Oltre al sonno e alla concentrazione ci sono anche altre cose che non sono state dette a nessuno.
Giornate intere che scompaiono, e brevi attimi che diventano un’eternità.

(Peter Høeg)

sabato 5 dicembre 2009

Gualberto Alvino. Parodiando

7. SANDRO VERONESI

— Sai una cosa stellina? — le chiedo osservando la frattale complessità del suo viso ovale e regolare.
— Cosa? — chiede lei mentre frotte di turisti giapponesi carichi di macchine fotografiche di ultima generazione accapano sotto gli archi con gran rumori: boing, sclomp, stu-tun, bumbumbum.
— Hanno appena rifatto il manto stradale e già c’è un’infinità di buche. Se non stiamo attenti ci rompiamo una gamba, se non peggio — dico io con atteggiamento particolarmente preoccupato.
— Solo una gamba dici? Qui si rischia di brutto, te lo dico io! — fa lei togliendosi un sassolino dalla scarpa, non solo metaforicamente.
— Sono d’accordo — rispondo facendomi largo tra i turisti giapponesi, uno dei quali ha un polso fasciato e ogni tanto se lo guarda come se fosse sorpreso o incuriosito; un altro, invece, sbircia di continuo l’orologio, come se avesse un appuntamento importantissimo al quale non può mancare. Noto che ha i tacchi alti ed è molto basso di statura: forse ha i tacchi alti proprio per compensare la bassa statura, mi sorprendo a pensare. Ma senza darlo a vedere, perché lei si infuria se si accorge che mi metto a pensare cose cazzutissime come questa. Le chiama contorsioni mentali, e forse ha ragione.
— Meno male — fa lei con gli occhi rimbombanti di dolcezza e di austerità al tempo stesso — che una volta, almeno una volta ti dichiari d’accordo con me. Cos’è, è morto il papa? È la prima volta, la prima volta in assoluto che ti sento dire che sei d’accordo con qualcosa che dico o penso. Dimmi la verità, lo dici solo per farmi contenta, non è così? Non ti conoscessi…
— Come sei abbronzata! L’abbronzatura ti dona moltissimo. Sei bellissima. Sbaglio o hai messo l’abbronzante che t’ho regalato io a Pasqua? Posso offrirti un caffè? — dico io come se niente fosse, con un sorriso incistato di nonchalance, facendo cadere il discorso da lei intrapreso, perché so che è molto pericoloso. Ormai la conosco come le mie tasche, e certi suoi discorsi so benissimo che tasso di pericolosità hanno e dove portano.
— Sì, ho messo il tuo abbronzante, è buonissimo sai? Dici un caffè? — fa lei abbastanza stralunata, mettendosi a riflettere molto a lungo, mentre il raglio di un clacson mi scuote da capo a piedi. Quando riflette sembra miope. È questo che mi è sempre piaciuto di lei, fin da subito.
— Non fare complimenti d’accordo? Ma se hai da fare non fa niente — dico.
— No non ho niente da fare. È che detesto il caffè. Magari un tè mi andrebbe di più — dichiara sinceramente lei. E questa sincerità la apprezzo molto.
— Va bene andiamo, c’è un bar proprio dall’altra parte della piazza — e glielo indico con il mento, zac, ma mi esce fuori un movimento goffo, simile a un tic, e una fitta di autocommiserazione mi trapassa dolorosamente il viso. Dovrò stare attento a quello che dico e soprattutto a come lo dico, altrimenti il tè con lei posso scordarmelo. Mi schiarisco la voce, tanto per fare qualcosa.
— Sì andiamo — dice lei ignorando il mio movimento. Non mi si fila nemmeno un po’, ma poi mi prende sottobraccio con un’allegria che mi sconcerta. Mi chiedo cos’abbia in mente.
— Sai mi sono sempre chiesta come fanno a trasformare la polvere in liquido. Sono cose così diverse tra di loro. Per me è e rimane un mistero indecifrabile — dice poi riflessiva e lievemente agitata, come ogni volta che tocca argomenti seri e scottanti.
— In effetti è una faccenda molto complicata. Tempo fa, quando facevo il consulente finanziario a Manhattan, un barman pakistano mi disse che fanno pressappoco così: mettono un po’ d’acqua a bollire, poi ci infilano dentro una bustina di tè, l’acqua penetra nella bustina, scioglie il tè e il tè è pronto. Però t’avverto che non so se crederci completamente: quel pakistano non era molto affidabile, anzi non lo era affatto, né come persona né tanto meno come barman.
