DI FIORELLA SANTONCINI
«Un tuffo nello ‘stile semplice’. Con
qualche impennata». Così l’autore presenta il suo romanzo, quasi a voler
apparire rassicurante, ma guai a lasciarsi illudere che semplicità in Alvino coincida con serenità. Senza alcun preambolo
propedeutico, il lettore viene aggredito da un essere indefinito, ma certamente
repellente, insieme alla protagonista, e scaraventato nel clima tragicamente
travagliato della storia, incalzato, senza respiro, fino alla fine. Ma si è
rapiti dal linguaggio: l’annunciata semplicità rende più accessibile e
decifrabile il pensiero di Alvino, ed è incantevole scoprire come ogni parola
sia essa stessa un concetto, un sassolino di una architettura estremamente
complessa ma niente affatto equivoca, né irrisolta o, tantomeno, traballante.
Sconcertante, questo sì, ma d’acchito, come quando si legge: «La logica è la
guazza degli stolti, ricordi? Uno: spezzare le sinapsi; due: crearne di nuove;
tre: la via della verità è un filo d’aria cui solo ai folli è dato aggrapparsi.
Le più antiche, le più salde e luminose delle nostre idiozie, i fari di
sempre»: perché a rifletterci si estrae il nocciolo: «la via della verità è un
filo d’aria cui solo ai folli è dato aggrapparsi». Ed è questo uno dei
fondamenti dell’edificio alviniano.
Questo “stile semplice” è in realtà una
continua invenzione, stupefacente per la capacità di raccontare il banale o l’assurdo
con la stessa efficacia della tanto amata «parola verticale», cosicché alla “parola
normale” viene conferita una nobiltà, una forza espressiva e una estrosa
originalità, inaudite. Accompagnata dal ritmo. Che in Alvino non ha mai
cedimenti, sia che scriva poesie o romanzi; quel ritmo che riecheggia la
prosodia dei classici antichi, evoluto a nuovo stile, nuovo e addirittura
contenente i germi del futuribile.
Autofaga, autofaga e masochista è la protagonista
di questo romanzo, guidata allo sbaraglio da turbe mentali che sfociano nelle
psicosi più impensabili e divoratrici, come un’anoressia tanto ostinata da
diventare persecutoria e da aggiungere visioni a quelle generate dalla mente in
disfacimento (il cibo come «schegge di granito»), disfacimento che Alvino
definisce con una felice espressione «emorragia del senso, riflusso della ragione».
Confesso che, leggendo, annotavo sul mio
taccuino le frasi più significative, più incantatrici, con l’intento di
citarle. Ho desistito: ogni pagina me ne forniva una di più, e praticamente,
proseguendo su quella strada, riscrivevo l’intero romanzo. È questa ricchezza
di sensi, significati, simbolismi, una ininterrotta cuccagna di trofei
filosofici, psicologici, antropologici, linguistici, che costituisce il fascino
coinvolgente, ipnotico della scrittura di Alvino. Che rischia di prevaricare l’interesse
del racconto. Ma vi si reimmerge rapidamente: sotto l’apparente caos dello
svolgersi della vicenda, Alvino non perde mai il filo e non lo fa perdere al
lettore. Che scopre affacciarsi alla scena, il critico mentre chiosa lo
scrittore: «… anche la lingua che uso nell’annotarli è quanto di più alieno dai
miei modi: stringatezza da codice a barre, armonie mai sentite, ritmi da
fracassare le ossa; sembrano catene di singhiozzi, martelli pneumatici nel
silicio» ed enuncia il potere o il limite della parola: «… si splende
attraverso il linguaggio, si acquista peso, identità, misura»; oppure: «… la
scrittura è impotente a scrollare il giogo, ma perché stende veli di muffa
proprio quando sembra toglierli».
Però la scrittura racconta egregiamente le
stazioni attraverso le quali la protagonista trascina il proprio calvario. La
paranoia che la induce a spiare tutto e tutti ossessivamente, per lei diventa uno
«Spiare» che «dà vita alla vita», e il suo modo naturale di approcciarsi al
mondo, attaccandosi dovunque e a chiunque come un geco, che in questo atto
assorbe, succhia («Vampiro avreste dovuto chiamarmi, non Geco») l’essenza di ciò a cui si attacca, diventa la somma
di tutto. (Noi, dunque, siamo il risultato dei nostri contatti).
Belli i riferimenti alla natura dell’arte: «non devo
far altro che pedinare un’idea nata chissà come e incarnarla in una forma il
più possibile organica, compiuta»; «L’arte
non può nuocere, neanche quando inneggia alla degenerazione, alla crudeltà, al
nulla»; «Modellare una frase è scolpire il pensiero»; «L’arte non ammette
falsità».
Sconcertante è l’abilità di Alvino
(probabilmente mutuata dalla sua esperienza di sceneggiatore cinematografico)
di incuneare una scena nella successiva, come in una sequenza cinematografica,
senza soluzione di continuità, e come in essa appaiano dal nulla figure che si
soffermano, recitano la loro parte e cedono il posto ad altri, allo stesso modo
in cui in un balletto si succedono sulla scena i componenti dell’insieme.
Silenziosi, mimano il loro pensiero, raccontano la loro storia attraverso le
azioni che compiono nel lasso di tempo della loro presenza, e spariscono, per
ritornare talvolta e di nuovo sparire, allo stesso modo. Ecco, una
rappresentazione coreutica, è questa la forma letteraria di Alvino. Alvino che
rivela l’umiltà della sua natura quando, professorale, insegna: «Basta poco a
far tornare la pace: non credersi il centro del mondo». E l’uso costante dell’indicativo
presente sembra suggerire un’ipotesi di illusione: se tutto è solo presente,
senza passato cioè senza storia, senza futuro cioè senza speranza, tutto è
illusorio, come la “filosofia dei sogni” aveva già preconizzato. E allora si
ritorna a quella frase incontrata all’inizio: «la via della verità è un filo d’aria
cui solo ai folli è dato aggrapparsi», e ci si chiede se non sia questo il
cardine, l’eterno tormento dell’uomo e dell’artista.
Talmente ipnotica è la lettura che d’improvviso,
come in un brusco risveglio, sembra di intravedere la ragione di tanto
coinvolgimento: Alvino gioca. Gioca a soggiogare il lettore, a sbalordirlo, in
una sfida che è lui a condurre fin dall’inizio. Il lettore, impercettibilmente
ma vorticosamente, si lascia avvincere, condurre sempre più nel profondo finché
la rete, tesa dal maestro prestigiatore, si chiude senza scampo. L’esame di
idoneità, di tenacia, di fiducia cieca. Lo fa dire al suo personaggio, ma
potrebbe essere lui, il Maestro, a chiedere: «Sei alla mia altezza»? La partita
a poker, come metafora di questo gioco che ha come “piatto” la conoscenza.
Forse tutto è un parto fantastico, una cavalcata della fantasia a briglia
sciolta, un incrocio di sogni, appunti, schizzi della memoria, lampi di vita
vissuta… un pretesto? Per sciorinare la bellezza della forma di quella lingua che
è, di Alvino, la religione.