Nel suo bel saggio sul Sentimento della norma linguistica nell’Italia di oggi (in "Studi linguistici italiani", XXX 2004, pp. 85-103, alle pp. 100-1), largo d’analisi e dati preziosi tanto allo specialista che all’amatore di lingua, Luca Serianni — uno dei pochi, veri maestri che la nostra accademia possa ancora vantare — si sofferma su un mio scritto (La lingua dei linguisti, «Fermenti», XXXII 2002, 224 pp. 1-16) e ne addita l’"assunto di partenza" nella richiesta agli studiosi di cose linguistiche d’"una prosa stilisticamente elaborata e non semplicemente chiara e corretta", forzandone così l’interpretazione. Ma diamogli senz’altro la parola:
In anni più recenti un raffinato studioso di letteratura moderna, noto in particolare come editore delle impervie pagine di Antonio Pizzuto, ha scritto anch’egli in tono semiserio un articolo sulla sciatteria linguistica di "un drappello di celeberrimi linguisti italiani in servizio permanente effettivo il cui ingegno e magistero scientifico nessuno ardirà porre in dubbio". Più che discutere l’assunto di partenza, e senza negare la fondatezza di alcuni rilievi particolari, è interessante notare come una delle imputazioni più frequenti sia, ancora una volta, la ridondanza, nella fattispecie la ripetizione della stessa parola o di parole corradicali o, come scrive più forbitamente il critico, il "ripudio dell’ellitticità non meno indotto da vocazione professorale alla ridondanza che da scarsa attitudine in materia di tecniche sostitutive". Uno dei brani incriminati è il seguente (il grassetto indica per l’appunto le ripetizioni, il corsivo un commento di Alvino): "La situazione italiana è molto diversa. Quando si parla di dialetti italiani non ci si riferisce a diverse varietà di italiano: i dialetti italiani differiscono fra loro, e dalla lingua nazionale, tanto che quelli che parlano dialetti diversi possono non essere in grado di capirsi reciprocamente [l’omissione dell’avverbio avrebbe forse nociuto alla trasparenza del dettato?]. I dialetti possono differire l’uno dall’altro tanto quanto il francese differisce dallo spagnolo".
Si tratta di un passo estratto da un’opera di Anna Laura e Giulio Lepschy, La lingua italiana. Storia, varietà dell’uso, grammatica, Milano, Bompiani, 1995. Personalmente, avrei qualcosa da eccepire sulla presentazione che, in vari interventi, i Lepschy hanno dato sul rapporto tra lingua e dialetti in Italia. Ma non trovo nulla da ridire sul modo di scrivere, funzionale — proprio attraverso l’apparente "ridondanza" informativa — a mettere in adeguato rilievo l’assunto radicale da loro sostenuto: cioè che tra i dialetti dell’italiano ci sia la stessa differenza che sussiste tra due lingue diverse, sia pure derivanti dallo stesso ceppo, come il francese e lo spagnolo. Paradossalmente, anche uno scrivente estremamente avvertito dei vari livelli d’uso della lingua, come Alvino, finisce col trascurare la differenza tra un manuale (come quello dei Lepschy), di taglio informativo e destinato a un largo pubblico, e un saggio letterario, rivolto ai pochi che condividono l’orizzonte culturale dell’autore; solo nel secondo ci si può ben permettere, aristocraticamente, un’elaborazione stilistica che riuscirebbe persino fuor di luogo in un testo di studio.
Non ho nessuna difficoltà a riconoscere d’aver sempre avuto in odio qualunque mimesi del parlato e di rabbrividire di fronte alle infingardaggini di certi scriventi, perfino nei ricettarî e nelle istruzioni di pronto soccorso; ma sarei più quadrupede di quanto mi ritenga se osassi allevare le pretese affibbiatemi dal mio cortese critico. Quando mai avrei chiesto ai linguisti girandole d’immagini, sconvolgenti invenzioni, miraboli iperboli?
È la prima volta — e mi brucia — che mi càpita di discordare così radicalmente dall’ineffabile supervisore di tante mie avventure onomaturgiche, ma sono sicuro di non alienarmene la benevolenza sottoponendo a serrato esame i suoi rilievi.
