NOBILE FINALE
Nel
cuore di tenebra calabrese la luce penetra con molto tatto tra le eriche, gli
abeti bianchi e, più su, tra i faggi; discreta e gentile verdeggiando l’aria
gravida di azoto che quasi inebria per la sua purezza. Ero io bambino-adulto di
otto anni e privo di madre perché morta due anni prima di tisi senza assistenza
di medici che lassù, sulle Serre San Bruno, nelle stagioni di grande pioggia,
con le fiumare ingrossate, le strade non erano percorribili dalle
carrozze-ambulanze e le erbe stracotte della vecchia e premurosa vicina non
bastarono a salvarla. In pochi mesi il mio fisico e la mia volontà di
sopravvivere si svilupparono con prepotenza, come se investiti da energia
cosmica. Mi sentivo forte, forte come un semidio, prescelto dalla natura ad
assorbire linfa vitale dalla boscaglia. Compresi la trasformazione osservando
le mie nuove impronte solide nel terreno umido, profonde come l’istinto che mi
faceva padroneggiare quei luoghi silenziosi e selvaggi, dove la notte piombava
d’improvviso, come un sipario che cala davanti alla luce, come nelle foreste
subequatoriali, come nei cuori degli uomini avvolti dall’astio verso lo
straniero o verso la propria cupa infelicità. E non ne avevo paura.
Avevo
imparato a distinguere il grido del picchio nero dalla minuscola cresta
carminia che annuncia l’arrivo della pioggia, i passi svelti e ritmati del lupo
appenninico, l’incedere silenzioso del gatto selvatico, il raschiare delle
unghie del ghiro in cima ai noccioleti in pieno agosto — e imparai presto a
catturarlo con le trappole a cassetta. I miei cinque sensi erano come ereditati
da un indiano d’America. L’olfatto in particolare. Potevo avvertire l’arrivo a
lunga distanza di una cavalcatura dal suo sudore nel vento e dall’intensità dei
suoi passi distinguere se fosse al pascolo, quindi con la groppa libera da uomo
o mercanzia, un afrore misto al cuoio che i più grandi dicevano che turbasse le
donne, ecco io allargavo le narici come un cavallo nell’atto dello sforzo e lo
sentivo alla distanza di un proiettile di carabina.
Ero
in simbiosi con le rocce di granito delle mie montagne, con la cellulosa dei
boschi fitti e inespugnabili, con il labirinto delle acque che scendevano a
valle, sapevo di radiografare il percorso sotterraneo dei fiumi negli
inghiottatoi, finché non risorgevano all’aperto in nuovi alvei a precipizio
verso la pianura, con quadrupedi e volatili che mi vivevano spesso intorno come
fossi un elemento del paesaggio ribollente di vitalità e speranza. Ma non solo.
Ero consapevole di esser nato con lo spirito di geometria perché ho sempre
saputo mettere ogni cosa al suo posto, non nel senso dell’ordine, ma del
meccanismo complesso, sia esso una macchina che un essere vivente. Possedevo la
capacità di scomporre un corpo nei suoi pezzi principali o ricomporlo. Avevo
messo gli occhi, a quella età, su una vecchia Vespa abbandonata nel cortile di
don Ciccio, un lontano parente, secondo il quale quel motore “era ormai morto”.
Gli chiesi di lasciarmi provare ad aggiustarlo. “Ma cosa vuoi aggiustare,
lattante, — mi rispose con affettuosa iattanza — non è roba per te”.
L’attrazione indefinibile verso lo scooter grigio e arrugginito a macchia di
leopardo, mi spingeva quasi ogni mattina nei paraggi con candida curiosità. Non
capivo e non m’interrogavo sul perché. Smontavo la pancia laterale, aguzzando
gli occhi sui meccanismi di un motore a due tempi che vedevo per la prima volta
e che mi appariva incredibilmente familiare.
