rallentarsi, potrà prolungarsi, ma alla fine non potrà essere fermato.

Compagni, rimanete attenti alle informazioni nei vostri posti di lavoro, il compagno Presidente non abbandonerà il suo popolo ed il suo posto di lavoro. Rimarrò qui a La Moneda anche a costo della mia vita.

9:03 a.m. RADIO MAGALLANES

In questo momento passano gli aerei. È possibile che ci colpiscano. Ma sappiate che stiamo qui, per lo meno con il nostro esempio, dimostrando che in questo paese ci sono uomini che sanno compiere le obbligazioni che hanno preso. Io lo farò per il mandato del popolo e per mandato cosciente di un Presidente che ha la dignità dell’incarico affidatogli dal popolo in elezioni libere e democratiche.

In nome dei più sacri interessi del popolo, in nome della Patria vi chiamo per dirvi di avere fede. La storia non si ferma né con la repressione né con il crimine. questa è una tappa che sarà superata, questo è un momento duro e difficile. È possibile che ci schiaccino, però il domani sarà del popolo, sarà dei lavoratori. L’umanità avanza per la conquista di una vita migliore.

... Pagherò con la mia vita la difesa dei principi che sono cari a questa patria, l’insulto cadrà sopra quelli che hanno tradito i loro impegni, mancando alla loro parola, rompendo la dottrina delle Forze Armate.

Il popolo deve stare all’erta e vigile. Non deve lasciarsi provocare, né lasciarsi massacrare, ma deve anche difendere le sue conquiste. Deve difendere il diritto a costruire con i suoi sforzi una vita degna e migliore.

9:10 a.m.

Una parola per coloro che dichiarandosi democratici hanno istigato questa sollevazione, per quelli che dicendosi rappresentanti del popolo, hanno torbidamente e turpemente recitato per rendere possibile questo passo che porta il Cile alla rovina.



Compatrioti, è possibile che zittiscano le radio, e mi congedo da voi. In questo momento passano gli aerei. È possibile che ci crivellino. Ma sappiate che stiamo qui, per segnalare, per lo meno con questo esempio, che in questo paese ci sono uomini che sanno mantenere le obbligazioni che hanno assunto.
Io lo farò per il mandato del popolo e per la volontà cosciente di un presidente che possiede la dignità del suo incarico...

Forse questa è l’ultima opportunità che ho di potermi rivolgere a voi. L’Aviazione ha bombardato le torri di Radio Portales e Radio Corporaciòn. Le mie parole non hanno amarezza ma delusione, e saranno loro il castigo morale per quelli che hanno tradito il giuramento che fecero: soldati del Cile, comandanti in capo titolari, l’ammiraglio Merino che si è auto nominato comandate della Armada, più il signor Mendoza, generale vile che soltanto ieri manifestava la sua lealtà e solidarietà al governo, ed anche lui si è auto nominato anche comandante generale dei Carabinieri. Non rinuncerò!

Davanti a questi fatti solo questo mi resta da dire ai lavoratori: Io non mi arrenderò. Collocato in un transito storico, pagherò con la mia vita la lealtà al popolo. E vi dico che ho la certezza che il seme che abbiamo innestato nella coscienza degna di migliaia e migliaia di cileni non potrà essere dispersa definitivamente. Hanno la forza, potranno sottometterci, ma non si possono trattenere i processi sociali né con il crimine, né con la forza. La storia è nostra e la fanno i popoli.

Lavoratori della mia patria: voglio ringraziarvi per la lealtà che sempre avete avuto, la fiducia che avete posto in un uomo che fu solo interprete di grandi aneliti di giustizia, che impegnò la sua parola di rispettare la costituzione e la legge, e così fece. In questo momento definitivo, l’ultimo in cui posso rivolgermi a voi. Spero che impariate dalla lezione. Il capitale straniero, l’imperialismo, unito alla reazione, ha creato il clima perché le Forze Armate rompessero con la loro tradizione (...)

Mi rivolgo soprattutto alla donna modesta della nostra terra: alla contadina che credette in noi, all’operaia che lavorò di più, alla madre che conobbe la preoccupazione per i figli. Mi rivolgo ai professionisti, patrioti, a coloro che da giorni stanno lavorando contro la sedizione appoggiata dai collegi professionali, collegi di classe creati anche per difendere i vantaggi di una società capitalista.

Mi rivolgo alla gioventù, a coloro che cantarono e donarono la loro allegria ed il loro spirito di lotta; mi rivolgo all’uomo del Cile, all’operaio, al contadino, all’intellettuale, a coloro che saranno perseguitati, perché nel nostro paese il fascismo già da molte ore è presente con molti attentati terroristi, facendo saltare ponti, tranciando linee ferroviarie, distruggendo oleodotti e gasdotti, di fronte al silenzio di chi aveva l’obbligo di intervenire.

Si sono compromessi. La storia li giudicherà.

Sicuramente Radio Magallanes, sarà oscurata ed il metallo tranquillo della mia voce non giungerà a voi. Non importa mi sentirete comunque. Sempre sarò con voi, per lo meno il mio ricordo sarà quello di un uomo degno che fu leale alla patria. Il popolo deve difendersi, ma non sacrificarsi. Il popolo non deve lasciarsi colpire e crivellare, ma nemmeno può umiliarsi.

Lavoratori della mia patria: ho fede nel Cile e nel suo destino. Altri uomini supereranno questo momento grigio ed amaro, nel quale il tradimento pretende d’imporsi. Proseguite voi, sapendo che, non tardi ma molto presto, si apriranno i grandi viali alberati dai quali passerà l’uomo libero, per costruire una società migliore.

Viva il Cile, viva il popolo, viva i lavoratori!

...ste sono le mie ultime parole, ho la certezza che il sacrificio non sarà vano. Ho la certezza che, almeno, ci sarà una sanzione morale per punire la fellonìa, la codardia ed il tradimento.



Ultimo discorso del presidente Salvador Allende al popolo, trasmesso l’11 settembre 1973. Fonte principale: Salvador Allende, Discorsi, Editorial de Ciencias Sociales, La Habana, 1975.

Traduzione di Francesco Randazzo

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