L’"assunto di partenza" del mio saggio è tutto nel seguente quesito: "chi vorrà asserire che una forma ottusa, una coscienza linguistica annullata può ugualmente veicolare acume, intuizione, originalità in fatto proprio di lingua? In termini più espliciti: di quale attendibilità critico-scientifica potrà mai godere il noncurante della propria stessa pagina?"; quanto dire: il privo d’orecchio non può che essere un musicista da strapazzo, o un pessimo analista di musica. Delirante sillogismo? Asserto scandaloso? Non credo, visto il franco consenso tributato al mio scrittarello da molti addetti ai lavori. Del resto il ragionamento mi sembra lapalissiano: chi, come i Lepschy, scrive "capirsi reciprocamente" in luogo di "capirsi" non mostra forse d’ignorare che il concetto di reciprocità è racchiuso nella particella pronominale in coda al verbo e che dunque l’avverbio riesce — oltreché insoffribilmente ridondante (non sarebbe la fine del mondo) — affatto inaccettabile da qualsiasi riguardo? Mi rifiuto di credere che l’autore della più celebrata grammatica italiana oggi in circolazione, scrivente sobrio lucido sorvegliato, irreprensibile perfino nei commerci epistolarî, non trovi "nulla da ridire"; ma santocielo, in quale sperduta contrada italiana esistono parlanti estrosi a tal segno da concepir frasi come "Quei due non sono in grado di capirsi reciprocamente", "Allora? ci siamo capiti reciprocamente?" o d’architettare astrusi congegni del tipo "La situazione italiana è molto diversa. Quando si parla di dialetti italiani non ci si riferisce a diverse varietà di italiano: i dialetti italiani differiscono fra loro, e dalla lingua nazionale, tanto che quelli che parlano dialetti diversi possono non essere in grado di capirsi reciprocamente. I dialetti possono differire l’uno dall’altro tanto quanto il francese differisce dallo spagnolo" per dire semplicemente che tra i dialetti italiani corre la stessa differenza che separa due lingue (perché aggiungere diverse? due lingue non possono certo essere uguali), sia pur derivanti dal medesimo ceppo, come il francese e lo spagnolo?
Linguaggio aristocratico? Suprema elaborazione stilistica? Per carità! Solo un grano di buon senso, di cognizione, e soprattutto di decenza. Non ho mai chiesto altro ai linguisti. Doti, si badi, strettamente correlate, perché chi non sa scrivere non conosce la lingua, e chi ignora la lingua non può essere in grado di scriverne (né di pensare in modo lucido e razionale, o di pensare tout court). Prova ne sia che il citato manuale è infarcito di notazioni e avvertenze stravaganti come queste:
a) "In certi casi la stessa parola si può trovare con una consonante singola e con una doppia; per es. […] filossera e fillossera, melone e mellone" [p. 83];
b) "la specie, le specie; la superficie, le superficie (si incontrano anche i plurali le speci, le superfici, considerati meno corretti)" [p. 101];
c) "ma l’uso di voi sta diminuendo, e a uno studente straniero può convenire limitarsi a lei per i conoscenti, e al tu per amici e colleghi" [p. 107);
d) "Perfino con verbi pronominali in cui la forma senza pronome non sarebbe ambigua, occorre dire vogliono che tu ti penta e non vogliono che ti penta" [p. 132];
e) "mi gli presentano e gli mi presentano possono entrambi valere 'presentano me a lui'. Questi nessi sono comunque duri e generalmente evitati" [p. 181];
cui opponevo nel mio saggio le seguenti osservazioni:
a) Si vorrà porre la prima coppia (costituita da pure varianti di forma) sull’identico piano della seconda (lingua vs dialetto)?
b) con buona pace dei Lepschy, il plurale le superficie è oramai fuori corso da molti decennî, avendo lasciato libero campo alla forma da essi inesplicabilmente indicata come "meno corretta";
c) l’uso dell’allocutivo voi non sta diminuendo: è completamente scomparso, e lo "studente straniero" avrebbe tutto il diritto di apprendere che esso sopravvive esclusivamente nel parlato informale del Meridione;
d) non è chi non colga l’assoluta inconsistenza del precetto (tanto più singolare in quanto proveniente dai più acri oppositori della norma linguistica), vista la perfetta equivalenza sia grammaticale che semantica delle due proposizioni;
e) "generalmente"? quei nessi sono accuratamente evitati nella lingua italiana, e il prospettarne anche soltanto una remotissima plausibilità in un’opera d’uso eminentemente pratico non può non ingenerare la più sviante, antipedagogica babilonia.
Provate a immaginare i Lepschy alle prese con la lingua degli autori: si imbatterebbero nella forma mellone o nell’allocutivo voi, e non ne coglierebbero le implicazioni mimetiche; salterebbero a piè pari su una spia stilistica di grande importanza come il plurale desueto le superficie, o si limiterebbero a considerare duro ma nient’affatto vitando — ergo stilisticamente irrilevante — un mostriciattolo come gli mi presentano, e via negligendo.
