Oltre al sonno e alla concentrazione ci sono anche altre cose che non sono state dette a nessuno.
Giornate intere che scompaiono, e brevi attimi che diventano un’eternità.

(Peter Høeg)

sabato 2 febbraio 2008





NOI MORIAMO A STALINGRADO

Tra il novembre del 1942 e febbraio del 1943, si è consumata una delle più atroci tragedie umane e militari del XX secolo : la battaglia di Stalingrado.
Inserita nell’ambito dell’invasione nazista in Unione Sovietica, questo evento ha segnato la sorte dolorosa di centinaia di migliaia di soldati tedeschi, molti italiani, rumeni, senza contare tutti i sovietici caduti sul campo.
Noi moriamo a Stalingrado, il libro di Alfio Caruso pubblicato da Longanesi, racconta l’odissea di circa un centinaio di soldati italiani, rimasti imprigionati nella sacca di Stalingrado che fu il risultato dell’« Operazione Urano », la mossa decisiva dell’esercito sovietico per sconfiggere definitivamente l’esercito invasore dell’alleanza nazista.
Partiti al seguito del generale Gariboldi in quel contesto di mattatoio provocato dalla megalomania e dalla cecità mussoliniana, giovani italiani dalle origini più diverse e provenienti dalle situazioni più disparate, si ritrovarono prigionieri di una sacca dal diametro di centinaia di chilometri, creata dalle forze sovietiche grazie allo sfondamento del fronte nazista dalla parte dell’esercito rumeno, il più debole.
Nonostante i tentativi dei generali tedeschi, irremovibile fu l’atteggiamento di Adolf Hitler il quale volle quel tragico epilogo perché in Germania fosse giustificato come il grande sacrificio dei soldati tedeschi alla causa del nazionalsocialismo. A questo si aggiunge l’atteggiamento del generale Von Paulus, simbolo di una casta, di una generazione, di un'epoca, che si rifiuta di capire l'eccezionalità del momento e si rifugia nell'accettazione degli ordini, perchè così presuppongono la sua educazione personale e l'addestramento militare.
Così dopo la chiusura della sacca, arrivarono i bombardamenti dei Katiuscia, la grande resa e la prigionia senza ritorno all’interno dei gulag sovietici.
Il libro di Alfio Caruso racconta con grande umanità le testimonianze preziosamente raccolte dalle lettere inviate dai soldati italiani, spesso rinvenute presso le famiglie di provenienza. Da questi documenti emerge uno spaccato di vita su cui la tragedia della morte si abbatte con inaudita ferocia. Ogni lettera contenuta in Noi moriamo a Stalingrado è un fiore nel deserto di calcoli politici insensati e di ideali violenti che purtroppo ancora minacciano il futuro degli esseri umani.
Ancora più straziante è l’inutile attesa che, dalla fine della guerra, ha visto famiglie intere percorrere l’Italia in lungo e largo alla ricerca di notizie, compiere viaggi a Volgograd (è questo il nome odierno di Stalingrado), condurre un’esistenza di ininterrotta attesa, nella speranza di veder cancellata dal nome dei loro cari la terribile quanto beffarda parola “disperso”. Già, perchè della sorte di questi uomini, non ne sapeva nulla il regio esercito, le associazioni dei reduci e, ovviamente, l'esercito russo. A testimonianza di questo sacrificio non esitono inoltre cimiteri, lapidi o cippi : nulla di nulla.
L’esigenza di raccontare una simila tragedia provocata dalla cecità di folli megalomani, è dettata dai numeri:
1 milione dei morti, durante i combattimenti, da ambo le parti
320.000 soldati dell'Asse accerchiati dall'Armata Rossa, nella sacca di Stalingrado
90.000 prigionieri; di questi 80.000 morirono nei primi mesi
6.000 soldati tedeschi tornarono a casa.
Il libro di Alfio Caruso cerca di colmare un vuoto, la sorte di 77 italiani nascosta agli occhi del mondo, che nel corso della nostra storia non può e non deve avere alcuna giustificazione.

Cristiano Felice

Nessun commento:

Posta un commento