Fin dal suo titolo, Là comincia il Messico (Polistampa, 2008) annuncia un passaggio di confine. Il confine, innanzitutto, è quello della forma-romanzo nei suoi contorni convenzionali. Il testo di Alvino è decisamente un testo fuori norma, una risoluta e coraggiosa alternativa agli standard attuali della produzione narrativa e della fiction in genere, nell’odierno stato di inflazione dei racconti scorrevoli e semplificati. Non solo, ma il testo assume in proprio il dovere della polemica, andando direttamente e senza perifrasi al cuore del problema e cioè al modo della fruizione corrente basata sulla sostituzione dei personaggi alle persone, sullo scambio surrettizio «di chi confonde parole e cose, letteratura e vita; non so che farmene d’intrecci scintillanti come luna park, sono il vostro trastullo? chi vi dice che quelle filze indigeste d’aneddoti possano avvincermi? non ho bisogno d’epopee di cartapesta, turpiloquî sotto specie di meditata mimesi, sagre famigliari spalmate nei secoli e stipate di personaggi soverchi, scene madri arroganti e interminabili che di materno hanno solo la pazienza di chi s’acconcia a patirle; smettete, ve ne prego, d’infliggermi i vostri dialoghi monocordi, soporiferi (…)» (p. 61); ed ognuno riempia con nomi, cognomi e titoli questo elenco delle nefandezze consumistiche. Certo, l’autore può vantare una indubbia professionalità critica, evidenziata anch’essa esplicitamente in corso d’opera («Uno scrittore è solo uno scrittore, ma un grande critico può far brillare l’universo nel palmo della mano», p. 74), che gli garantisce una maggiore sorveglianza e difesa contro la banalità. Ma, anche a non voler affermare che il romanzo del critico è oggi l’unico possibile, in quanto i “narratori nati” restano per forza di cose dentro l’ideologia insita nella loro stessa infusa naturalezza, è chiaro che una dose di criticità risulta assolutamente necessaria allo scrittore che voglia guardarsi da fuori e non soccombere al “cerchio magico” della finzione.
La capacità di sdoppiarsi è assunta da Alvino come la radice stessa della disposizione narrativa: l’enunciazione narrante, infatti, si stabilisce come una voce che parla rivolta al personaggio, il quale non fa altro che ascoltare ed agire (ammesso che ascolti davvero: «E non mi ascolti, so che non ascolti una parola di quanto dico», p. 135). Un simile monologo o dialogo asimmetrico marca già diversi punti di contrapposizione verso la forma-romanzo: mentre il romanzo corretto deve raccontare al passato, qui si racconta al presente, in situazione; mentre il romanzo tende a nascondere il narratore che tira i fili della vicenda, qui invece l’emittente avanza al proscenio e si esibisce spudoratamente. Per la verità, non l’io, ma il tu la fa da protagonista («E tuttavia ti farò credito, ancora una volta»: questa la battuta iniziale, p. 11): sì, questo è uno dei rari romanzi che narrano alla seconda persona. Lo statuto di questo tipo di voce resta ambiguo: potrebbe essere infatti la voce della coscienza e quindi un soggetto che parla con se stesso, nel cosiddetto “foro interiore”; ma potrebbe essere anche una voce esterna, che comunica non si sa come col personaggio, lo stimola e lo controlla. La seconda ipotesi potrebbe venir rafforzata, durante la lettura, non dico dalle espressioni di odio dell’io nei confronti del tu, ma dalle indicazioni di una sorta di complotto che coinvolgerebbe il personaggio. Quello che è chiaro è che la voce “alle spalle” vuole che il personaggio compia determinate azioni (si potrebbe parlare — nei termini di Jakobson — di un accento posto sulla funzione conativa) e in questo senso utilizza tutta una serie di strategie, tra blandizie e minacce, rammemorazioni e ordini. Un personaggio eterodiretto da chissà quale forma di condizionamento mentale? Certo è che lo sdoppiamento rimanda agli stadi della follia. Tanto più che la voce è, in tutta evidenza, la voce della paranoia, una voce che va ad instillare e installare di grado in grado il terrore e l’avversione per “l’altro”, ne mostra la presenza invasiva e il moltiplicarsi implacabile da ogni parte, in una sorta di soffocante assedio. Un esempio tra i molti: «La minaccia aumenta, gli indizî si susseguono, ogni anfratto può celare un predatore in agguato. Davvero non t’accorgi che tutto accade contro di te, e le possibilità di salvezza si riducono di minuto in minuto? Anche un cieco lo vedrebbe» (p. 29). Da questo punto di vista, il testo di Alvino è assolutamente realistico, arrivando a mimare proprio i passaggi tipici della cosiddetta “richiesta di sicurezza” e della sua progressiva impercettibile accettazione della violenza più barbara. Se la società non sa più che farsene della scrittura (lusso aristocratico che non va più di moda), allora alla scrittura non resta altro che vendicarsi scoprendo il cuore nero della società, la sua brutalità fondatrice.