“Dài,
dài, portatela via”, fece un giorno zio Ciccio e le dita corte della mano con insistenza
verso l’alto sferzavano l’aria come a scacciare un insetto fastidioso, “portala
via e cagionaci quel che vuoi”. Raggiante ero, attraverso la fessura delle
labbra e degli occhi. Ma sembrava un’impresa impossibile per l’altezza dei miei
otto anni manovrare un rottame con le ruote a terra che immobilizzarono me,
nello sforzo sovrumano, e la bambina meccanica e riottosa, se non fosse stato
per Fausto, il procugino adolescente, che impresse la spinta decisiva. Così a
zig-zag raggiungemmo il garage-catoio più vicino.
Pascaliano
mi chiamò il maestro delle primarie che amava la filosofia. Avevo unito in me,
secondo lui, l’esprit mecanique allo spirito di finezza. Lo presi per un
complimento quando dopo quattro giorni, smontato e rimontato quel meccanismo
perfetto, che non sapevo fosse già diventato il simbolo geniale italiano nel
mondo, con un colpo deciso al pedale di accensione di zio Ciccio la Vespa
ruggì. Si spense in una nuvoletta bianca, ruggì di nuovo al secondo avviamento
con un gran fumo che era una gran bellezza mentre la piccola folla intorno rideva
e urlava di meraviglia lanciando non solo le braccia al cielo ma anche me che
fui preso in braccio e scaraventato verso l’alto come una sua benedizione. Ero
entrato, ufficialmente e con molto anticipo, nel mondo degli adulti.
Da
bambino smontavo tutto. E lo rimontavo. Affrontare la fatica e la pazienza era
per me un piacere sottile. E ogni giorno alzavo l’asticella, ogni nuovo giorno
quasi mi allenava a sostenere un peso maggiore. Avevo sedici anni e non ero mai
uscito dal paese quando mi ritrovai a Torino. Un commerciante vicino di casa
doveva caricare arance e mandarini su un vecchio camioncino Fiat 615, di quelli
che non se ne fanno più con il muso gonfio e allungato. Aiutami che ti pago,
disse. Lo aiutai. Devo portare la merce a Torino, vieni con me, che ti pago.
Andai. Tre giorni di viaggio a 40-50 all’ora per oltre mille chilometri.
Scaricammo gli agrumi e quando lui mise in moto per tornare a sud, io gli
dissi: resto per cercare un lavoro. Lui non fece una piega: lo dirò a tuo padre
che sei rimasto qui. Avevo 500 lire in tasca, mezzo filone di pane e un pugno
di arance. La mia casa era uno scatolone di cartone sotto i portici. Cosa sai
fare?, mi chiese il titolare di una grande officina. Io non so fare niente,
risposi, ma potrei fare di tutto. Ti voglio provare, mi disse, ti do cento lire
l’ora. Traslocai la mia casa di cartone accanto alla fabbrica. Il fratello del
titolare giungeva al mattino presto che era ancora buio per curare i suoi
cardellini. E mi trovava stabilmente davanti ai cancelli. Da due mesi ti
presenti per primo ai cancelli, mi disse il fratello del titolare. Gli spiegai
che vivevo nella casa di cartone a pochi metri da lì. Lo riferì al fratello che
urlò: fermate le macchine, trovate un letto per questo ragazzo.
A
un anno dal mio arrivo venne mio padre. Ero il penultimo di nove fratelli. Volle
vedere dove lavoravo, dove abitavo e con chi, che tipo di vita conducessi. Ma
non pronunciò una parola, non avevo chiesto il suo permesso di lasciare il
paese. Non pronunciò una parola finché non risalì sul treno. Quando vorrai
tornare, è sempre casa tua.
Tra
lavoro, straordinari e passione per la meccanica, restavo al lavoro dodici ore
ogni giorno, domenica esclusa ma non sempre. La sera preparavo il sugo, a
pranzo tornavo in bici e mettevo a bollire mezzo chilo di pasta. La sera niente
cena, no. Solo qualche banana in bici.
