Oltre al sonno e alla concentrazione ci sono anche altre cose che non sono state dette a nessuno.
Giornate intere che scompaiono, e brevi attimi che diventano un’eternità.

(Peter Høeg)

mercoledì 16 maggio 2018

UN SAGGIO DI CARLO CENCIARELLI



Sulla realtà e l’ambiguità della voce umana.

La muta di Tommaso Landolfi



Tommaso Landolfi


Secondo alcuni, il valore d’un’opera consiste anche nella persistenza o addirittura nella maturazione del testo all’interno della coscienza di chi l’ha letto. C’è del vero. Aggiungerei però un’altra sfumatura che è insieme una specifica. L’opera davvero di valore, in realtà, non smette mai di agire sul suo lettore: e cioè d’influenzare radicalmente la sua sensibilità, il suo pensiero, il suo modo d’affrontare le cose di questo mondo. Ho conosciuto La Muta di Tommaso Landolfi nell’84 e da allora non ha mai cessato il suo lavorio su di me. Spesso, devo proprio confessarlo, lasciandomi dentro una sensazione di malessere. Le righe che seguono non sono altro che il tentativo di spiegare in pubblico tale persistenza e tale sensazione di malessere.

L’episodio su cui si basa la novella può essere riassunto davvero in poche parole. Un uomo, ossessionato da una quindicenne bellissima epperò muta, riesce ad avvicinarla e quindi a convincerla a recarsi a casa sua nel cuore della notte. I loro convegni sono bizzarri, in qualche modo deliranti, e tuttavia rimangono sempre casti. Durante uno di tali convegni l’uomo la uccide straziandole tutto il corpo con una lametta da barba usata.

Il primo problema espressivo davanti al quale si è trovato Landolfi è stato quello di far entrare il lettore in uno spazio psichico totalmente assorbito da pensieri ossessivi e che quindi tende ad abolire tout court il reale che gli si para davanti. Cosicché, quelle descrizioni insistite e verisimili di fatti e luoghi, su cui tanto spesso i narratori indugiano, in questo caso risulterebbero del tutto incongrue. Il rischio, allora, è che venga fuori qualcosa di astratto o d’informe, che ci si abbandoni a una scrittura divagante e inconcludente. Per fortuna, Landolfi conosce ottimi maestri:

Questo è vero, sono un uomo nervoso, spaventosamente nervoso, e lo sono sempre stato; ma perché pretendete che sono pazzo? La malattia mi ha reso i sensi più acuti […]. E già avevo l’udito finissimo, e tutto ho sentito del cielo e della terra. Anche dell’inferno ho sentito parecchio. Com’è dunque che sarei pazzo? State attenti e osservate con quanto senno, con quale calma sono capace di raccontarvi tutta la storia.[1]
Sono un malato… Sono un malvagio. Sono un uomo odioso. Credo d’aver male al fegato. […] Non mi curo e non mi sono mai curato, sebbene tenga in gran conto la medicina e i medici. Inoltre sono estremamente superstizioso, comunque abbastanza superstizioso da tenere in gran conto la medicina. (Son colto quanto occorre per non esser superstizioso, ma lo sono). No, non voglio curarmi per malvagità. Ecco una cosa che certo voi non vi degnerete di capire. Be’, ma io la capisco. S’intende che non vi so spiegare a chi appunto faccia dispetto in questo caso colla mia malvagità; so perfettamente che non faccio un torto ai medici col non andarmi a curare da loro, so meglio di chiunque che in questo modo faccio male soltanto a me stesso e a nessun altro. Tuttavia, se non mi curo è ugualmente per malvagità. Ho male al fegato, ci ho gusto, possa venirmi male ancora di più.[2]
Ma se non vengono, verranno, questo è certo, ineluttabile. Diamine, ma lo è per tutti, non solo per me. Senza dubbio, eppure per gli altri è diverso. Perché diverso? qui è il punto da chiarire, non per oziosa curiosità intellettuale (che me ne importa del problema in sé e del sentimento degli altri?) ma per adeguarsi se mai agli altri. Ah, vediamo di capirci qualcosa; è necessario, è urgente che io trovi il modo di morire. Ricominciamo da capo. Dunque io ho ragionato così: che cosa è che distingue l’attesa (della morte) di un uomo qualunque da quella di un condannato a morte quale io sono?[3]

