Un mattone
dietro l’altro [another brick in the wall, roba vecchia] le maestranze hanno
eretto muri portanti, collegamento tra fondamenta della tradizione e proiezione
verticale del grattacielo, seguendo le leggi della fisica, il filo a piombo,
maneggiando cazzuole e secchi colmi di malta/cemento. Hanno sudato fatiche
evaporanti, canottiere che incorniciano petti villosi sono zuppe ormai.
Intrise, meglio. Verranno strizzate e lavate l’ennesima volta, ma la loro
destinazione d’uso non cambierà nel futuro prossimo e nemmeno nell’anteriore.
Meglio intrise, simbolo d’appartenenza a categorie tutto sommato immutabili
procedendo nello spaziotempo.
«Capisci adesso
perché detesto i romanzi con un costrutto? Le storie potenti, parafrasabili,
forzate su tragitti unici, dritti? E perché ho sempre preferito la più futile
delle divagazioni alla scena madre, il timbro al significato…»
Il geco.
Cammina su
pareti perfettamente ortogonali da quando il laser. Ma non si cura della
propria capacità di rimanere aggrappato con forza soverchiante i venti
dell’uragano. Gliene fotte zero, per dirla con. Provando ad intervistarne uno
si può farsene ragione. Di aver capito male, s’intende.
I nuovi romanzi
si scrivono in sei righe, in mezzo secondo, rincorrendo l’immediatezza, l’istantaneità
non programmata o programmabile. E come è possibile invertire il percorso e
vomitare pagine e pagine di prepostfazione [prepotentfazione] all’opera in sei
righe? Cui prodest? Come allungare con acqua di rubinetto un’ottima zuppa dopo
aver accolto un numero spropositato di commensali in più [peraltro di pessimo
palato]. Per non lasciarli a bocca asciutta, che non fa bello e neanche
educato.
Come chiedere al
geco di snocciolare in compitino scritto su fogli di carta millimetrata le
leggi a governo dello stare in piedi del muro cui è aggrappato.
Qui il punto. E
l’a-capo.
Al geco non
serve indicazione di coordinate tridimensionali per muoversi su piani
intersecati [pensa l’angolo in alto, dove le pareti incontrano il soffitto
spiovente e gli assi XYZ si trafiggono a vicenda], non è dotato di bussola
esterna da consultare ma di bussola interna istintiva. Solo l’occhio alieno
percepisce il suo poter camminare sottosopra, a caccia di farfalle meglio se
notturne. Falene et similia. Ogni sottosopra in fondo è relativo.
Geco non si può
leggere, la tentazione è altrimenti quella di ridurlo ad unum. Bisogna
accendere la luce d’amblée e guardarsi intorno un attimo solo per non turbare
la creatura. Poi spegnere. D’altronde quegli enormi occhi servono proprio a
vedere chiaramente nell’oscurità di sensi nonsensi, di metriche defunte e
costruzioni artificiali contro l’artificio letterario. Anche a vedere
chiaramente oltre la morale borghese del potervi costruire sopra un intervento
critico lineare [another brick in
the wall, again. Lavoro per manovalanze non specializzate].
Ora basta. Le
sei righe passate da mò.
Scende la notte,
i gechi si preparano ad altro [e diversissimo dal precedente] ciclo, il loro nuovo giorno. Che essendo notte per gli altri, è
sicuramente avanti di molte ore.
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