Una
mattina comparve in fabbrica Boniperti. Era stato un grande giocatore della
Juve e ne era diventato presidente, nonché padrone di un’azienda dell’indotto
Fiat. I miei compagni di lavoro gli si fecero intorno per un saluto caloroso e
un autografo. Poi Boniperti, con le sue spalle grandi dentro la giacca di tweed
e i capelli giallo scuro a fronte alta, si ritirò con il nostro titolare nello
stanzone a vetri. Dieci minuti dopo Teresa, la centralinista tuttofare, mi
venne a chiamare. Al cospetto dell’ammiraglio del calcio italiano mi mostrai
tranquillo nei miei diciotto anni appena compiuti. Boniperti mi chiese di lavorare
da lui. La storia del capomacchina incastrato nel tornio aveva fatto il giro
nell’ambiente metalmeccanico della Mole. Il mandrino della testa motrice si era
piegato nella lavorazione imprigionando le gambe dell’operaio. Ci provarono in
tanti a stappare la torretta portautensili per liberare il compagno ferito e
sanguinante, ma senza esito. Io mi feci strada afferrando il disco di ghisa
sbullonato con entrambe le mani. Chiudendo gli occhi, piegando le ginocchia,
prolungando l’inspirazione, spingendo gli avambracci verso l’alto, mi ritrovai
sul petto una coppa di quasi due quintali e l’esultanza della fraterna compagnia.
Ne guadagnai la stima dei compagni, tante pacche sulle spalle, una medaglia
ricordo e diecimila lire di premio.
La
fama del terrone “smontatore”, ligio sul lavoro, mai una parola di troppo, era
giunta alle orecchie del patron bianconero che aveva così chiesto al più
piccolo collega imprenditore di cambiargli casacca come se io fossi il giovane
calciatore di un vivaio di provincia che poteva passare al club più titolato.
Avevo
fatto carriera. Adesso non vestivo una maglia di calcio ma una tuta integrale che
mi si poteva scambiare per un elicotterista, con rinforzi e protezioni, un
caschetto giallo e, sempre al mio fianco, una cassetta di attrezzi di
precisione che lucidavo con cura ogni sera prima di riporli. Spedivo a casa
metà dello stipendio e in cambio ricevevo un pacco di cibarie dalle mie sorelle.
Quella volta lì, tra la soppressata, la forma di pane fatto in casa, le
conserve e il barattolone di caponata, trovai, come portafortuna, un rametto
ancora fresco e aromatico di faggio, tre mazzetti di origano di montagna. E una
lettera: tuo fratello ha rilevato un ristorante, ha bisogno di te. La mistura
di profumi e quella richiesta esplosero nella stanza e mi stordirono. In quel
momento compresi che il mio tempo a Torino era finito. La montagna mi stava
richiamando. Al direttore dissi: mi licenzio. Boniperti lo seppe e mi fece
chiamare. Se resti ti raddoppio lo stipendio. Devo andare. Il patron non
aggiunse altro. Si alzò e, allungando le braccia e un gran sorriso che gli fece
aprire una bocca lunga e perfetta, mi strinse a sé. Perdo un figliolo e il
migliore dei miei uomini, buona fortuna.
Appena
tornato appresi dell’incidente. La ruspa crollò nel fiume mentre costruivano la
strada verso le cascate. Un piccolo cedimento del terreno e l’autista era
balzato giù mollando il mezzo al suo destino. Il piccolo escavatore si era
piegato da un lato, tentava sì di risalire con un gemito disperato e quasi
umano nel motore, mentre le cinghie slittavano in un turbinio di polvere e
sassi. Pareva farcela, ma la direzione di marcia, senza guida, lo conduceva nel
baratro. Il cingolato scomparve inghiottito nel vuoto primordiale con un rombo
continuato e un boato e un frastuono in miscuglio di alberi e di rocce a
precipizio verso il fiume, sessanta metri più giù. Lo schianto di tuono durò un
tempo senza fine, come il silenzio successivo nella valle, finché non si spense
nell’acqua. Tacquero animali di terra e di cielo, i grilli per quel giorno trattennero
il fiato e non frinirono.
