Sebastiano Nata
Il valore dei giorni
Milano, Feltrinelli, 2010, pp. 251, € 16,00.
Matteo Nucci
Sono comuni le cose degli amici
Milano, Ponte alle Grazie, 2009, pp. 219, € 14,50.
Che vorrà dirci Nata in questo racconto a tesi fuor di misura (il termine romanzo sarebbe, come vedremo, affatto inappropriato)? Che il denaro è una finzione sociale? Che nelle grandi multinazionali «contano solo le cifre» e tutti son «pronti a colpire, prevalere sulla concorrenza, conquistare nuovi spazi di mercato»? Che non vale la pena consacrarsi interamente al lavoro e sarebbe certo miglior consiglio vivere secondo regole proprie, «non imposte dagli altri»? Che le «corporation» sono «strutture amorali» perché considerano la massimizzazione del profitto «il metro di giudizio per ogni scelta, lo scopo finale, la legge sacra, l’unica religione»? Che tutti dovremmo trovare il tempo per «fare ginnastica o del nuoto, con regolarità» anziché dissipare i giorni e il loro valore «fra il lavoro e i viaggi»? Tante grazie, verrebbe da dire. Ma la questione è assai più delicata di quanto paia, e nessun momento più adatto del presente per aggredirla di petto. Il quesito da porsi è: basta così poco, può davvero bastare un mannello di frusti stereotipi come questi (ma il discorso è ovviamente generalizzabile) per fare il romanzo? La risposta di chi crede che il vero contenuto, l’unica sostanza dell’arte alberghi sempre e soltanto nella forma e nel modo di forgiarla, è sì: basta e avanza. Ma a queste condizioni: che il testo, nonché procedere rabdomanticamente o per forza d’inerzia, centri il bersaglio e scocchi sorprese ad ogni snodo; che la lingua guizzi e deragli senza posa impegnando il lettore in una continua cooperazione, non meno creativa e determinante del lavoro autoriale; che la trama non consista nel mero grafico d’un concetto da inverare a tutti i costi e ogni pur minimo elemento svolga un ruolo preciso, insostituibile, assolutamente necessario all’economia dell’insieme. Perché il luogo dell’invenzione narrativa, diversamente da quanto si dica, è non già il macro, ossia il plot e la polpa del pensiero sotteso (se così fosse, La critica della ragion pura o L’origine delle specie sarebbero oggetti estetici di gran lusso e, per converso, Murphy o Dans le labyrinthe non più intensi e profondi d’un elenco telefonico), bensì il lessico, la sintassi, il ritmo, i nessi tra le parole e il loro ordine, la tessitura dell’immagine, la capacità di dar pathos e anima a un gesto, a un dato paesistico, alla descrizione d’un volto o d’un interno, persino ai doppi spazî (qui rotondamente irrazionali, da copione cinematografico) e alla posizione di una virgola, dimodoché tutto concorra alla globale connotazione.
Ora, scontata l’esilità del plot e la disarmante angustia ideologica dell’opera (dopo la morte improvvisa del fratello Domenico — saggio e modesto commerciante d’infissi che conduce una vita «semplice e serena» a misura d’uomo — Marco, top manager al culmine della carriera come l’Autore, acquista coscienza del proprio deserto interiore, sente di avere «nelle vene una corrente diversa, magari quella che aveva Domenico, che aveva avuto suo padre», e si ribella alle leggi disumane della corporation apprestandosi alla palingenesi), l’unica speranza sarebbe il linguaggio e l’organizzazione formale; sta di fatto, però, che la scrittura di Nata, monocorde e del tutto priva d’inflessioni, non s’innalza d’una spanna sopra i limiti della decenza e dell’urbanità: impeccabile correttezza grammaticale (pregio non dappoco al giorno d’oggi), proprietà, esattezza lessicale, gusto della variatio (salvo rarissime eccezioni: «Avvertì una leggera avvisaglia»), ma nessun guizzo, mai uno scatto inventivo, una sorpresa. Tutto viaggia all’insegna del déjà dit e del prevedibile («Marco udiva il rumore dei tacchi sulle piastrelle del corridoio. Man mano che Isabella si allontanava, il suono diveniva più lieve» [mancherebbe sol-tanto che, allontanandosi la fonte di un rumore, questo divenisse via via più grave], e cfr. uno dei tanti pseudopirandellismi: «Già, ma quale vita? Quella che vedono gli altri, o la nostra, quella che noi sappiamo essere la nostra vita?»), ma soprattutto del calligrafico, dell’eccedente, e si dica pure dell’additivo, l’unico modo per allungare il brodo e dilatare a misura romanzesca una materia tanto scarsa e rada da poter alimentare a stento una novella: «Domenico diede un lungo tiro alla sigaretta e buttò fuori il fumo dalle narici, subito disperso dal vento», «Aprì il frigorifero, prese una bottiglia, si versò l’acqua in un bicchiere di plastica e bevve un sorso. Inserì la cialda nella macchina per l’espresso, spinse un bottone, attese che il caffè gocciolasse nella tazzina, vi aggiunse pochissimo zucchero e bevve. Con soddisfazione riconobbe che era zuccherato al punto giusto. Mise la tazzina vuota nel lavello e finì l’acqua minerale nel bicchiere», «L’hotel era vicinissimo agli uffici della sua azienda e lui percorse il breve tragitto guardando a terra per evitare di mettere i piedi in qualche pozzanghera. Aveva scarpe estive, con suole di cuoio anziché di gomma, come sarebbe stato invece opportuno con quel tempo. Ogni volta che partiva per Waterloo, dove pioveva spesso, si domandava se doveva portarsi i soliti mocassini o le Church’s. Le Church’s non lasciavano passare l’acqua ma e-rano pesanti e facevano sudare il piede. Quella settimana aveva optato, sbagliando, per i mocassini», «Si alzò di nuovo, prese dal termoventilatore l’altro calzino e, visto che non era più bagnato, se lo infilò. […] Andò in bagno e accese la luce. Si sciacquò a lungo la faccia. Si tolse l’asciugamano che aveva in vita e se lo passò sul viso. Spense la luce. Uscì. In camera si infilò i calzoni antracite e subito si diresse verso il termoventilatore per prendere la scarpa. Era asciutta e calda. Se la mise, cercò l’altra che era finita sotto una poltrona e si mise anche quella»: tacciono all’appello soltanto la forma e il peso della poltrona, il colore dell’interruttore, le dimensioni del termoventilatore e l’odore delle scarpe.
