Sulla realtà
e l’ambiguità della voce umana.
La muta di
Tommaso Landolfi
Tommaso Landolfi |
Secondo alcuni, il valore d’un’opera consiste anche nella
persistenza o addirittura nella maturazione del testo all’interno della
coscienza di chi l’ha letto. C’è del vero. Aggiungerei però un’altra sfumatura
che è insieme una specifica. L’opera davvero di valore, in realtà, non smette
mai di agire sul suo lettore: e cioè d’influenzare radicalmente la sua
sensibilità, il suo pensiero, il suo modo d’affrontare le cose di questo mondo.
Ho conosciuto La Muta di Tommaso Landolfi nell’84 e da allora non ha mai
cessato il suo lavorio su di me. Spesso, devo proprio confessarlo, lasciandomi
dentro una sensazione di malessere. Le righe che seguono non sono altro che il
tentativo di spiegare in pubblico tale persistenza e tale sensazione di
malessere.
L’episodio su cui si basa la novella può essere riassunto
davvero in poche parole. Un uomo, ossessionato da una quindicenne bellissima
epperò muta, riesce ad avvicinarla e quindi a convincerla a recarsi a casa sua
nel cuore della notte. I loro convegni sono bizzarri, in qualche modo
deliranti, e tuttavia rimangono sempre casti. Durante uno di tali convegni
l’uomo la uccide straziandole tutto il corpo con una lametta da barba usata.
Il primo problema espressivo davanti al quale si è trovato
Landolfi è stato quello di far entrare il lettore in uno spazio psichico
totalmente assorbito da pensieri ossessivi e che quindi tende ad abolire tout
court il reale che gli si para davanti. Cosicché, quelle descrizioni
insistite e verisimili di fatti e luoghi, su cui tanto spesso i narratori
indugiano, in questo caso risulterebbero del tutto incongrue. Il rischio,
allora, è che venga fuori qualcosa di astratto o d’informe, che ci si abbandoni
a una scrittura divagante e inconcludente. Per fortuna, Landolfi conosce ottimi
maestri:
Questo è vero, sono un uomo nervoso, spaventosamente nervoso, e lo sono sempre stato; ma perché pretendete che sono pazzo? La malattia mi ha reso i sensi più acuti […]. E già avevo l’udito finissimo, e tutto ho sentito del cielo e della terra. Anche dell’inferno ho sentito parecchio. Com’è dunque che sarei pazzo? State attenti e osservate con quanto senno, con quale calma sono capace di raccontarvi tutta la storia.[1]
Sono un malato… Sono un malvagio. Sono un uomo odioso. Credo d’aver male al fegato. […] Non mi curo e non mi sono mai curato, sebbene tenga in gran conto la medicina e i medici. Inoltre sono estremamente superstizioso, comunque abbastanza superstizioso da tenere in gran conto la medicina. (Son colto quanto occorre per non esser superstizioso, ma lo sono). No, non voglio curarmi per malvagità. Ecco una cosa che certo voi non vi degnerete di capire. Be’, ma io la capisco. S’intende che non vi so spiegare a chi appunto faccia dispetto in questo caso colla mia malvagità; so perfettamente che non faccio un torto ai medici col non andarmi a curare da loro, so meglio di chiunque che in questo modo faccio male soltanto a me stesso e a nessun altro. Tuttavia, se non mi curo è ugualmente per malvagità. Ho male al fegato, ci ho gusto, possa venirmi male ancora di più.[2]
Ma se non vengono, verranno, questo è certo, ineluttabile. Diamine, ma lo è per tutti, non solo per me. Senza dubbio, eppure per gli altri è diverso. Perché diverso? qui è il punto da chiarire, non per oziosa curiosità intellettuale (che me ne importa del problema in sé e del sentimento degli altri?) ma per adeguarsi se mai agli altri. Ah, vediamo di capirci qualcosa; è necessario, è urgente che io trovi il modo di morire. Ricominciamo da capo. Dunque io ho ragionato così: che cosa è che distingue l’attesa (della morte) di un uomo qualunque da quella di un condannato a morte quale io sono?[3]
Un artificio princeps[4]
accomuna radicalmente questi tre brani di Poe, Dostoevskij e Landolfi. Il
narratore, che parla in prima persona, cancella il mondo esterno, riduce gli
altri a una presenza vaga e tuttavia profondamente ostile, e lascia che lo
spazio del racconto sia quasi interamente occupato dal discorso che il
protagonista tiene su sé medesimo. Discorso che si vorrebbe tranquillo e
raziocinante ma che, invece, irresistibilmente, scivola verso il concitato e il
febbrile, riempiendosi di esclamazioni, interrogativi, incisi. Dando vita a un
dettato prosastico che è anche alternarsi di toni sonori e che quindi tende a
farsi voce. Con tutto il portato di concretezza irrefutabile che la voce umana
porta con sé.