I
lavori ripresero, ma non abbandonavo il pensiero di quella ruspa. La sognavo di
notte capovolta nel fiume, con il motore ancora acceso, riparo per colonie di
pesci e granchi di acqua dolce, guardavo a tanto spreco di ingranaggi e di
meccanica, mi sentivo come chiamato a salvare quella divinità di ferro che
credevo scampata al disastro. L’anno dopo, una spinta arcana mi condusse in
fondo al dirupo, in quel luogo che era stato contrassegnato come il Cimitero
della ruspa. Era ancora lì, capovolta e semisommersa nell’acqua che neppure
quella invernale, impetuosa e travolgente, era riuscita a trascinarla via. Si
introdusse nelle mie narici prepotente l’odore del fiume di tarda primavera, un
odore misto di muschio e fiori d’oleandri e di radici arboree perennemente
inumidite dallo scorrere pieno di fretta e di asocialità dell’acqua che non
nasce per tenere compagnia ma solo per scivolare, in apparenza indifferente
alle sorti umane e della natura, solo verso il basso. Il fiume scarta la
pianura piatta, non esisterebbe privo del suo alto e del suo basso, diventerebbe
altro, un lago per esempio, o ben presto ne morirebbe. L’odore era tuttavia
insolito per me, c’era qualcosa di diverso e pungente, di tragicamente moderno
a renderlo estraneo, era quell’alito addensato e persistente di olio e
carburante, di ferro arrugginito. Era l’odore della ruspa.
Mi
avvicinai al mostro di ferro che sembrava intatto nonostante i mesi di anomalo
parcheggio e solitudine, avanzando a gambe larghe dentro le mie calosce nere
con l’acqua sino all’inguine. Il suono di una piccola cascata poco più a valle
era come un coro religioso che pareva confermare di essere chiamato a un
compito ben superiore alle mie facoltà. Mi afferrai alla macchina che non si
mosse d’un nulla perché in tutta evidenza ben saldamente ancorata al fondo. Le
mani scivolarono su quel corpo metallico, morbido e levigato come quello di una
donna, i bracci che reggevano la pala sporgevano dal telaio e fuori dall’acqua
come una richiesta di aiuto. Ero lì per quello. Decisi di aspettare l’estate piena
con l’abbassamento del livello dell’acqua e avere così la risposta che cercavo:
il cuore di quella macchina poteva essere ancora in vita, battere ancora.
Passarono
due mesi di vivida attesa e di calcoli. Studiai l’anatomia di quell’essere
meccanico in ogni sua parte. Schizzi a matita, un manuale di manutenzione e
infine chino per giorni e giorni sulla riproduzione dell’albero motore di un
quasi gemello che copiai presso l’unica officina del paese, la quale
fortunatamente ne conservava un esemplare nel capannone dei pezzi di ricambio
usati. Impiegai un’ora per arrivare in fondo al dirupo illuminato dai primi
raggi dell’alba. L’acqua era scesa in quel punto a soli 35 centimetri, il mezzo
meccanico mi apparve quasi per intero con una fierezza stoica commovente come
di chi non tiene in gran conto il pericolo e sa che può affrontare la fine con
dignità. Smontai il cofano quadrato che era di un verde uniformato al muschio
che correva a macchie lungo le rive.
Ci
volle mezza giornata per avere conferma di ciò che avevo sempre pensato: il
vano motore era semi-annegato nell’acqua ma l’olio galleggiando in superficie
nella parte restante aveva preservato l’albero motore, i pistoni, i giunti e
tutto il resto. Il cuore della macchina poteva battere ancora. Lanciai un grido
a braccia larghe, che rimbalzò più volte nel canalone ricambiato da
innumerevoli membri delle famiglie di volatili, nello spazio silente di quella
foresta, nel cuore di tenebra e di luce in fondo allo Stivale, a circa quindici
chilometri dal mare della Calabria ionica che risale, tonda come una testa
immensa dai capelli fitti e lussureggianti, sino alla sommità delle Serre San
Bruno e della sua celebre Certosa, dove Leonardo Sciascia collocò la scomparsa
del fisico catanese Ettore Majorana, ritiratosi segretamente e ancor giovane
tra i monaci in clausura e meditazione, una tesi sul mistero priva ancora dei
riscontri decisivi tranne che nelle parole di Papa Wojtyla che, in visita mezzo
secolo dopo in quella piccola città fortificata dalla preghiera, citò tra le
personalità della Certosa anche il nome del giovane scienziato che prima di
Fermi aveva scoperto il segreto del nucleare.