— Straordinario! Chi l’avrebbe mai detto? Certo che la chimica è una cosa fantastica al giorno d’oggi!
— Fantastica? Diciamo pure meravigliosa — la correggo io stringendole forte un gomito e parte dell’avambraccio fino a farle male. Ma non tanto da farla gridare.
— Guarda, — le dico subito dopo — stanno arrivando altri giapponesi. È una vera e propria invasione. Sembrano pilotati da un’entità invisibile. Non sembra anche a te stellina?
— Sono d’accordissimo. Ho anch’io la tua stessa medesima sensazione — risponde lei incollandomi gli occhi addosso mentre una giapponese si soffia il naso minuscolo, talmente minuscolo che pare invisibile. Mi domando tra me cosa ci sia da soffiare e inoltre come faccia a produrre quel rombo assordante che fa voltare tutti i passanti.
— Ecco il bar. Entriamo? O hai cambiato idea? Se vuoi ci sediamo su una panchina a chiacchierare del più e del meno — dico poi distrattamente.
— Perché? — fa lei allarmata.
— Non lo so. Lo dico per te. Mi è sembrato che l’entusiasmo per il tè ti fosse improvvisamente passato — rispondo laconico sperando intensamente che lei insista per il tè.
— Oh no, grazie della premura ma un tè lo berrei molto volentieri. Magari prenderei anche un pasticcino piuttosto che un maritozzo con panna, ho qualcosa qui nello stomaco che… — dice mettendosi una mano sullo stomaco e massaggiandoselo con dei rapidi movimenti circolari. Noto che ha un’unghia senza smalto, cosa straordinaria per una persona attenta e precisa come lei. Che cosa le starà succedendo?
— D’altra parte, come potrebbe essere altrimenti? Ieri sera ti sei rimpinzata di nespole e rum della peggiore qualità. C’era da aspettarselo! — sentenzio io con tono cupo e paterno, sentendo montare uno strano magone che quasi mi soffoca.
— Sai cosa stavo pensando? — chiede lei all’improvviso, e il magone mi si scioglie come neve al sole. Respiro.
— Cosa? — dico io.
— Secondo me quel pakistano t’ha detto una cazzata. Deve esserci qualcosa di più complicato e misterioso che non ha voluto, o non ha potuto dirti! — conclude calcando molto la voce su o non ha potuto e contemporaneamente sbarrando gli occhi, come se avesse di fronte un morto vivente o comunque qualcosa di terribilmente spaventoso.
— Lo credo anch’io — rispondo guardando un vecchio giapponese che s’infila il dito mignolo in un orecchio e comincia a rotearlo furiosamente mostrando il bianco degli occhi per l’intensissimo piacere che prova. Sarà pieno zeppo di cerume, penso. Magari finora è stato sordo e all’improvviso comincia a sentirci. Un autentico miracolo. Ma bando ai pensieri cazzuti.
— E se invece del tè prendessimo una birretta chiara? — propone lei entusiasta.
— Perché no? — azzardo io. Sono sempre stato affascinato dal suo spirito d’avventura, fin dal primo momento che l’ho vista. Ricordo che la prima volta la invitai a un cinema e lei propose invece un’amatriciana all’aglio calabrese nella trattoriola sotto casa sua. Per me fu un momento magico. Quasi una rivelazione.
— Che poi anche qui c’è un mistero che non mi quadra mica sai? — dice seria di colpo.
— Tipo?
— Tipo che anche fare la birra deve essere una faccenda molto molto complicata. Mi sono sempre chiesta com’è possibile che…
— Complicatissima — la interrompo io con cautela, per non indispettirla. — Pare che venga dall’orzo, ma non posso dire di esserne sicuro al mille per mille, te lo dico subito.
— Cos’è, mi prendi in giro? Eh? Ti prendi gioco di me? Io l’orzo lo bevevo col latte da piccola ogni mattina prima di scuola in quantità industriali e non mi sono mai ubriacata, mai. Invece se prendo un goccio di birra, un solo goccio, comincio a dare i numeri e ci metto tre giorni a rimettermi in sesto. Tu ne sai qualcosa — esclama lei con tono inarrivabilmente perentorio squadrandomi dalla cima dei capelli alla punta dei piedi col suo solito sguardo indagatore. Di cui ormai non riesco a fare a meno.
— Infatti, sembra impossibile anche a me stellina. È un mistero. Un vero mistero — dico io mentre un altro gruppo di giapponesi cala sinistramente dalla china.

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