Trovarsi di fronte alla morte senza niente da dire a riguardo.
Trovarsi di fronte a dio senza domande da porre.
Quello che Bernardo de Angelis propone nel suo “La cottura del pane” è un viaggio che nella stessa capsula spaziotemporale tiene insieme materia e antimateria, umano e divino, anima e corpo, fede ed esperienza del divenire quotidiano.
C’è una nudità che cerca di spogliarsi ulteriormente, continuamente, che afferma ad alta voce quanto la purezza sia il traguardo di un percorso e non un temporaneo stato di grazia infantile.
C’è consapevolezza ma sono bagliori (come è giusto), meditazione che può essere turbata dalla visione di un seno, spirito che non dimentica la carne celebrando un’ascesi forzosa e forzata.
De Angelis non cerca la decontaminazione soggettiva, cerca la coniugazione universale tra cielo e terra trovandosi intrappolato nel mezzo, spesso con le spalle al muro, in una dimensione fluttuante che è il miglior terreno poetico per l’indagine della natura umana (e divina).
L’apparente semplicità del cuocere il pane nasconde un’energia enorme che si trasmette immediatamente come il calore del forno ai polpastrelli incauti e a tratti le pagine scottano, lasciano bolle da ustione nei pensieri che dalla notte dei tempi vorticano dentro ognuno di noi. De Angelis ha scelto di affrontarli con apocalittica pazienza, di usare i gesti come countodwn verso il grande giorno, di non finire sepolto dalla frenesia del mondo moderno e continuare il proprio cammino. Solitario, come altrimenti non potrebbe essere, anche se il prezzo da pagare è alto, altissimo, lasciando che tutto si perda meno il nome di dio.
Il nome di dio e la poesia.
Il picco di intensità mistica genera il picco di intensità artistica, e nascono versi senza titolo, come francescani scalzi e coperti dal saio di iuta.
Versi che pesano di una semplicità sconfortante e non lasciano scampo, non c’è modo di rifugiarsi in una pianura senza alberi però è possibile rendersi conto delle proporzioni di sé, ricalibrare l’ego in funzione del prossimo, del tutto e dell’assoluto.
Ma non è affatto semplice la relazione con dio, non si risolve in immanenza opposta a consunzione, è anzi pervasa di questioni e sensazioni che hanno necessità di essere rappresentate ai simili, senza intento didattico – “non so spiegarvelo il mondo”- bensì divulgativo. Non è previsto feedback, non ci sono dibattiti da aprire o ragioni da comporre, non ci sono neanche verità da scovare tra le righe, De Angelis (missionario idente) cammina sulle stesse strade che ogni giorno ci portano agli uffici, alle case, ai luoghi dello svago ma non partecipa al rinfresco, sa essere vuoto, rimanere all’interno della bolla che lo protegge e da cui può vedere “anche Cristi afferrare i polsi ai perduti”. La sua calma è affollatissima, brulica come un dipinto di Pollok tanto che la silloge appare come un unico grande mantra senza capo né coda –un rosario circolare- fondamentale per rimanere concentrato ed evitare le distrazioni, per non avere luogo stabile dove posare il capo quando un altro giorno finisce.
“Perché stanotte le ore erano quiete? Ho paura d’una pace ingiusta”.
Non c’è pausa nella ricerca, la quiete –anche un solo attimo- è mancanza di dialogo con dio, è paura di rimanere davvero solo, di trovarsi all’improvviso ad aver inseguito una chimera e bruciato un’esistenza.
È impaziente De Angelis, la sua poesia è un catalizzatore di eternità, un acceleratore della lievitazione che gonfia l’impasto fino alla tangenza celeste, mentre la vita terrestre scorre.
Lorenzo Pezzato
B. de Angelis -La cottura del pane, Lombar Key 2010
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