Cominciò
a danzare come un derwishi, un uomo grande e robusto con muscoli in evidenza
simili a nervatura di albero poteva risultare goffo ma non lo fu.
Ne
parlai al bar del paese. Bastò una parola per scatenare un’onda anomala di
curiosità, di ciarle, di ragionamenti. “Hai sentito della ruspa nel fiume?
Nobile vuole rimetterla in movimento.” “Impossibile, dopo tanti anni… e poi
come fa a portarla su… con l’elicottero?” “Dice che ci torna domani, dobbiamo
andare a vedere… quello è capace di tutto”. “Mi sa che ci faremo quattro risate…
ah ah…”
La
giornata successiva la dedicai a spurgare l’acqua dal circuito di alimentazione
e dal serbatoio, ancora pieno per oltre metà di gasolio, cambiare i filtri
della pompa e le cinghie malandate. Le candelette, a un primo sguardo, invece
sembravano in grado di scaldarsi. Mi limitai a pulirle. Il piccolo escavatore
era adagiato su un fianco, con il tetto della cabina sollevato perché poggiava
su un terrapieno. Il fatto rendeva meno complicato metterla in piedi. La
boscaglia fitta aveva per altro rallentato la sua rovinosa caduta per cui il
mezzo era rimasto quasi indenne, tranne ammacconi qua e là, il vetro della
cabina lineato. Prima di metterla in moto dovevo raddrizzarla. La notizia della
mia impresa al fiume, laggiù in fondo dov’era, aveva attizzato parecchia
curiosità e un piccolo popolo si era ritrovato sull’orlo del dirupo a osservare
con i binocoli il mio daffare e tre uomini che ben conoscevo di quel pubblico
di curiosi non avevano resistito fino a venir giù. Erano l’aiuto che cercavo.
Li assunsi nell’immediato. Divisi in due gruppi di due, maneggiavamo su altrettanti
tronchi per far leva tra la cabina e i cingoli. La nostra piccola ruspa al
primo tentativo si drizzò.
Toccava
provare a metterla in moto. Una spruzzata di etere nella presa d’aria, uno di
loro, proprio Giacomo l’incredulo sin dal primo mio dire, si avvicinò al volano
per scaldarlo con un pezzo di stoffa di velluto in fiamme annodato alla punta
di un ramo, io in cabina a girare la chiave e a ingranare la seconda ridotta e
via. Il motore e tutta la macchina sobbalzarono con un scoppio sordo e una
fumata nera dal marmittone. Quindi si spense. Riprovai. I miei compagni
immobili a braccia larghe, tutto intorno un silenzio vivido di attesa, il
silenzio sommato nei secoli che si era radunato in quella gola. Il mezzo
meccanico ebbe uno scossone, poi un altro e un altro ancora e quindi ruggì balzando
fuori incredulo e orgoglioso dal rigagnolo. Era vivo e la sua voce rauca e
persistente rintonò nella valle. Saltai giù come un giaguaro e saltellavo
comunque. Ci abbracciammo ridendo, ci abbracciammo come fanno gli uomini di
montagna, in cerchio con un passo grezzo di danza, le braccia avvitate sulle
spalle comuni, un movimento che, qualcuno ebbe a dire, fu visto simile in
Grecia. La legge della meccanica incontrava quella della natura umana, chi si
porta dentro l’incertezza del risultato, il timore del fallimento, fallisce.