Un artificio princeps[4] accomuna radicalmente questi tre brani di Poe, Dostoevskij e Landolfi. Il narratore, che parla in prima persona, cancella il mondo esterno, riduce gli altri a una presenza vaga e tuttavia profondamente ostile, e lascia che lo spazio del racconto sia quasi interamente occupato dal discorso che il protagonista tiene su sé medesimo. Discorso che si vorrebbe tranquillo e raziocinante ma che, invece, irresistibilmente, scivola verso il concitato e il febbrile, riempiendosi di esclamazioni, interrogativi, incisi. Dando vita a un dettato prosastico che è anche alternarsi di toni sonori e che quindi tende a farsi voce. Con tutto il portato di concretezza irrefutabile che la voce umana porta con sé.

Un cieco non ha immagini di quanto lo circonda; può soltanto toccare o udire. Chiaramente con una precisione negata a chi vede perché in lui tatto e udito devono conoscere senza l’aiuto degli occhi. Talvolta poi le convenienze sociali fanno sì che anche un cieco non possa neppure sfiorare certe persone con cui però ha dei rapporti. Queste persone, allora, cosa sono per lui? Delle voci, soprattutto. Il che le renderà sicuramente più vaghe ma forse meno reali di quel che sono le persone medesime per chi può anche vederle? Nient’affatto! Per un cieco quella persona è assolutamente concretamente ruvidamente reale non appena egli ode la particolarissima voce sua. È uno di quei casi in cui tutta una realtà passa attraverso una voce.

Lo stesso avviene nel racconto di Landolfi: siamo completamente ciechi riguardo al mondo che attornia il suo protagonista ma di lui sentiamo con terribile chiarezza la voce e questo lo rende prepotentemente reale fin da subito. È inutile il suo tentativo di rifugiarsi in un soggettivismo estremo, ai limiti del solipsismo o della follia. La sua voce lo tradisce: anche lui è schiavo della realtà come tutti gli altri.

A livello squisitamente psicologico e umano del personaggio che parla sapremo pochissimo. Che c’è in lui qualcosa del reietto dostoevskiano e del superuomo dannunziano strettamente fusi insieme. Praticamente nient’altro. Torniamo allora alla sua voce provando a caratterizzarla meglio. Questo dettato prosastico tende a farsi voce ma non s’identifica con essa, né in essa si esaurisce. È qualcosa di radicalmente diverso dalla battuta teatrale alla quale l’eloquio di chi recita può conferire sfumature o coloriture decisive. È linguaggio perfettamente autonomo e impeccabilmente calibrato, non suscettibile di qualsivoglia arricchimento ulteriore. D’accordo. Ma di che tipo di linguaggio stiamo parlando? D’un linguaggio antirealistico, antimoderno, vagamente aristocratico, sommamente inattuale:

Era muta. E io, che mi ero avvezzato a considerarla, a vederla compiuta come la Donzella, che cosa dovevo fare di questa sua insospettata menomazione? Ma era essa in primo luogo una menomazione? Invero i miei affetti non avevano altra via che stimarla una nuova perfezione; voglio dire che questa era la loro via naturale, sebbene non esente da pericoli e da agguati. Se una perfezione per eccesso è genericamente oppressiva, una per difetto, mio Dio, è di sua natura angosciosa, intollerabile… Non serve spiegarsi meglio o anticipare: nel seguito si vedrà, o non si vedrà e fa lo stesso, quale parte fatale poté avere quella mutezza nella nostra sorte.[5]

Evidentemente D’Annunzio c’è. Eccome! Siamo però in un dannunzianesimo come rasciugato nel profondo, in un modo tutto suo lucidissimo. Che magari accoglie il delirio ma rifiuta le false magnificenze:

Se fin dal principio m’era stato chiaro che ella doveva essere mia, ora ben vedevo che non poteva essere mia. La forma che mi stava innanzi palpitante della sua anima era un oceano senza fondo, un deserto incolmabile, improbabile, abbagliante su cui non v’era speranza di posa, di cui non v’era speranza di possesso. Che cosa avrei dovuto fare, penetrare colla mia carne infetta quelle membra eterne come la luce, feconde come la polvere degli astri, inesauribili come la fonte nascosta della vita? A che poteva giovarmi un tal sordido ripiego? Non era questo che io volevo, non era con questo che l’avrei avuta.[6]

Il solo altro personaggio che compare nel racconto – deuteragonista imprescindibile – è la fanciulla dalla bellezza conturbante. Nel costruire il suo personaggio Landolfi ha trovato un equilibrio raro fra i particolari realistici che in lei abbondano (anche una vivacissima curiosità tutta adolescenziale per le cose del sesso e gli uomini grandi) e il motivo letterario – che più squisitamente romantico non si può – della bellezza deturpata che, nondimeno, giunge al suo compimento più profondo proprio grazie a tale deturpazione incancellabile. Ed è mediante questo tratteggio della ragazza che entriamo nel cuore della novella. Dobbiamo sentirne tutta la concretissima sensualità e insieme rimanere torbidamente scossi dalla sua mutilazione. Infatti vediamo con grande chiarezza un possibile sviluppo del racconto, anzi il suo sviluppo più logico e naturale. L’uomo non si lascia sfuggire la ghiotta occasione e si gode l'adolescente appena sbocciata una, due, tre… tante volte. Ma qui è il punto. Gli amplessi non possono essere infiniti. E tutto è possibile ma è nondimeno assai probabile che una relazione del genere non duri a lungo. Presto la ragazza crescerà e crescendo muterà gusti e umori, pretenderà altri uomini con cui intrattenere rapporti diversi. Alla fine, magari, si sposerà con un coetaneo; avrà dei figli, ingrasserà. Ci mancherebbe solo che per qualche diavoleria della medicina moderna riacquistasse la parola e il disastro sarebbe completo. Passare da miracolo mostruoso della natura a normalissima donna come ce n’è in eccesso! Che destino triste! Ma è davvero un triste destino o invece il puro e semplice trascorrere e mutare delle umane cose, quel divenire che, forse, è l’essenza stessa della realtà? Il fatto è che il nostro eroe è tale proprio perché alla realtà si ribella. Proprio perché non ha nessuna intenzione di accettare che: «[…] tutto al mondo passa, E quasi orma non lascia».[7]

Quindi, un’ispirazione irresistibile: «Una potenza celeste amica m’aveva dato cenno che c’era, che poteva darsi un modo per fare mia compiutamente ed eternamente quella bambina».[8] Legarsi per sempre, con trasporto imperituro, a quella fanciulla, come, in genere, a qualsiasi altra persona umana, finché ella continua a vivere ed è quindi schiava di cangiamenti incessanti, è del tutto impossibile. È possibile, invece, legarsi per l’eternità alla sua essenza spirituale più profonda. Il modo c’è, anche se atroce. Per chi non sia omicida abituale, anzi, magari uccida solo una volta in vita sua, lo strazio che prova nel cancellare definitivamente da questo mondo la viva presenza carnale dell’essere che ama più di ogni altro, fa sì che l'anima di tale essere penetri nelle zone più profonde e oscure di lui dove mai smetterà di persistere e vibrare.
E allora la sapiente tessitura stilistica landolfiana fatta d’un soggettivismo che vorrebbe prescindere dalla realtà, d'un linguaggio radicalmente inattuale, del sapiente mescolarsi di tratti realistici e tratti squisitamente letterari, riesce a rendere ancora una volta più che mai viva una delle intuizioni romantiche fondamentali: la realtà, per l’uomo, è insopportabile. Ed è tale intuizione che dà quel senso di malessere immedicabile di cui parlavo all’inizio.

