Oltre al sonno e alla concentrazione ci sono anche altre cose che non sono state dette a nessuno.
Giornate intere che scompaiono, e brevi attimi che diventano un’eternità.
(Peter Høeg)
Giornate intere che scompaiono, e brevi attimi che diventano un’eternità.
(Peter Høeg)
lunedì 28 giugno 2010
ARCIETERO
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sabato 19 giugno 2010
martedì 15 giugno 2010
OUTLET SUMMER BOOK
UN'IMPERDIBILE OFFERTA DI LETTURA PER LA TUA ESTATE!
Se acquisti una copia del libro di Francesco Randazzo "Con l'insistenza di un richiamo", per la tua estate di lettore Lupo Editore offre uno sconto del 50% (€ 5) e in più ti regala un racconto inedito dell'autore in ebook!
Ordina il libro direttamente dall'editore ( ordini@lupoeditore.com ), fatti una foto mostrando la copertina e inviala a:ebook.randazzo.mail@gmail.com , metteremo on line una galleria di lettori.
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Buona lettura, buona estate e buon gioco a tutti.
Il sito del libro: http://conlinsistenzadiunrichiamo.blogspot.com
Il sito dell'editore: http://www.lupoeditore.com
L'OFFERTA È VALIDA SOLO PER ORDINI DIRETTI ALL'EDITORE, FINO AD ESAURIMENTO DELLE COPIE.
Dalla rassegna stampa del libro:
Un libro a tinte forti, agghiacciante e coinvolgente. Consigliato a chi è stanco di leggere "di cuori mocciolosi nel tempo degli orrori".
(40parallelo.it)
... un bad trip nazional-popolare, narrato facendo ricorso quasi esclusivamente - e con coerenza - alla prima persona, una prima persona malata, ridondante, allucinata.
(Angelo Orlando Meloni - Libridine)
Non si può raccontare, questo libricino che davvero diverte, e insieme fa pensare senza importelo: bisogna leggerlo, e non è uno sforzo, perché, lo ripeto, è scritto con un lessico famigliare che non l’appesantisce oltre i 30 grammi di carta con cui è fatto, dimostrando che si può parlare di tutto usando le parole come tessere da colorare a piacere.
Non chiamatelo pulp, perché pulp fa spesso rima con cool, e il cool questi racconti lo sbeffeggiano con l’acume concreto che ha chi non si fa abbagliare dai lustrini della civiltà dell’immagine, e riesce ancora a cogliere la vera natura delle cose: leggetelo, e basta.
E poi, cercate di credere che sia solo fantasia. Provateci, almeno. Se volete riuscire a dormire.
(Stefano Donno - Silla Hicks)
... persone che sono mostri, per se stessi, o solo perché percepiti come tali dagli altri che poi saremmo noi, co-autori dei loro delitti, co-responsabili della loro follia, co-protagonisti della loro scena, complici, vittime, carnefici.
(Camillo Sanguedolce - Storie 100X100)
La raccolta edita dai tipi di Lupo conserva nel suo centinaio scarso di pagine brio e bollicine pulp pronte ad esplodere in faccia al lettore, il tutto condito da uno stile incisivo e scorrevole che non lascia molto spazio a fantasie e digressioni: ecco raffigurata in patinata e lucente presenza la strage di un presente storico privo di qualsiasi senso.
(Boris Borgato - Mangialibri)
Randazzo popola i suoi racconti di mostri. Mostri tanto tangibili, però, da instillare paura autentica nel lettore, se solo questi saprà riconoscere nei personaggi altri mostri, quelli che popolano non la narrativa, bensì le pagine della cronaca nera.
(Mauro Mirci - Parole di Sicilia)
Sei storie di solitudine, violente, che colpiscono all'improvviso come un pugno alla bocca dello stomaco, i protagonisti che vivono la loro alienazione nella ossessiva ripetitività di gesti senza senso e senza soluzione.
(Giancarlo Montalbini - Lettera.com)
Leggendo queste pagine non si può infine non notare l'altro personaggio principale, sempre presente, nella sua immensità e nelle sue bassezze: Roma, città eterna, sfondo perfetto per le vicende narrate e i suoi protagonisti. Da leggere per scoprire qualcosa di nuovo.