Dopo
aver offerto uno o due bicchieri di vino dal fiasco nel mio tascapane, chiesi agli
uomini di lasciarmi. Dovevo riflettere, meditare. Il primo passo era compiuto,
si trattava ora di riportare la ruspa in strada, sessanta metri più su.
Si
assise su un pietrone a gambe larghe con le ginocchia rivolte verso il cielo sotto
un grande abete cresciuto non in verticale, come natura voleva, ma in una mezza
spirale che svirgolava verso il terreno, una sorta di gemello dizigote
dell’Albero Inginocchiato sulla roccia dove San Bruno sarebbe andato a pregare.
E rimase impassibile nell’osservare il mezzo meccanico, l’acqua che scorreva
tranquilla nell’alveo e la schiuma dei piccoli salti. Rimase seduto e assorto
alla maniera indù, come assente, aggrottando le ciglia verso un terzo occhio
che non sapeva di avere, ma che lì era magicamente posizionato, proprio al
centro della fronte. E non si mosse all’imbrunire quando il calar della luce
offusca i contorni delle cose e nemmeno si mosse all’arrivo della notte. Era
come se avesse bucato una parete: non aveva freddo nell’umidità della gola, né
fame e né sonno e né sete. I bisogni del corpo erano come sospesi e rimandati
ad altro tempo. Nobile era stato investito da un unico bisogno primario,
estrarre dalla voragine della perdita e della morte il mezzo meccanico che poteva
ancora vivere e funzionare. E quell’obiettivo primeggiava su ogni altro. Non
pensò neppure di montare la piccola tenda che doveva essere il suo riparo
notturno, né di toccare acqua e cibo. Non si sentiva in uno stato di ipnosi,
no. Era cosciente di sé e del mondo, aveva creato solo una barriera ai suoi
pensieri, la sua mente e il suo spirito erano liberi dai pensieri, questo era
certo. Cercava soltanto una soluzione, portare la ruspa via da lì e tra il
mezzo e la strada c’era un costone a strapiombo provvisto solo di inadeguati
sentieri pedonali.
L’alba
giunse con lenta dolcezza avvolgente.
Mi
rimisi in piedi acquistando energia. E come avvolto da un sacro fuoco, mi
spogliai entrando in acqua che formava una piccola pozza poco più avanti.
Entrai sino alla cintola e feci come delle abluzioni nel mio Gange personale
che sgorgava dalla roccia, in una cascata a più rimbalzi, trecento metri più a
monte. Se la strada per risalire non c’era, bisognava che la costruissi. Era
questa, pensai, l’equazione più semplice e, in apparenza, irrealizzabile. Ma
era quella. Il sentiero che risaliva sinuoso sino in cima non superava un metro,
un metro e venti laddove era più spregiudicato e andava raddoppiato in
larghezza. In certi passaggi bastava a tenere in piedi un uomo, ma dei punti
critici me ne sarei occupato dopo.
Una
pazzia, proprio una pazzia mi apostrofarono in paese. È impossibile portar su
quella bestia sino all’orlo, sei proprio matto, mi disse un cugino che sapevo
esperto, vuoi sfracellarti venendo giù con il mezzo, sei ostinato e cocciuto
come il mulo che ti prese a calci da bambino. Ero cocciuto, non come gli altri
pensavano che fossi, non per sfidare gli altri, bensì me stesso. Una sfida che
affrontavo solo quando dentro di me sentivo di potercela fare, anche con gravi
rischi e sacrifici, persino della vita. Eppoi, non intendevo dimostrare niente
a nessuno, volevo evitare tutto quello spreco meccanico, evitare anni di
ruggine ancora nel fiume. Ci misi una settimana a spianare cento metri di
sentiero e dovetti abbattere cinque faggi, uno era bello grosso da dieci metri,
chiedendo perdono ad ognuno di loro. E dei tronchi ripuliti ne feci rotaie nei
passaggi rocciosi o sdrucciolevoli. Binari di tronchi da ripassare davanti al
mezzo se nel frattempo era andato avanti, riprenderli da dietro e riportarli,
con pazienza, ancora davanti.
