Oltre al sonno e alla concentrazione ci sono anche altre cose che non sono state dette a nessuno.
Giornate intere che scompaiono, e brevi attimi che diventano un’eternità.

(Peter Høeg)

sabato 18 luglio 2009

Cento madri


Alfonso Lentini
Cento madri
Postfazione di Paolo Ruffilli, Forlì, Foschi editore, 2009, pp. 134, euro 11,90



Al critico militante càpita purtroppo sempre meno spesso di ricevere un libro non si dice di qualche decoro, ma che almeno valga, se non intero, un decimo del prezzo della carta su cui è stampato; sicché non meraviglia che possa perfino esultare di fronte a un “fuori sacco” come Cento madri, opera rotonda, compiuta, plenariamente persuasiva, appena data fuori per il Foschi di Forlì dal poliartista girgentino e bellunese d’adozione Alfonso Lentini.
Via di mezzo tra poème en prose e ‘mito’ in lasse (piuttosto che romanzo, come lo definisce nella postfazione Paolo Ruffilli, additando per giunta un plot storico, sociologico, insomma naturalistico che non esiste affatto, o, se esiste, costituisce solo una falsariga, un depistamento, non più che un aroma), in Cento madri la lingua impera sì, ma — sogno di tutti i narratori, non esclusi i più sordi al problema della ricezione, ossia i più attenti al versante formale — senza soffocare né menomamente scalfire l’efficacia e l’integrità della fabula, che avvince e coinvolge, come si dice, dal primo all’ultimo rigo. Benché, sia chiaro, Lentini non descriva ma evochi; non tessa trame ma semini indizî e vi indugi ad libitum, ben sapendo che il vero senso, l’unico che importi, s’annida nei frastagli del significante; si rida dei percorsi ma ne lasci avvertire il ductus, devoto al principio immaterialistico «esse est percipi», fecondo quant’altri mai nella letteratura e nell’arte del Novecento.
Una lingua — distillata da cento lingue — classicamente selettiva e al tempo stesso cosparsa di mine espressivistiche costantemente in procinto di esplodere (se non esplodono è per la misura dell’artefice, che sa domare la materia movendosi come un puma tra i cristalli): mirabile contrasto stilistico in cui raramente, di questi tempi, è dato imbattersi nella nostra letteratura sostanzialmente di consumo.
Mito in lasse, ma anche treatment (la fase intermedia tra il soggetto e la sceneggiatura), perché lo scrittore siciliano pensa e costruisce non solo per successione d’accordi (che Cento madri sia essenzialmente una sinfonia, nel senso squisitamente pizzutiano del termine — come d’altronde pizzutiana è la scansione in lasse —, mi sembra evidente), ma per quadri in movimento.
Prosa, insomma, con gli strumenti della poesia. Del resto Lentini è noto come creatore di forme, come un musicista della letteratura per il quale la massima di Pater — «All art constantly aspires towards the condition of music» — è sempre stata una guida.
Se la nostra società letteraria somigliasse anche solo in minima parte a quella degli anni Sessanta, se i varî D’Orrico che ammorbano le nostre gazzette valessero un’unghia di Luigi Baldacci o un capello di Carlo Bo, quest’opera sarebbe accolta con cento ovazioni.

Gualberto Alvino

Da “Cento madri”
di Alfonso Lentini


Incipit


Son fatte di carta velina, gonfie d’aria calda, e galleggiano nel cielo notturno come lucciole giganti.

All’inizio sono solo una massa floscia, un abito da sposa disabitato e stropicciato, informe. Poi a poco a poco si gonfiano, grazie all’aria calda che le riempie, la loro pelle si fa tesa e diventano un ovoide perfetto. Sembrano impazienti di librarsi in volo.

Nella piazza gremita si respira l’aroma delle feste: zucchero filato, semi di zucca e noccioline tostate. Fumano le bancarelle delle castagne, adorne di lampioncini, nel buio teporoso. Filtra, a folate, un profumo di mare siciliano e di alghe marce. È la festa del Santo.

Gonfie, pelle tesa, le mongolfiere sono ormai pronte al volo; le vedrai esitare, come esse stesse sorprese di quanto sta avvenendo di meraviglioso, e ondeggiare nell’aria al minimo soffio. Timide.
Ma subito dopo vedrai che acquistano coraggio e si staccano dal suolo, prima con lentezza, poi sempre più sicure di sé.
Se c’è un alito di vento, alcune si inclineranno leggermente, assecondando la corrente; e la loro traiettoria segnerà nel cielo una grande curva luminescente, un fioco arcobaleno elegantissimo.

Nella piazza gremita sono tutti col naso in aria per cercare con gli occhi, nello scuro del cielo, sette puntini luminosi in fila che ondeggiano in ascensione.

(Avevamo, in quei tempi rossastri, gli occhi rivolti al cielo. E forse non solo noi bambini.
Le mongolfiere si libravano sopra le nostre teste, coloratissime, fragili e rigonfie, come copiate da un sogno. Ma erano anche i tempi dei primi voli spaziali. Lo Sputnik perso negli abissi slabbrati del cosmo, così piccolo e pigolante, ci faceva quasi pena, ma ci arrossava le gote, ci eccitava forsennatamente.
Alcuni avvistavano dischi volanti. Qualcuno di noi ragazzini credeva ancora nell’Angelo Custode.
Dal cielo insomma, confusamente, pensavamo potesse arrivare una qualche salvezza).



1 commento:

  1. Un grande libro.
    Un passaggio di crescita virtuoso, in anomali anni sessanta: in un bozzolo nero, serrato da bocche dorate, un odore, carico di muffe ed ombre di paure per troppa paura della vita, evapora dalla crisalide barocca che stringe e fascia il bambino-protagonista, che di nascosto trama e ricama ali da futura farfalla .

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