Un cieco non ha immagini di quanto lo circonda; può soltanto
toccare o udire. Chiaramente con una precisione negata a chi vede perché in lui
tatto e udito devono conoscere senza l’aiuto degli occhi. Talvolta poi le
convenienze sociali fanno sì che anche un cieco non
possa neppure sfiorare certe persone con cui però ha dei rapporti. Queste
persone, allora, cosa sono per lui? Delle voci, soprattutto. Il che le renderà
sicuramente più vaghe ma forse meno reali di quel che sono le persone medesime
per chi può anche vederle? Nient’affatto! Per un cieco quella persona è
assolutamente concretamente ruvidamente reale non appena egli ode la
particolarissima voce sua. È uno di quei casi in cui tutta una realtà passa
attraverso una voce.
Lo stesso avviene nel racconto di Landolfi: siamo
completamente ciechi riguardo al mondo che attornia il suo protagonista ma di
lui sentiamo con terribile chiarezza la voce e questo lo rende prepotentemente
reale fin da subito. È inutile il suo tentativo di rifugiarsi in un soggettivismo
estremo, ai limiti del solipsismo o della follia. La sua voce lo tradisce:
anche lui è schiavo della realtà come tutti gli altri.
A livello squisitamente psicologico e umano del personaggio
che parla sapremo pochissimo. Che c’è in lui qualcosa del reietto dostoevskiano
e del superuomo dannunziano strettamente fusi insieme. Praticamente
nient’altro. Torniamo allora alla sua voce provando a caratterizzarla meglio.
Questo dettato prosastico tende a farsi voce ma non s’identifica con essa, né
in essa si esaurisce. È qualcosa di radicalmente diverso dalla battuta teatrale
alla quale l’eloquio di chi recita può conferire sfumature o coloriture
decisive. È linguaggio perfettamente autonomo e impeccabilmente calibrato, non
suscettibile di qualsivoglia arricchimento ulteriore. D’accordo. Ma di che tipo
di linguaggio stiamo parlando? D’un linguaggio antirealistico, antimoderno,
vagamente aristocratico, sommamente inattuale:
Era muta. E io, che mi ero avvezzato a considerarla, a vederla compiuta come la Donzella, che cosa dovevo fare di questa sua insospettata menomazione? Ma era essa in primo luogo una menomazione? Invero i miei affetti non avevano altra via che stimarla una nuova perfezione; voglio dire che questa era la loro via naturale, sebbene non esente da pericoli e da agguati. Se una perfezione per eccesso è genericamente oppressiva, una per difetto, mio Dio, è di sua natura angosciosa, intollerabile… Non serve spiegarsi meglio o anticipare: nel seguito si vedrà, o non si vedrà e fa lo stesso, quale parte fatale poté avere quella mutezza nella nostra sorte.[5]
Evidentemente D’Annunzio c’è. Eccome! Siamo però in un
dannunzianesimo come rasciugato nel profondo, in un modo tutto suo lucidissimo.