Afferrava
quei tronchi aperti a metà dall’accetta con cura e semplicità come se fossero
di polistirolo, la stanchezza o il dubbio non erano contemplati in quel corpo
solido e nell’espressione imperturbabile del volto. C’era in lui una volontà
insaziabile di andare avanti e non diede retta al pensiero di quella frase che
un tempo il suo amico filosofo e maestro pronunciò come una profezia, di uno
scrittore tedesco o forse di Praga, non ricordava bene, comunque le parole
erano più o meno queste: da un certo punto in avanti non c’è più modo di
tornare indietro, ed è quello il punto al quale si deve arrivare.
La
benna apriva un varco nella parete di terra e si inceppava davanti ai massi e
alle rocce. Un metro per volta e furono cinquanta in due settimane. La pazienza
non lesinava, la forza aumentava in me ad ogni difficoltà sopraggiunta.
Calcolai un chilometro per arrivare in cima secondo le serpentine del viottolo
da trasformare in una breccia, in carreggiata, in via di fuga verso le stelle.
Era già buio. Fermai le macchine e mi distesi con una coperta in terra non
prima di aver rinforzato la via con una balaustra di piccoli tronchi.
All’alba,
senza altro esitare ripresi a salire per il pendio al volante della mia ruspa
orgoglioso e con petto in fuori d’ordinanza come fossi alla guida di una
carrozza reale o della biga di Ben Hur. Dall’orlo superiore della vallata
giungevano il vocio infiammato e stupefatto dei miei compaesani, ancora
increduli del prodigio in corso. Sbirciavo indietro a mezzocollo scorgendo il
baratro che ballava dietro di me, sarebbe bastato un minuscolo smottamento per
far precipitare una seconda volta la macchina, compreso me.
Perché,
mi chiesi in un lampo, stavo rischiando la pelle? Cocciuto sono, questo è vero,
e si nota anche dal mio collo levigato e solido, come una bestia da soma di
montagna e quando metto in testa una cosa, non me la leva nessuno. Ma so anche
che oltre un certo limite non si va, non è sensato. Perché allora? Non avevo
tempo in quel frangente di rispondere a tali domande perniciose, ero così
concentrato che il cervello batteva sulle tempie assieme al rombo di quel
diesel.
Lo
smottamento avvenne e rimasi bloccato in quella scomoda posizione sul sentiero
che si era fatto parete, la cinghia sinistra che slittava per metà nel vuoto in
cerca di un appiglio. Era la fine del viaggio? Dovevo lasciarla andare
aggrappandomi al ramo più vicino del faggio che stavo aggirando? Furono secondi
come secoli. La macchina era come immobile, insabbiata e rombante sotto sforzo,
mentre briciole di terra sprizzavano via facendo mancare il sostegno. Diavolo,
diavolone non mi avrete, gridai nella lingua dei miei padri. Non mi avrete. Se
dobbiamo andare giù, andremo tutti.
Rividi
mia madre nella gran colluttazione di pensieri, rividi mia madre bella e
signorina. Cantava una canzone antica, così mi pareva, in una lingua dolce e
sconosciuta. Faceva dondolare appena la testa muovendo le labbra color fragola
nelle due direzioni orizzontali. Poi, fece segno con le braccia di voler
cullarmi al seno, di allattarmi. Quindi si drizzò, mutandosi nel volto quasi
severo. Fai quel che devi fare, mi disse, poi verrai da me. Poi, mi disse,
perché ancora non è il tempo. Ingranai la ridotta e spinsi al massimo ruotando
lo sterzo. Il mezzo provocato dalla spinta gettò un salto in avanti,
arrampicandosi leggero sul pendio sotto una pioggia di giubilo dei compaesani, quasi
conoscesse la strada a memoria. Come feci a scalare il resto della montagna non
saprei raccontarlo e non lo ricordo neppure, andavamo diritti verso la meta con
una forza, una confidenza, una spudoratezza che si prendevano gioco degli
ostacoli. Sta di fatto che il muso della ruspa apparve d’improvviso sul pianoro
e non potei frenare un grido di piacere che risaliva dalle vene e che risuonò
tra i boschi.