Dunque il valore della novella sarebbe nel fascino che le inattuali intuizioni romantiche ancora esercitano su di noi? In buona parte. Ma non soltanto. Il suo nucleo poetico più profondo è più complesso. Mario Praz, con un'opera fondamentale, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, ha dimostrato a iosa quanto il sadismo sia presente in tale letteratura. Quasi mai esplicitamente, però. Nel linguaggio romantico, che privilegia l’espressione poetica, trionfano le ellissi, gli accenni, le allusioni, le sfumature, il non-detto… Anche Landolfi, riguardo allo scempio subito dal corpo della bambina, potrebbe comportarsi in questo modo. E invece no. Dopo una nuance necrofila abbastanza direttamente mutuata da Poe: «[…] fu percorsa, benché ignara, da un brivido non di freddo; chiuse gli occhi, si tirò addosso il lenzuolo fino al mento. La vidi già nel suo sudario, e ciò forse, indirettamente, affrettò la sua fine. Ma in ogni caso quel sudario era bianco, e non poteva, non doveva essere tale».[9] Il narratore su quello scempio si sofferma:

La incideva, la tagliava, la tagliò quella mia piccola lama, e decisamente, d’un colpo, recise anche le sue vene. Ella dette in un grido soffocato e gutturale […] e balzò convulsamente a sedere […]. In quella nera stanza vibrai colla mia fragile arma colpi furiosi. Cominciai dalla gola che trovai e abbrancai alla prima; e poi giù giù, sul cedevole seno, sul pallido ventre, sulle cosce ancora nervose, sulle braccia vanamente protese, sulle mani di perla, dappertutto. Ma una volontà superstite o una forza oscura torceva la mia mano dal suo viso; una sola volta essa incontrò l’umida lingua e non seppe rattenersi. Quel corpo idolatrato doveva esser divenuto una sola, acuta piaga. Ed ella, senza quasi difendersi, gridava, gridava alla sua maniera, gemeva; ma ben presto tacque, e mi rimase sul braccio assai più pesa che non fosse stata da viva. E allora, solo allora ebbi pace. […][10]

Qual è la ragione profonda di questa scelta?
La letteratura, che è il solo strumento che coglie concretamente l’essenza dell’umanità, è per questo destinata ad essere appresa e valutata non solo dagli specialisti o dagli appassionati ma anche, talvolta, dalla gente comune o magari da chi gente comune non è, e tuttavia, di solito, si preoccupa di cose diverse che ritiene ben più importanti. Quasi sempre costoro, riguardo alla scrittura, dicono delle grandi stupidaggini. Nondimeno, in una sciocchezza ci può essere una parte di verità o almeno una piccola intuizione che può essere utilizzata anche da un lettore più consapevole. Mettiamo il nostro racconto sia letto da una femminista bigotta, una cioè che, non comprendendolo a fondo, consideri il femminismo una variante di quell’eticismo oggi così diffuso da pretendere di sostituire anche il marxismo. Probabilmente non si tratterrebbe: «Questo farneticare, folle e sovreccitato, non è altro che la giustificazione di sé medesimo compiuta da un disgustoso pedofilo sadico!» Un’affermazione del genere è stupida ma, insieme, preziosa. Stupida perché confonde etica e arte che intrattengono un rapporto radicalmente diverso colla realtà: la prima vuol raddrizzarla; la seconda non può che rappresentarla così com’è. Ma anche preziosa perché ci fa toccare con mano l’effetto dell’insistenza di Landolfi sullo strazio di quelle carni adolescenziali. Che è quello di aprire una diversa prospettiva di lettura e d’interpretazione della novella. Importa solo fino a un certo punto che tale prospettiva sia particolarmente acuta o particolarmente ottusa. Ciò che conta è il moltiplicarsi delle interpretazioni. Perché questo moltiplicarsi collima perfettamente col ruolo primario che ha la voce in questa scrittura. Chi parli ossessivamente soltanto di sé stesso potrà mai essere sincero? Si crea quindi un sottotesto di radicale ambiguità terribilmente novecentesco, prepotentemente moderno. Ed è proprio in questo intrecciarsi e impeccabilmente fondersi di fascinosa inattualità romantica e inquietante ambiguità moderna il nucleo poetico più intimo e potente di questo racconto, indubbiamente tra i più belli almeno del secondo Novecento italiano.