(Paola Bernasconi - Mondo Re@le)
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lunedì 14 giugno 2010
"L'ultimo" un racconto di Mauro Mirci
Sei tutto ricompreso nella tua solitudine stinta, inaridita, mentre rimesti con un dito una goccia d’acqua sulla vitrea superficie del tavolo e disegni ghirigori minimalistici. Il tuo campo visivo è limitato alla parete verde marcio che hai di fronte, movimentata solo dalle macchie d’umido e dai graffi impressi nell’intonaco.Sai che hai commesso un errore a venire qua, ma volevi sentire la gente, la vita che scorre, anche se devi accontentarti di raccoglierne l’eco riflessa sulla parete verde marcio di un locale della metropolitana aperto tutta la notte. Vorresti, ma eviti di guardare i pochi avventori che stanno alle tue spalle, perché hai paura che qualcuno di loro possa riconoscerti per quello che sei. Ma sai che potrebbero riconoscerti, o almeno sospettare, pur senza guardarti negli occhi, anche solo per quell’insistito ignorarli, e allora anche non rivolgere lo sguardo verso quella gente è un errore che potrebbe costarti caro. La tua sopravvivenza dipende dall’isolamento che sei riuscito a importi, razzolando ai margini della società, piluccandone le briciole, nascondendoti dietro ogni angolo. (...)
Continua a leggere su ParolediSicilia.it
giovedì 10 giugno 2010
Sono una mente fragile e malata
Prenderla nel culo non fa poi così male
Questione d'abitudine superato l'impatto
Non è neppure una cosa tanto strana
quel che ci vuole è solo condiscendenza
un respirone e vai Niente di trascendente
Anzi c'è chi giura sia persino piacevole
ed è per certo una fissa di molti machos
Questo ormai si sa Certo si dice poco
c'è sempre un certo riserbo nell'ammetterlo
Si vede bene in giro Ci stiamo abituando
La vera difficoltà però è proprio un'altra
Muoversi con quello che ci schiaffano
tra le natiche è oltremodo fastidioso
Finché stai fermo basta non pensarci
non appena cerchi di spostarti e andare
la cosa si fa veramente problematica
Correre non ne parliamo nemmeno
Mi scuso per la volgarità Perdonerete
Sono una mente fragile e malata
non penso alle pistole no ma c'ho
il terrore dei manganelli tra le chiappe
alla lunga ci s'abitua e si resta impalati
© Francesco Randazzo - 2010
mercoledì 9 giugno 2010
Se pure non lo sai
Se pure non lo sai
cosa vuol dire ama
la libertà
Non credere
sia facile cosa
Non credere sia solo tua
Lasciala
andare dappertutto
Così soltanto
vive davvero
Sa regolarsi sai
Lei sa dividersi
in ognuno
senza tradire
Non s'appaga
d'essere abusata
e si frantuma
quando la costringi
Se pure non lo sai
lei sa di te
la togli ad uno solo
e ti sparisce
Non te n'accorgi
e già sei privo
anche solo di pensare
quel che non c'è più
© Francesco Randazzo - 2010
martedì 8 giugno 2010
Gualberto Alvino. Petits riens
Sebastiano Nata
Il valore dei giorni
Milano, Feltrinelli, 2010, pp. 251, € 16,00.
Matteo Nucci
Sono comuni le cose degli amici
Milano, Ponte alle Grazie, 2009, pp. 219, € 14,50.