Melius abundare, specie nei testi informativi destinati a un vasto pubblico: tale, in sostanza, l’ammonimento di Serianni. Nonché di Giovanni Nencioni, ex presidente dell’Accademia della Crusca (e sommo scrittore), il quale, commentando La lingua dei linguisti, così notava: "la ripetizione terminologica è il modo certamente più povero e più monotono, ma più sicuro di guidare il giudizio e le mani dell’esecutore, e (perché no?) del linguista e dello scienziato quando si tratti di imprimere nella memoria del lettore o dell’ascoltatore costanti concettuali od oggettuali per le quali la lingua scientifica non veda miglior mezzo di denotazione che l’uso di termini unici e monosemici. In quei casi il miglior principio da seguire è quello della proprietà".
Non posso non replicare ai due illustri studiosi che proprio nei testi divulgativi e di studio è indispensabile tenere un minimo decoro formale che funga da esempio agli sprovveduti destinatarî. Mi strabilio che essi non reputino possibile — oltreché imperativo nel caso dei linguisti — contemperare dignità espressiva e precisione semantica in qualsiasi testo, qual che ne sia il livello d’uso.
Perché mai, e a beneficio di chi, Bruno Migliorini sarebbe obbligato a scrivere: "si è ereditato bensì il modulo di questo costrutto, ma il modo di concepirlo non poteva non modificarsi" o "spingono a preferire, volta a volta, l’una ovvero l’altra. Certo, molte volte" o "coniazione di numerosissimi termini nuovi"?
E Lorenzo Renzi: "ogni strofa presenta un animale; la IV ne presenta due. Ma anche l’organizzazione interna delle strofi presenta ritorni regolari. Ogni animale è presentato» o «Non ho parlato finora dei tre ultimi animali. I tre ultimi animali"?
E Paolo Zolli: "alla fine del secolo precedente finirà con l’intaccare"?
E Vittorio Coletti: «specializzatissimo specie nei nomi" o "il (ovviamente) ribaditissimo ritratto" o "gran uso"?
E Maria Corti: "violazione delle norme della grammatica della lingua"?
E Tullio De Mauro: "volendo costruire una teoria del significato, si traccia la storia della più diffusa concezione del significato, quella per cui il significato"?
E Ignazio Baldelli: "i deputati fascisti della Camera erano una esigua mino-ranza: le elezioni del 1929 furono fatte a lista unica e furono così eletti soltanto deputati fascisti: in realtà il Duce del fascismo"?
E Carmelo S. Scavuzzo: "una forma come per il, che ci aspetteremmo censurata dalla totalità dei grammatici, trova inaspettato accoglimento"?
E, ancora, i Lepschy: "gli assunti su cui si basa la seconda parte, particolarmente per quanto riguarda"?
Riscriviamo "questi che parrebbero cocenti essudati d’un ginnasiale dalla vena infingarda e magrissima" (Gualberto Alvino, La lingua dei linguisti, cit., p. 1) cronometrando la durata della revisione:
– si è ereditato bensì il modulo di questo costrutto, ma la maniera di concepirlo non poteva non trasformarsi (alterarsi, mutare, cambiare…);
– spingono a preferire, volta a volta, l’una ovvero l’altra. Certo, spesso;
– coniazione di numerosissimi termini;
– Non ho parlato finora dei tre ultimi animali. I quali;
– al termine (al volgere) del secolo scorso finirà con l’intaccare;
– specializzatissimo soprattutto (massime) nei nomi;
– il — naturalmente — ribaditissimo ritratto;
– violazioni delle norme grammaticali (violazioni della grammatica;
– volendo costruire una teoria del significato, si traccia la storia della sua più diffusa concezione, quella per cui esso;
– i rappresentanti fascisti della Camera erano una esigua minoranza: le votazioni del 1929 furono fatte a lista unica e vennero così eletti soltanto deputati fascisti: in realtà il Duce;
– una forma come per il, che ci aspetteremmo censurata dalla totalità dei grammatici, trova inatteso (imprevisto, inopinato) accoglimento;
– gli assunti su cui si basa la seconda parte, specie (soprattutto) per quanto riguarda.
Tempo impiegato: 1 minuto e 8 secondi. Troppo, per i signori linguisti?
Da "Fermenti", XXXV 2005, n. 227, fasc. 1 pp. 393-97.
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