Ed è un testo di contenuti davvero “forti”, questo. Il lettore è avvertito, fin dal titolo: Là comincia il Messico è la frase dei banditi che trovano rifugio in un paese dove la legge non ha corso. Ogni disagio è dunque nel conto. Eccedendo soprattutto nella Scena della violenza, ma non lesinando in ampie parti la smodatezza dell’eros, fino a una sorta di misticismo della carne («Il misticismo non è cosa da monache», p. 158), Alvino lancia la sfida del “troppo” o del “ritorno del represso”, come direbbe Orlando. Si tratta di una sfida che chiama in causa certamente la psicoanalisi (che avrebbe difficoltà a rintracciare il livello “latente”, tanto tutto è in superficie) e il femminismo (che avrebbe difficoltà ad accettare un “elogio della femmina” così poco spirituale e con esiti tanto crudeli), ma che va soprattutto a colpire l’attuale ondata neopuritana e fondamentalista, lasciando emergere il desiderio come macchina incontrollabile e enigma insocievole, fino al finale dell’omicidio, anzi fino ad una distopica distruzione generale: «Il deserto, dovranno trovare il deserto quando verranno. Un mare di sabbia. Macerie» (p. 151).
Ma ciò che viene chiamato in causa e viene sfidato è la letteratura stessa, in un gioco che è sempre anche metanarrativo. Il personaggio è uno scrittore, sepolto tra libri e manoscritti. Questo potrebbe voler dire che la cultura non è una garanzia e che anche l’uomo più sapiente del mondo può trasformarsi in un mostro. Ma la cosa rimanda anche ad un principio di dissipazione, per cui la letteratura viene trascinata e travolta nell’orrore del mondo. La scrittura di Alvino, infatti, è di tipo torrenziale. Il monologo del suo sottosuolo porta con sé le materie palpitanti del vissuto e i segnali inquietanti del quotidiano, ma insieme pure tutto un bagaglio di memorie e di conoscenze, di letture e di modelli retorici. È una scrittura spettacolare, degna della scena, rutilante e mutevole, che non esita a trasformarsi, come quando nell’ultima parte lo sdoppiamento della voce e del personaggio si traduce in un’alternanza tra frammenti in tondo e in corsivo. Una emissione straripante che però non ripete (questo mai: «Scongiurare le ripetizioni moleste», p. 98), ma appare animata, piuttosto, dai due princìpi congiunti della elencazione e della variantistica, dove ciò che conta è il ritmo, prolungato fino all’estenuazione del respiro o incisivo come una coltellata. Una scrittura iper-retorica, che contrasta nettamente con la narrativa-sceneggiatura oggi in auge e si ricongiunge, semmai, ad una delle grandi linee di tendenza del romanzo sperimentale.
Esuberante e spietata, la scrittura procede e produce deformando il contenuto e accettando stoicamente di rasentare di continuo lo “sgradimento” e il dispiacere del testo.
In «La Nuova Antologia», a. 145°, aprile-giugno 2010, pp. 391-93.
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