Che vorrà dirci Nata in questo racconto a tesi fuor di misura (il termine romanzo sarebbe, come vedremo, affatto inappropriato)? Che il denaro è una finzione sociale? Che nelle grandi multinazionali «contano solo le cifre» e tutti son «pronti a colpire, prevalere sulla concorrenza, conquistare nuovi spazi di mercato»? Che non vale la pena consacrarsi interamente al lavoro e sarebbe certo miglior consiglio vivere secondo regole proprie, «non imposte dagli altri»? Che le «corporation» sono «strutture amorali» perché considerano la massimizzazione del profitto «il metro di giudizio per ogni scelta, lo scopo finale, la legge sacra, l’unica religione»? Che tutti dovremmo trovare il tempo per «fare ginnastica o del nuoto, con regolarità» anziché dissipare i giorni e il loro valore «fra il lavoro e i viaggi»? Tante grazie, verrebbe da dire. Ma la questione è assai più delicata di quanto paia, e nessun momento più adatto del presente per aggredirla di petto. Il quesito da porsi è: basta così poco, può davvero bastare un mannello di frusti stereotipi come questi (ma il discorso è ovviamente generalizzabile) per fare il romanzo? La risposta di chi crede che il vero contenuto, l’unica sostanza dell’arte alberghi sempre e soltanto nella forma e nel modo di forgiarla, è sì: basta e avanza. Ma a queste condizioni: che il testo, nonché procedere rabdomanticamente o per forza d’inerzia, centri il bersaglio e scocchi sorprese ad ogni snodo; che la lingua guizzi e deragli senza posa impegnando il lettore in una continua cooperazione, non meno creativa e determinante del lavoro autoriale; che la trama non consista nel mero grafico d’un concetto da inverare a tutti i costi e ogni pur minimo elemento svolga un ruolo preciso, insostituibile, assolutamente necessario all’economia dell’insieme. Perché il luogo dell’invenzione narrativa, diversamente da quanto si dica, è non già il macro, ossia il plot e la polpa del pensiero sotteso (se così fosse, La critica della ragion pura o L’origine delle specie sarebbero oggetti estetici di gran lusso e, per converso, Murphy o Dans le labyrinthe non più intensi e profondi d’un elenco telefonico), bensì il lessico, la sintassi, il ritmo, i nessi tra le parole e il loro ordine, la tessitura dell’immagine, la capacità di dar pathos e anima a un gesto, a un dato paesistico, alla descrizione d’un volto o d’un interno, persino ai doppi spazî (qui rotondamente irrazionali, da copione cinematografico) e alla posizione di una virgola, dimodoché tutto concorra alla globale connotazione.
Ora, scontata l’esilità del plot e la disarmante angustia ideologica dell’opera (dopo la morte improvvisa del fratello Domenico — saggio e modesto commerciante d’infissi che conduce una vita «semplice e serena» a misura d’uomo — Marco, top manager al culmine della carriera come l’Autore, acquista coscienza del proprio deserto interiore, sente di avere «nelle vene una corrente diversa, magari quella che aveva Domenico, che aveva avuto suo padre», e si ribella alle leggi disumane della corporation apprestandosi alla palingenesi), l’unica speranza sarebbe il linguaggio e l’organizzazione formale; sta di fatto, però, che la scrittura di Nata, monocorde e del tutto priva d’inflessioni, non s’innalza d’una spanna sopra i limiti della decenza e dell’urbanità: impeccabile correttezza grammaticale (pregio non dappoco al giorno d’oggi), proprietà, esattezza lessicale, gusto della variatio (salvo rarissime eccezioni: «Avvertì una leggera avvisaglia»), ma nessun guizzo, mai uno scatto inventivo, una sorpresa. Tutto viaggia all’insegna del déjà dit e del prevedibile («Marco udiva il rumore dei tacchi sulle piastrelle del corridoio. Man mano che Isabella si allontanava, il suono diveniva più lieve» [mancherebbe sol-tanto che, allontanandosi la fonte di un rumore, questo divenisse via via più grave], e cfr. uno dei tanti pseudopirandellismi: «Già, ma quale vita? Quella che vedono gli altri, o la nostra, quella che noi sappiamo essere la nostra vita?»), ma soprattutto del calligrafico, dell’eccedente, e si dica pure dell’additivo, l’unico modo per allungare il brodo e dilatare a misura romanzesca una materia tanto scarsa e rada da poter alimentare a stento una novella: «Domenico diede un lungo tiro alla sigaretta e buttò fuori il fumo dalle narici, subito disperso dal vento», «Aprì il frigorifero, prese una bottiglia, si versò l’acqua in un bicchiere di plastica e bevve un sorso. Inserì la cialda nella macchina per l’espresso, spinse un bottone, attese che il caffè gocciolasse nella tazzina, vi aggiunse pochissimo zucchero e bevve. Con soddisfazione riconobbe che era zuccherato al punto giusto. Mise la tazzina vuota nel lavello e finì l’acqua minerale nel bicchiere», «L’hotel era vicinissimo agli uffici della sua azienda e lui percorse il breve tragitto guardando a terra per evitare di mettere i piedi in qualche pozzanghera. Aveva scarpe estive, con suole di cuoio anziché di gomma, come sarebbe stato invece opportuno con quel tempo. Ogni volta che partiva per Waterloo, dove pioveva spesso, si domandava se doveva portarsi i soliti mocassini o le Church’s. Le Church’s non lasciavano passare l’acqua ma e-rano pesanti e facevano sudare il piede. Quella settimana aveva optato, sbagliando, per i mocassini», «Si alzò di nuovo, prese dal termoventilatore l’altro calzino e, visto che non era più bagnato, se lo infilò. […] Andò in bagno e accese la luce. Si sciacquò a lungo la faccia. Si tolse l’asciugamano che aveva in vita e se lo passò sul viso. Spense la luce. Uscì. In camera si infilò i calzoni antracite e subito si diresse verso il termoventilatore per prendere la scarpa. Era asciutta e calda. Se la mise, cercò l’altra che era finita sotto una poltrona e si mise anche quella»: tacciono all’appello soltanto la forma e il peso della poltrona, il colore dell’interruttore, le dimensioni del termoventilatore e l’odore delle scarpe.