Che magari accoglie il delirio ma rifiuta le false magnificenze:
Se fin dal principio m’era stato chiaro che ella doveva essere mia, ora ben vedevo che non poteva essere mia. La forma che mi stava innanzi palpitante della sua anima era un oceano senza fondo, un deserto incolmabile, improbabile, abbagliante su cui non v’era speranza di posa, di cui non v’era speranza di possesso. Che cosa avrei dovuto fare, penetrare colla mia carne infetta quelle membra eterne come la luce, feconde come la polvere degli astri, inesauribili come la fonte nascosta della vita? A che poteva giovarmi un tal sordido ripiego? Non era questo che io volevo, non era con questo che l’avrei avuta.[6]
Il solo altro personaggio che compare nel racconto –
deuteragonista imprescindibile – è la fanciulla dalla bellezza conturbante. Nel
costruire il suo personaggio Landolfi ha trovato un equilibrio raro fra i
particolari realistici che in lei abbondano (anche una vivacissima curiosità
tutta adolescenziale per le cose del sesso e gli uomini grandi) e il motivo
letterario – che più squisitamente romantico non si può – della bellezza
deturpata che, nondimeno, giunge al suo compimento più profondo proprio grazie
a tale deturpazione incancellabile. Ed è mediante questo tratteggio della
ragazza che entriamo nel cuore della novella. Dobbiamo sentirne tutta la
concretissima sensualità e insieme rimanere torbidamente scossi dalla sua
mutilazione. Infatti vediamo con grande chiarezza un possibile sviluppo del
racconto, anzi il suo sviluppo più logico e naturale. L’uomo non si lascia
sfuggire la ghiotta occasione e si gode l'adolescente appena
sbocciata una, due, tre… tante volte. Ma qui è il punto. Gli amplessi non
possono essere infiniti. E tutto è possibile ma è nondimeno assai probabile che
una relazione del genere non duri a lungo. Presto la ragazza crescerà e
crescendo muterà gusti e umori, pretenderà altri uomini con cui intrattenere
rapporti diversi. Alla fine, magari, si sposerà con un coetaneo; avrà dei
figli, ingrasserà. Ci mancherebbe solo che per qualche diavoleria della
medicina moderna riacquistasse la parola e il disastro sarebbe completo.
Passare da miracolo mostruoso della natura a normalissima donna come ce n’è in
eccesso! Che destino triste! Ma è davvero un triste
destino o invece il puro e semplice trascorrere e mutare delle umane cose, quel
divenire che, forse, è l’essenza stessa della realtà? Il fatto è che il nostro
eroe è tale proprio perché alla realtà si ribella. Proprio perché non ha
nessuna intenzione di accettare che: «[…] tutto al mondo passa, E
quasi orma non lascia».[7]
Quindi, un’ispirazione irresistibile: «Una potenza celeste
amica m’aveva dato cenno che c’era, che poteva darsi un modo per fare mia
compiutamente ed eternamente quella bambina».[8]
Legarsi per sempre, con trasporto imperituro, a quella fanciulla, come, in
genere, a qualsiasi altra persona umana, finché ella continua a vivere ed è quindi
schiava di cangiamenti incessanti, è del tutto impossibile. È possibile,
invece, legarsi per l’eternità alla sua essenza spirituale più profonda. Il
modo c’è, anche se atroce. Per chi non sia omicida abituale, anzi, magari
uccida solo una volta in vita sua, lo strazio che prova nel cancellare
definitivamente da questo mondo la viva presenza carnale dell’essere che ama
più di ogni altro, fa sì che l'anima di tale essere penetri nelle zone più profonde e oscure di lui dove mai
smetterà di persistere e vibrare.
E allora la sapiente tessitura stilistica landolfiana fatta
d’un soggettivismo che vorrebbe prescindere dalla realtà, d'un linguaggio radicalmente inattuale, del sapiente
mescolarsi di tratti realistici e tratti squisitamente letterari, riesce a rendere ancora una volta più che mai viva una delle
intuizioni romantiche fondamentali: la realtà, per
l’uomo, è insopportabile. Ed è tale intuizione che dà quel senso di malessere
immedicabile di cui parlavo all’inizio.
