Recentemente per Loffredo Editore, nella collana Studi di Italianistica, è uscito “La parola verticale – Pizzuto, Consolo, Bufalino” di Gualberto Alvino.
Il volume è una ricognizione sull’opera dei tre autori virtuosi della forma che si fa sostanza, completa di glossari, indici morfologici, segnalazione di dialettismi, hapax e coniazioni originali fondamentali per entrare in profondità nella comprensione disvelatrice dei loro testi. Potremmo definirlo una sorta di istruzioni per l’uso.
Quello che però colpisce di più –almeno ha colpito il sottoscritto- è certamente l’impagabile dialogo su Pizzuto tra lo Scettico ed il Fautore.
Si tratta di una conversazione tolta dallo spazio e dal tempo, quasi gli interlocutori fossero a bordo di un’astronave, poggiati ad un ipotetico bancone di bar sorbendo un caffè ed approfittassero dell’occasione per scambiare opinioni. Il livello è alto, ma riesce a rimanere sempre colloquiale e a mantenere quindi una trasparenza, una intelligibilità che lo studio critico-filologico non può (e non deve) permettersi, liberandosi oltretutto dell’aura di impenetrabilità accademica che rende quegli studi normalmente riservati ad un pubblico di specialisti o specializzandi.
L’abilità di Alvino nel dirigere il dialogo è deliziosa, anche se a tratti sfugge al Fautore un paternalistico sentimento di tenerezza nei confronti dello Scettico, culturalmente dotato ma spesso in difficoltà nell’orientarsi tra l’enorme mole di passaggi funambolici e filosofici e spesso penzolante dai puntini di sospensione che…
L’abilità di Alvino nel dirigere il dialogo è deliziosa, anche se a tratti sfugge al Fautore un paternalistico sentimento di tenerezza nei confronti dello Scettico, culturalmente dotato ma spesso in difficoltà nell’orientarsi tra l’enorme mole di passaggi funambolici e filosofici e spesso penzolante dai puntini di sospensione che…
Il punto centrale rimane comunque la capacità di comunicazione del linguaggio, anche se nella forma della narrazione e non del racconto, anche se nelle punte estreme della ricerca linguistica.
«E siamo al cuore della poetica pizzutiana: una poetica di straordinaria apertura all’interazione (contuizione il termine tecnico), incardinata sull’epoché congiunta al più radicale indeterminismo» dice il Fautore, descrivendo in altri termini l’architettura concettuale di un social network e proseguendo poco avanti «L’infinitesimo all’universale. L’errore è credere che lo stile stia da una parte e la materia narrata dall’altra, quando si tratta d’un binomio inscindibile. Di un’equazione. Lo stile è la materia […] E in letteratura è l’occhio che conta, non l’oggetto osservato».
A questo punto lo scettico ha un grosso problema, sente cioè sgretolarsi sotto i piedi il pavimento di certezze sulla quantità minima di senso che debba essere contenuta in una frase perché essa possa rimanere decifrabile e non transcodificare in un livello altro di comunicazione, pressoché inaccessibile. E si chiede a che cosa possa servire esprimersi al di sotto di quel livello minimo, disintegrando convenzioni e relazioni tra simbolo e significato.
La domanda di fondo, che lo stesso Alvino pone indirettamente, è la seguente: esiste una specie di costante di Plank poetica? Una cifra minima di comprensibilità come condizione necessaria e sufficiente ad accendere il processo di contuizione?
Secondo il Fautore no, «L’universo in una pallina da tennis», secondo Pizzuto nemmeno «[…] la rappresentazione non è più offerta ab extra, come una planimetria sottoposta al lettore, ma scaturisce intuitivamente da ciò che legge, con una compartecipazione attiva, direbbe un tomista in contuizione». La planimetria scompare, qualunque indicazione o punto di riferimento (costanti comprese) dissolve in un brodo di coltura disomogeneo ribollente possibilità, e i limiti tra comunicazione e comprensione non contano più in questo nuovo universo.
È anche vero, però, che la grande capacità degli “illuminati” è quella di rendere fruibile la propria illuminazione, di diffonderla, di farne materiale per comunicare. Pizzuto si avventura invece nella direzione opposta, come quei solitari pionieri esploratori che raggiunta la sconosciuta valle paradisiaca semplicemente vi stabiliscono il campo base per proseguire il cammino e la ricerca, senza pensare nemmeno per un attimo di investire tempo nel tornare indietro per condividere la scoperta con qualcuno.
«Chi narra ha un solo compito, un unico scopo: comunicare il più efficacemente possibile col destinatario […] che ne è di un genio se la sua opera non viene letta?» obietta saggiamente lo Scettico, risponde Pizzuto «[…] il problema della comprensibilità è questo: che il lettore deve educarsi a comprendere quello che legge, non che lo scrittore deve sforzarsi a fargli capire […] Lo scrittore non deve preoccuparsi del lettore. Io avrò venticinque lettori, forse meno. Ma che m’importa?»
Chiosa il Fautore « […] nelle arti plastiche e figurative si è pronti ad accettare qualsiasi innovazione, anche la più estrema, persino la più impensabile, mentre in letteratura siamo ancora alla clava». Probabilmente è perché la letteratura, il narrare, è quanto di più vicino ci sia all’essenza dell’essere umano, alla sua vita sociale di gruppo e alla sua necessità di comunicazione, di condivisione.
Rendersi consapevoli che lo stadio della clava è superabile –e mai come negli ultimi tempi questo paese ne ha estremo bisogno- è il primo moto dell’evoluzione, un tesoro inestimabile fatto di rinnovamento, di avanzamento, di idee e di entusiasmo per realizzarle.
Le pagine di Pizzuto –e degli altri autori verticali- raccontano l’età del bronzo.
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