«Uno degli esordi più attesi dell’anno» urla dalla fascetta editoriale Gabriele Pedullà, il cui gran padre, in tandem con Renato Minore, candida nientemeno che allo Strega — il premio più prestigioso e meno chiacchierato del mondo — quest’opera prima di Matteo Nucci, filosofo e studioso di cultura classica. Qual meraviglia se di sùbito ardemmo? Per, ahinoi, di sùbito accorgerci con sommo stupore che Sono comuni le cose degli amici (il titolo, tratto da Platone, non ha nulla a che spartire col narrato) è sostanzialmente un clone del Valore dei giorni. Come quello, infatti, vorrebbe essere un Bildungsroman ed ha per evento centrale e scatenante una morte, qui del padre, là di un fratello: «Una perdita», spiega l’Autore in un’intervista, che pone il protagonista «di fronte a una serie di dilemmi tra i quali il principale è: seguire o no le orme di questo padre dalla personalità a dir poco ingombrante»: crapulone, donnaiolo, ma disperatamente solo, come nel giorno del suo funerale.
Stessa bonaccia, eguale uniformità e mancanza d’accenti, che pochi spruzzi d’atroce paratassi — da taluno definita a sproposito hemingwaiana —, una violenta bestemmia e qualche acido dialettal-turpiloquiale non valgono a minimamente increspare: «E certo, nessuno ci andava, ’sti poveri coglioni. So’ andato io, te credo: ’na scopata gratis!»; «E allora rispondimi porcoddio».
Identica urbanità formale e precisione nominativa, forse appena più accusata in Nucci per la sua solida educazione classica che traspare evidente da ogni opzione linguistica, benché in entrambi i casi non si passi mai — per dirla in termini debenedettiani — dalla lavorazione all’opera.
Ma anche qui straripanti masse di descrizioni calligrafiche fuori squadra e destituite di qualunque funzionalità, con mansioni coloristiche o patentemente riempitive: «Si affacciò alla finestra. Il palazzo di fronte era attraversato da una linea diagonale d’ombra sull’intonaco giallastro sempre più scrostato, tutte le persiane chiuse tranne su una delle finestrelle minuscole dai vetri smerigliati dei bagni di servizio», «Infilò il tè nel pentolino dell’acqua bollente, mentre lui prendeva dal frigorifero il ghiaccio e lo passava sotto l’acqua corrente […]. Aprì un limone e ne infilò metà nello spremiagrumi metallico, abbassò la leva e tolse la metà spremuta e infilò l’altra, abbassò di nuovo la leva, tolse la cuccuma metallica dal fondo, e riversò il succo nel pentolino, girò mentre Lorenzo infilava gli ultimi due ghiaccioli che non si sciolsero immediatamente», «Schiacciò bene il caffè macinato nel braccetto metallico, lo inserì sotto alla bocchetta dell’acqua calda, diede una spinta forte verso sinistra eppoi, mentre il rumore partiva, si voltò».