Non mi sembra di dover aggiungere altro. Voglio concludere però colla più schietta vena romantica di Landolfi: «Infine accesi: ecco, ora il suo sudario era tutto rosso. Bianco non m’era piaciuto; così, così appunto lo volevo. Ed ecco, intatta nel suo volto di notte e di stella, ora ella era mia eternamente».[11]


[1] Edgar Allan Poe, Il Cuore Rivelatore, in Opere Scelte, a cura di Giorgio Manganelli, Milano, Mondadori, 1971, p. 603.
[2] Fedor M. Dostoevskij, Ricordi dal sottosuolo, trad. di Tommaso Landolfi, Milano, Longanesi, 1971, pp. 3-4.
[3] Tommaso Landolfi, La muta, in Id., Racconti Italiani del Novecento, a cura di Enzo Siciliano, Milano, Mondadori, 1983, pp. 692-693.
[4] Va da sé che intendo qui come artificio il mezzo stilistico a disposizione dell’artifex.
[5] Tommaso Landolfi, La Muta cit., p. 702.
[6] Ivi, 711.
[7] Giacomo Leopardi, La sera del dì di festa, in Id., Canti, a cura di Mario Fubini, Torino, Loescher, 1976, p. 120, vv. 29-30.
[8] Tommaso Landolfi, La muta cit., p. 713.
[9] Ivi, p. 714.
[10] Ivi, p. 717.
[11] Ibidem.

7 commenti:

  1. Bel saggio. Credo che Landolfi sia uno dei massimi scrittori contemporanei. Sarei curiosa di sapere se il critico Cenciarelli lo considera un realista magico o un surrealista.
    Francesca Olla

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    1. Innanzitutto la ringrazio per l'apprezzamento.
      Preferisco chiamare Landolfi realista magico poiché l'aggettivo surrealista va usato con cautela: c'è sempre il pericolo di far confusione tra un certo atteggiamento espressivo che percorre tutto il Novecento e il movimento surrealista propriamente detto che pure ha in tale secolo infinite ramificazioni.
      Dovessi comunque definire Landolfi parlerei d'uno scrittore genialmente inattuale e istintivamente portato ad una reverìe di radicale ascendenza romantica.

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  2. E' vero: tutti ormai si sentono in diritto, grazie alla "democrazia del web, di dire "sciocchezze", come sostiene l'autore di questo articolo. Articolo interessante. Maria Laura

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    1. Innanzitutto la ringrazio per l'apprezzamento.
      Io comunque intendevo sottolineare il fenomeno per cui certe persone, magari colte, magari molto esperte nel loro campo (la psicanalisi, la politica), tendano a ignorare la peculiarità della letteratura e a giudicarla secondo l'ottica dettata dai loro interessi prevalenti.
      Donde le grandi stupidaggini di cui parlavo.
      Già negli anni '70, quando udivo qualcuno dire di un romanzo: " Dal punto di vista umano e artistico potrei anche apprezzarlo ma politicamente... " mi alzavo e me ne andavo.

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  3. Perché "sciocchezze"? La letteratura non appartiene a tutti?
    Enrico Berardi

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    1. Innanzi tutto la ringrazio per l'attenzione.
      Io credo esattamente come lei che la letteratura appartenga a tutti. Anzi aggiungo che è capitato certi film e certi libri siano stati scoperti prima dal pubblico e poi dalla critica.
      Se avrà la pazienza di leggere la mia risposta a Maria Laura qui sopra le sarà chiaro quali sono le persone che, secondo me, dicono le più grandi sciocchezze riguardo l'arte in genere.

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  4. Il mio professore di Lett. mod. e cont. diceva che Landolfi è un "informale con figure". Mi sembra una definizione calzante.
    Federico

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