«Uno degli esordi più attesi dell’anno» urla dalla fascetta editoriale Gabriele Pedullà, il cui gran padre, in tandem con Renato Minore, candida nientemeno che allo Strega — il premio più prestigioso e meno chiacchierato del mondo — quest’opera prima di Matteo Nucci, filosofo e studioso di cultura classica. Qual meraviglia se di sùbito ardemmo? Per, ahinoi, di sùbito accorgerci con sommo stupore che Sono comuni le cose degli amici (il titolo, tratto da Platone, non ha nulla a che spartire col narrato) è sostanzialmente un clone del Valore dei giorni. Come quello, infatti, vorrebbe essere un Bildungsroman ed ha per evento centrale e scatenante una morte, qui del padre, là di un fratello: «Una perdita», spiega l’Autore in un’intervista, che pone il protagonista «di fronte a una serie di dilemmi tra i quali il principale è: seguire o no le orme di questo padre dalla personalità a dir poco ingombrante»: crapulone, donnaiolo, ma disperatamente solo, come nel giorno del suo funerale.
Stessa bonaccia, eguale uniformità e mancanza d’accenti, che pochi spruzzi d’atroce paratassi — da taluno definita a sproposito hemingwaiana —, una violenta bestemmia e qualche acido dialettal-turpiloquiale non valgono a minimamente increspare: «E certo, nessuno ci andava, ’sti poveri coglioni. So’ andato io, te credo: ’na scopata gratis!»; «E allora rispondimi porcoddio».
Identica urbanità formale e precisione nominativa, forse appena più accusata in Nucci per la sua solida educazione classica che traspare evidente da ogni opzione linguistica, benché in entrambi i casi non si passi mai — per dirla in termini debenedettiani — dalla lavorazione all’opera.
Ma anche qui straripanti masse di descrizioni calligrafiche fuori squadra e destituite di qualunque funzionalità, con mansioni coloristiche o patentemente riempitive: «Si affacciò alla finestra. Il palazzo di fronte era attraversato da una linea diagonale d’ombra sull’intonaco giallastro sempre più scrostato, tutte le persiane chiuse tranne su una delle finestrelle minuscole dai vetri smerigliati dei bagni di servizio», «Infilò il tè nel pentolino dell’acqua bollente, mentre lui prendeva dal frigorifero il ghiaccio e lo passava sotto l’acqua corrente […]. Aprì un limone e ne infilò metà nello spremiagrumi metallico, abbassò la leva e tolse la metà spremuta e infilò l’altra, abbassò di nuovo la leva, tolse la cuccuma metallica dal fondo, e riversò il succo nel pentolino, girò mentre Lorenzo infilava gli ultimi due ghiaccioli che non si sciolsero immediatamente», «Schiacciò bene il caffè macinato nel braccetto metallico, lo inserì sotto alla bocchetta dell’acqua calda, diede una spinta forte verso sinistra eppoi, mentre il rumore partiva, si voltò».
Anche qui ovvietà e tòpoi sparsi a piene mani (si veda solo a quale sconcertante ingenuità s’impronti il j’accuse di Marco, l’amico d’infanzia cui il protagonista ha soffiato la ragazza: «Noi eravamo amici fin da bambini. Eravamo amici veri. Tutto abbiamo fatto insieme, ci siamo raccontati ogni cosa, abbiamo sofferto insieme. Passioni, studi, tutto. E come hai fatto?»).
E ancora le pleonastiche spaziature tipografiche — tecnicamente tagli — che nelle sceneggiature di lavoro separano un’inquadratura dall’altra.
Ma quel che distingue e rende più insoffribile l’opera del Nucci è l’annodatura poco meno che casuale dei fatti, la scarsa nitidezza dei moti convettivi del racconto, e soprattutto la sovrana insensatezza degl’inserti dialogici, che vorremmo definire beckettiani, non fossero completamente svuotati d’ogni sostanza drammaturgica e scopo estetico:
«Lorenzo».
«Sì».
«Non russare, per favore».
«No».
«Sei ubriaco fradicio, russerai di sicuro, mio dio».
«Be’ se capita, lo sai, basta che mi giri un po’» fece lui.
«Ma cerca di non russare».
«Non dipende da me».
«Se bevessi di meno».
[…]
«Buongiorno» gli disse, «come stai?»
«Meglio».
«Ma ti sei alzato e ti sei rimesso a dormire».
«Come?»
«Ho visto il cornetto, grazie».
«Sì».
«Ti eri svegliato?»
«Be’, non proprio».
«Eri veramente ubriaco eh?»
«Abbastanza».
«Dio se hai russato».
«Io?»
«Certo, tu».
«Ma ora, solo ora».
«No, no, tutta la notte».
Da «Le reti di Dedalus», giugno 2010.
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