Dunque il valore della novella sarebbe nel fascino che le
inattuali intuizioni romantiche ancora esercitano su di noi? In buona parte. Ma
non soltanto. Il suo nucleo poetico più profondo è più complesso. Mario Praz,
con un'opera fondamentale, La carne, la morte e
il diavolo nella letteratura romantica, ha dimostrato a iosa quanto il
sadismo sia presente in tale letteratura. Quasi mai esplicitamente, però. Nel
linguaggio romantico, che privilegia l’espressione poetica, trionfano le
ellissi, gli accenni, le allusioni, le sfumature, il non-detto… Anche Landolfi,
riguardo allo scempio subito dal corpo della bambina, potrebbe comportarsi in
questo modo. E invece no. Dopo una nuance necrofila abbastanza
direttamente mutuata da Poe: «[…] fu percorsa, benché ignara, da un brivido non
di freddo; chiuse gli occhi, si tirò addosso il lenzuolo fino al mento. La vidi
già nel suo sudario, e ciò forse, indirettamente, affrettò la sua fine. Ma in
ogni caso quel sudario era bianco, e non poteva, non doveva essere tale».[9]
Il narratore su quello scempio si sofferma:
La incideva, la tagliava, la tagliò quella mia piccola lama, e decisamente, d’un colpo, recise anche le sue vene. Ella dette in un grido soffocato e gutturale […] e balzò convulsamente a sedere […]. In quella nera stanza vibrai colla mia fragile arma colpi furiosi. Cominciai dalla gola che trovai e abbrancai alla prima; e poi giù giù, sul cedevole seno, sul pallido ventre, sulle cosce ancora nervose, sulle braccia vanamente protese, sulle mani di perla, dappertutto. Ma una volontà superstite o una forza oscura torceva la mia mano dal suo viso; una sola volta essa incontrò l’umida lingua e non seppe rattenersi. Quel corpo idolatrato doveva esser divenuto una sola, acuta piaga. Ed ella, senza quasi difendersi, gridava, gridava alla sua maniera, gemeva; ma ben presto tacque, e mi rimase sul braccio assai più pesa che non fosse stata da viva. E allora, solo allora ebbi pace. […][10]
Qual è la ragione profonda di questa scelta?
La letteratura, che è il solo strumento che coglie
concretamente l’essenza dell’umanità, è per questo destinata ad essere appresa
e valutata non solo dagli specialisti o dagli appassionati ma anche, talvolta,
dalla gente comune o magari da chi gente comune non è, e tuttavia, di solito,
si preoccupa di cose diverse che ritiene ben più importanti. Quasi sempre
costoro, riguardo alla scrittura, dicono delle grandi stupidaggini. Nondimeno,
in una sciocchezza ci può essere una parte di verità o almeno una piccola
intuizione che può essere utilizzata anche da un lettore più consapevole.
Mettiamo il nostro racconto sia letto da una femminista bigotta, una cioè che,
non comprendendolo a fondo, consideri il femminismo una variante di
quell’eticismo oggi così diffuso da pretendere di sostituire anche il marxismo.
Probabilmente non si tratterrebbe: «Questo farneticare, folle e sovreccitato,
non è altro che la giustificazione di sé medesimo compiuta da un disgustoso
pedofilo sadico!» Un’affermazione del genere è stupida ma, insieme, preziosa.
Stupida perché confonde etica e arte che intrattengono un rapporto radicalmente
diverso colla realtà: la prima vuol raddrizzarla; la seconda non può che
rappresentarla così com’è. Ma anche preziosa perché ci fa toccare con mano
l’effetto dell’insistenza di Landolfi sullo strazio di quelle carni
adolescenziali. Che è quello di aprire una diversa prospettiva di lettura e
d’interpretazione della novella. Importa solo fino a un certo punto che tale
prospettiva sia particolarmente acuta o particolarmente ottusa. Ciò che conta è
il moltiplicarsi delle interpretazioni. Perché questo moltiplicarsi collima
perfettamente col ruolo primario che ha la voce in questa scrittura. Chi parli
ossessivamente soltanto di sé stesso potrà mai essere sincero? Si crea quindi
un sottotesto di radicale ambiguità terribilmente novecentesco, prepotentemente
moderno. Ed è proprio in questo intrecciarsi e impeccabilmente fondersi di
fascinosa inattualità romantica e inquietante ambiguità moderna il nucleo
poetico più intimo e potente di questo racconto, indubbiamente tra i più belli
almeno del secondo Novecento italiano.
