« LA TESTA DEL NEGRO » DI DANIEL PICOULY
Nata come fumetto di successo, esce ora in versione raccontata La testa del negro di Daniel Picouly, opera in cui si narrano le avventure strampalate della coppia Ed Becchino e Cassamortaro Jones nella Parigi post rivoluzionaria della fine del XVIII secolo. Il racconto, tradotto da Giampaolo Vincenzi, fa parte della collana « Racconti d’autore » pubblicata dalla coraggiosa cada editrice Giulio Perrone Editore di Roma.
Senza addentrarci nell’indagine all’interno dei percorsi mentali battuti dal traduttore fino alla scelta del titolo (a tale scopo si rimanda all’"Intovinello di Verona" scoperto dallo Schiapparelli nel 1924), è opportuno innanzitutto affermare che La testa del negro è un racconto gradevole proprio per l’alto contenuto di assurdità e giochi linguistici, per il “plot” avvolgente e ordinato da un’estenuante caoticità, per i perfetti tempi di intervento e di inserimento dei personaggi che concorrono alla costruzione di un tessuto narrativo arabescato e dalle mille sfumature.
Sarebbe troppo comodo soffermarsi sui vorticosi ritmi che sostengono tutto il racconto e quindi chi scrive preferisce spendere qualche riga su un tema che ricorre nell’opera e da sempre è stato soggetto di interesse in ambito di critica e analisi letteraria: la descrizione della città, in questo caso la Parigi ai tempi della rivoluzione francese. Aldilà della genialità di Picouly nell’inserire i protagonisti all’interno di luoghi che rimandano ad altri siti (il quartiere di Haarlem) e di denominazioni che ricordano altre organizzazioni toponomastiche, decisamente più moderne (l’indicazione delle vie decisamente più newyorkese che parigina), quello che colpisce è l’immagine di una città che apre le sue ferite agli occhi dell’osservatore. Parigi non è la New York caotica e sfuggente descritta da Edgar Allan Poe in The man of the crowd, né la Londra che oscura i buoni sentimenti di molte opere di Charles Dickens. Non è nemmeno la stessa Parigi che Eugene Sue presenta con le sue tinte cupe nei suoi Mystères de Paris o quella che Victor Hugo descrive in Notre Dame de Paris, carica forse della stessa attività umana ma dai toni decisamente più tragici. La Parigi descritta in La testa del negro è decisamente una città dilaniata dalle tragedie e ridotta ad un degrado architettonico ed umano a livelli estremi. Tuttavia, forse per esorcizzare questo concentrato di malessere, Daniel Picouly rende la Parigi di Cassamortaro Jones e di Ed Becchino un elemento quasi organicamente partecipe di tutti i mali che avvengono sulla sua superfice. L’ironia delle descrizioni costituisce un elemento di fondamentale importanza per permettere alla città di mostrare senza remore e pudori le sue piaghe, spalancandole letteralmente davanti al lettore/osservatore. Questi non ha bisogno di cercare chiavi nascoste per decodificare i suoi significati più reconditi o svelare i suoi misteri ancestrali. I segreti infatti si possono cogliere solo seguendo i protagonisti nella loro solo apparentemente bizzarra avventura. Per farlo però bisogna adeguarsi ai ritmi forsennati delle loro corse sfrenate. Senza un attimo di tregua il tessuto narrativo che racchiude la storia si dipana infatti a ritmi vertiginosi, rivelando luoghi e situazioni tragiche, un universo a tinte forti con accennate influenze grandguignolesche.
Già noto in Italia per molti suoi romanzi pubblicati da diverse case editrici, con La testa del negro Daniel Picouly offre un riuscito esempio di prosa del paradosso dove l’invito al lettore a spalancare gli occhi di fronte alle tragedie umane è tuttaltro che sussurrato.
Cristiano Felice
Nata come fumetto di successo, esce ora in versione raccontata La testa del negro di Daniel Picouly, opera in cui si narrano le avventure strampalate della coppia Ed Becchino e Cassamortaro Jones nella Parigi post rivoluzionaria della fine del XVIII secolo. Il racconto, tradotto da Giampaolo Vincenzi, fa parte della collana « Racconti d’autore » pubblicata dalla coraggiosa cada editrice Giulio Perrone Editore di Roma.
Senza addentrarci nell’indagine all’interno dei percorsi mentali battuti dal traduttore fino alla scelta del titolo (a tale scopo si rimanda all’"Intovinello di Verona" scoperto dallo Schiapparelli nel 1924), è opportuno innanzitutto affermare che La testa del negro è un racconto gradevole proprio per l’alto contenuto di assurdità e giochi linguistici, per il “plot” avvolgente e ordinato da un’estenuante caoticità, per i perfetti tempi di intervento e di inserimento dei personaggi che concorrono alla costruzione di un tessuto narrativo arabescato e dalle mille sfumature.
Sarebbe troppo comodo soffermarsi sui vorticosi ritmi che sostengono tutto il racconto e quindi chi scrive preferisce spendere qualche riga su un tema che ricorre nell’opera e da sempre è stato soggetto di interesse in ambito di critica e analisi letteraria: la descrizione della città, in questo caso la Parigi ai tempi della rivoluzione francese. Aldilà della genialità di Picouly nell’inserire i protagonisti all’interno di luoghi che rimandano ad altri siti (il quartiere di Haarlem) e di denominazioni che ricordano altre organizzazioni toponomastiche, decisamente più moderne (l’indicazione delle vie decisamente più newyorkese che parigina), quello che colpisce è l’immagine di una città che apre le sue ferite agli occhi dell’osservatore. Parigi non è la New York caotica e sfuggente descritta da Edgar Allan Poe in The man of the crowd, né la Londra che oscura i buoni sentimenti di molte opere di Charles Dickens. Non è nemmeno la stessa Parigi che Eugene Sue presenta con le sue tinte cupe nei suoi Mystères de Paris o quella che Victor Hugo descrive in Notre Dame de Paris, carica forse della stessa attività umana ma dai toni decisamente più tragici. La Parigi descritta in La testa del negro è decisamente una città dilaniata dalle tragedie e ridotta ad un degrado architettonico ed umano a livelli estremi. Tuttavia, forse per esorcizzare questo concentrato di malessere, Daniel Picouly rende la Parigi di Cassamortaro Jones e di Ed Becchino un elemento quasi organicamente partecipe di tutti i mali che avvengono sulla sua superfice. L’ironia delle descrizioni costituisce un elemento di fondamentale importanza per permettere alla città di mostrare senza remore e pudori le sue piaghe, spalancandole letteralmente davanti al lettore/osservatore. Questi non ha bisogno di cercare chiavi nascoste per decodificare i suoi significati più reconditi o svelare i suoi misteri ancestrali. I segreti infatti si possono cogliere solo seguendo i protagonisti nella loro solo apparentemente bizzarra avventura. Per farlo però bisogna adeguarsi ai ritmi forsennati delle loro corse sfrenate. Senza un attimo di tregua il tessuto narrativo che racchiude la storia si dipana infatti a ritmi vertiginosi, rivelando luoghi e situazioni tragiche, un universo a tinte forti con accennate influenze grandguignolesche.
Già noto in Italia per molti suoi romanzi pubblicati da diverse case editrici, con La testa del negro Daniel Picouly offre un riuscito esempio di prosa del paradosso dove l’invito al lettore a spalancare gli occhi di fronte alle tragedie umane è tuttaltro che sussurrato.
Cristiano Felice
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