Scrive il filosofo Massimo
Cacciari: «Non so se la parola poetica (il “fare del canto”, come a me piace
dire) conduca all’“essenza delle cose”. Lascerei a (antichi) filosofi la
pretesa. Io credo (più “modestamente”) che la parola poetica sia crisi (giudizio, decisione, metamorfosi,
catastrofe) del già-detto. Più radicalmente, la poesia, nel linguaggio, è chiamata a far sentire l’ontologica differenza (crisi) tra linguaggio e realtà. La parola della poesia è sempre la
parola-che-manca».[1]
Quale scintillante
verità si celerà sotto questa crepitante efflorescenza di parentesi virgolette corsivi
traits d’union, a mimare un pensiero
inesausto, mai pago, sempre pronto a rinnegarsi, scavando in sé alla ricerca
di nicchie anfratti doppifondi, come deve fare il vero pensiero?
Che dite? Scavare
va bene, ma vediamo il contenuto delle nicchie? D'accordo.
Prima nicchia: la poesia è il fare del canto. Efficace
come definizione, non trovate? Rotonda, concisa, intrigante. Avessimo noi
questa proprietà di linguaggio, questa straordinaria capacità di… Be’, lo
ammetto: su fare nulla da dire (dal
greco poieîn, che significa appunto
questo), ma giurare che tutta la poesia sia canto può essere lievemente
azzardato.
Però sulla seconda
nicchia non avrete niente da eccepire, ne sono sicuro: crisi sta per «giudizio, decisione, metamorfosi, catastrofe». Che
ve ne pare?… Sì, ammetto anche questo: giudizio e decisione vanno benone ― e
andrebbero bene anche scelta, lotta, esito, interpretazione ―, ma metamorfosi e
catastrofe… Che dizionarî avra mai compulsato l'ex sior sindaco?
In fondo si tratta
di quisquilie, ne convenite? O credete che una minima sbadataggine possa
pregiudicare… Va bene, procediamo.
Terza nicchia. La parola poetica è catastrofe del già-detto.
Dio, che frase! Sì, quel trattino non serviva a niente, però come agghinda la
scrittura! Già… ora che ci penso è un truismo, e dei peggiori. Lo capisco da
me, non c’è bisogno di alzare la voce. In effetti la poesia che replica il già
detto non è poesia; sarebbe come asserire che di mamma ce n’è una sola o che la
scultura è l’arte del togliere, e spacciare queste banalità per opinioni
personali, frutto d’un intenso travaglio speculativo.
Quarta nicchia.
«La poesia, nel linguaggio, è
chiamata a far sentire l’ontologica
differenza (crisi) tra linguaggio e
realtà». Ecco un’altra accezione del termine crisi: «differenza». Quale dizionario lo attesta? Nessuno. E
allora? Non si può inventare nulla? Questa è pignoleria bell’e buona, signori!
Perché in corsivo sentire? Semplice:
per ribadirne il valore etimologico: dal latino sentio ‘percepisco, intendo’. Come? Anche in italiano significa
questo? Confesso che non ci avevo pensato. Insomma, perdio, Cacciari è
ordinario d’Estetica, è stato tra i fondatori di alcune delle più importanti
riviste italiane di filosofia e cultura, da «Angelus Novus» a «Contropiano» a «Laboratorio politico» al «Centauro»;
è membro di diverse istituzioni filosofiche europee, tra cui il Collège de philosophie di Parigi. Un uomo di questa statura avrà pure qualcosa
d’interessante da dire, no? Sull’ultima nicchia dovrete abbassare le penne: «La
parola della poesia è sempre la parola-che-manca»; scilicet: ‘la poesia non replica mai il già detto’. Questa sono
arcisicuro di non averla mai sentita. E voi?
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
RispondiEliminaL'estetismo di certi artifici di scrittura - rubati a pensatori che li usano con maggiore pregnanza di senso - mi ha sempre disturbato in molte pagine italiane che pretendono s-velare (eh sì!) chi sa quali profondità concettuali. La cripticità del commento vela (eh già!) l'inoccultabile, vale a dire la pochezza di senso,forse mia, forse, più verosimilmente, di quelle stesse pagine che mi disturbano.
RispondiEliminaGrazie al grande Dino Villatico del suo commento.
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