Non mi sembra di dover aggiungere altro. Voglio concludere
però colla più schietta vena romantica di Landolfi: «Infine accesi: ecco, ora il suo sudario era tutto rosso. Bianco non
m’era piaciuto; così, così appunto lo volevo. Ed ecco, intatta nel suo volto di
notte e di stella, ora ella era mia eternamente».[11]
[1]
Edgar Allan Poe, Il Cuore Rivelatore, in Opere Scelte, a cura di
Giorgio Manganelli, Milano, Mondadori, 1971, p. 603.
[2]
Fedor M. Dostoevskij, Ricordi dal sottosuolo, trad. di Tommaso Landolfi,
Milano, Longanesi, 1971, pp. 3-4.
[3]
Tommaso Landolfi, La muta, in Id., Racconti Italiani del Novecento,
a cura di Enzo Siciliano, Milano, Mondadori, 1983, pp. 692-693.
[4]
Va da sé che intendo qui come artificio il mezzo stilistico a disposizione
dell’artifex.
[5]
Tommaso Landolfi, La Muta cit., p. 702.
[6]
Ivi, 711.
[7]
Giacomo Leopardi, La sera del dì di festa, in Id., Canti, a cura
di Mario Fubini, Torino, Loescher, 1976, p. 120, vv. 29-30.
[8]
Tommaso Landolfi, La muta cit., p. 713.
[9]
Ivi, p. 714.
[10]
Ivi, p. 717.
[11]
Ibidem.
Bel saggio. Credo che Landolfi sia uno dei massimi scrittori contemporanei. Sarei curiosa di sapere se il critico Cenciarelli lo considera un realista magico o un surrealista.
RispondiEliminaFrancesca Olla
Innanzitutto la ringrazio per l'apprezzamento.
EliminaPreferisco chiamare Landolfi realista magico poiché l'aggettivo surrealista va usato con cautela: c'è sempre il pericolo di far confusione tra un certo atteggiamento espressivo che percorre tutto il Novecento e il movimento surrealista propriamente detto che pure ha in tale secolo infinite ramificazioni.
Dovessi comunque definire Landolfi parlerei d'uno scrittore genialmente inattuale e istintivamente portato ad una reverìe di radicale ascendenza romantica.
E' vero: tutti ormai si sentono in diritto, grazie alla "democrazia del web, di dire "sciocchezze", come sostiene l'autore di questo articolo. Articolo interessante. Maria Laura
RispondiEliminaInnanzitutto la ringrazio per l'apprezzamento.
EliminaIo comunque intendevo sottolineare il fenomeno per cui certe persone, magari colte, magari molto esperte nel loro campo (la psicanalisi, la politica), tendano a ignorare la peculiarità della letteratura e a giudicarla secondo l'ottica dettata dai loro interessi prevalenti.
Donde le grandi stupidaggini di cui parlavo.
Già negli anni '70, quando udivo qualcuno dire di un romanzo: " Dal punto di vista umano e artistico potrei anche apprezzarlo ma politicamente... " mi alzavo e me ne andavo.
Perché "sciocchezze"? La letteratura non appartiene a tutti?
RispondiEliminaEnrico Berardi
Innanzi tutto la ringrazio per l'attenzione.
EliminaIo credo esattamente come lei che la letteratura appartenga a tutti. Anzi aggiungo che è capitato certi film e certi libri siano stati scoperti prima dal pubblico e poi dalla critica.
Se avrà la pazienza di leggere la mia risposta a Maria Laura qui sopra le sarà chiaro quali sono le persone che, secondo me, dicono le più grandi sciocchezze riguardo l'arte in genere.
Il mio professore di Lett. mod. e cont. diceva che Landolfi è un "informale con figure". Mi sembra una definizione calzante.
RispondiEliminaFederico