Questa
è la mia storia, non ho fatto nulla di speciale, solo riportare in vita una
macchina. Non se ne ricorderà nessuno e non ci saranno libri e professori che
parleranno di me. Ho scoccato una freccia e ho infilato il centro del mio
bersaglio. Ho fatto solo quel che dovevo fare.
Ora,
a sessant’anni passati da un pezzo, con un ginocchio malandato per via di una
protesi malmessa, quando indosso le mie lunghe calosce nere avanzo rigido e un
po’ caracollo come un robot nel fiume basso dell’estate. Ma non fa niente,
faccio ciò che posso, cioè tutto ciò che serve. La fiumara quest’anno non è
stata clemente, ha portato via una buona metà del ponte di legno che avevo
costruito un lustro fa. E ciò che resta da una sponda si protrae sull’acqua
come un trampolino. Farò ciò che posso, quel che serve. La radura a prato
davanti alle terme sulfuree è ora ingombra di pietre e massi, il fango ha
riempito a metà le vasche in vecchia maiolica dei bagni caldi. Non era mai scesa
giù una piena del genere da quando gestisco l’impianto della Acque Sante per
conto della contessa, il clima qui ha cambiato il suo carattere. Le stagioni,
quelle ci sono sempre, la primavera sboccia puntuale pitturando l’orizzonte in
“deep green”, come dicono gli inglesi per la loro brughiera che facilitata da
acqua abbondante assume la colorazione verde intenso. L’estate, l’autunno e
l’inverno fanno ingresso con puntualità portandosi dietro i loro colori
abituali, ma è il ritmo del cambio delle temperature che anche qui è stravolto
nonostante l’ecosistema mantenga un profilo ancora più che buono offrendo di
conseguenza un sicuro livello di vita a tante specie animali e arboree altrove
estinte. È il brusco spostamento della temperatura o l’intensità e la durata
delle piogge che provoca alluvioni frequenti, gelate o caldi estremi. E chi
governa il mondo è a sua volta governato dalle aziende multinazionali che non
si fermano davanti a nulla. Se è questo che vogliamo, pazienza.
Prima
che arrivi l’estate sarà tutto ripulito e sistemato. Farò da solo, come sempre.
Anzi no. Ho al mio fianco la mia piccola ruspa.
Bel racconto. A metà strada tra la finzione e l'autobiografia.
RispondiEliminaBellissimo ritratto umano. Le parole sono note che musicano Nobile.Grazie Antonio!
RispondiEliminaPaola, il tuo animo poetico mi conforta sui destini dell'umanità
EliminaLa bellezza della tua scrittura, delle tue storie per me sta principalmente nella capacita' descrittiva del paesaggio: in questo sei un vero artista e le tue parole scorrono forti o delicate come pennellate decise, o sfumate. La storia di Nobile (in nomen omen) e', appunto, "nobile" e ci racconta della signorilita' che a volte c'e' dentro un uomo semplice al quale sia semplicemente accaduto di provare una grande perdita agli albori della sua vita: non potra' mai dimenticarla e diventera' la sua forza, il leit motiv della sua esistenza. Non so cosa possa esserci di autobiografico in questo racconto ma trovo che non sia importante, quello che mi e' piaciuto e' il senso misurato e composto del testo, che lascia trasparire una cultura profonda senza ostentazione. Grazie Antonio, ho letto all'alba e ho sentito gli uccelli cantare e ruggire il cuore di una ruspa in un bosco calabrese.
RispondiEliminabellissima storia, scrittura pura. leggerti bello è stato
RispondiEliminaAntonio è Antonio anche nella scrittura, sofisticata ed efficace, echeggiante epoche diverse e pur attuali. Al prossimo viaggio. Un abbraccio. Ale
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