Anche qui ovvietà e tòpoi sparsi a piene mani (si veda solo a quale sconcertante ingenuità s’impronti il j’accuse di Marco, l’amico d’infanzia cui il protagonista ha soffiato la ragazza: «Noi eravamo amici fin da bambini. Eravamo amici veri. Tutto abbiamo fatto insieme, ci siamo raccontati ogni cosa, abbiamo sofferto insieme. Passioni, studi, tutto. E come hai fatto?»).
E ancora le pleonastiche spaziature tipografiche — tecnicamente tagli — che nelle sceneggiature di lavoro separano un’inquadratura dall’altra.
Ma quel che distingue e rende più insoffribile l’opera del Nucci è l’annodatura poco meno che casuale dei fatti, la scarsa nitidezza dei moti convettivi del racconto, e soprattutto la sovrana insensatezza degl’inserti dialogici, che vorremmo definire beckettiani, non fossero completamente svuotati d’ogni sostanza drammaturgica e scopo estetico:
«Lorenzo».
«Sì».
«Non russare, per favore».
«No».
«Sei ubriaco fradicio, russerai di sicuro, mio dio».
«Be’ se capita, lo sai, basta che mi giri un po’» fece lui.
«Ma cerca di non russare».
«Non dipende da me».
«Se bevessi di meno».
[…]
«Buongiorno» gli disse, «come stai?»
«Meglio».
«Ma ti sei alzato e ti sei rimesso a dormire».
«Come?»
«Ho visto il cornetto, grazie».
«Sì».
«Ti eri svegliato?»
«Be’, non proprio».
«Eri veramente ubriaco eh?»
«Abbastanza».
«Dio se hai russato».
«Io?»
«Certo, tu».
«Ma ora, solo ora».
«No, no, tutta la notte».
Da «Le reti di Dedalus», giugno 2010.
Il valore dei giorni
Milano, Feltrinelli, 2010, pp. 251, € 16,00.
Matteo Nucci
Sono comuni le cose degli amici
Milano, Ponte alle Grazie, 2009, pp. 219, € 14,50.
Che vorrà dirci Nata in questo racconto a tesi fuor di misura (il termine romanzo sarebbe, come vedremo, affatto inappropriato)? Che il denaro è una finzione sociale? Che nelle grandi multinazionali «contano solo le cifre» e tutti son «pronti a colpire, prevalere sulla concorrenza, conquistare nuovi spazi di mercato»? Che non vale la pena consacrarsi interamente al lavoro e sarebbe certo miglior consiglio vivere secondo regole proprie, «non imposte dagli altri»? Che le «corporation» sono «strutture amorali» perché considerano la massimizzazione del profitto «il metro di giudizio per ogni scelta, lo scopo finale, la legge sacra, l’unica religione»? Che tutti dovremmo trovare il tempo per «fare ginnastica o del nuoto, con regolarità» anziché dissipare i giorni e il loro valore «fra il lavoro e i viaggi»? Tante grazie, verrebbe da dire. Ma la questione è assai più delicata di quanto paia, e nessun momento più adatto del presente per aggredirla di petto. Il quesito da porsi è: basta così poco, può davvero bastare un mannello di frusti stereotipi come questi (ma il discorso è ovviamente generalizzabile) per fare il romanzo? La risposta di chi crede che il vero contenuto, l’unica sostanza dell’arte alberghi sempre e soltanto nella forma e nel modo di forgiarla, è sì: basta e avanza. Ma a queste condizioni: che il testo, nonché procedere rabdomanticamente o per forza d’inerzia, centri il bersaglio e scocchi sorprese ad ogni snodo; che la lingua guizzi e deragli senza posa impegnando il lettore in una continua cooperazione, non meno creativa e determinante del lavoro autoriale; che la trama non consista nel mero grafico d’un concetto da inverare a tutti i costi e ogni pur minimo elemento svolga un ruolo preciso, insostituibile, assolutamente necessario all’economia dell’insieme. Perché il luogo dell’invenzione narrativa, diversamente da quanto si dica, è non già il macro, ossia il plot e la polpa del pensiero sotteso (se così fosse, La critica della ragion pura o L’origine delle specie sarebbero oggetti estetici di gran lusso e, per converso, Murphy o Dans le labyrinthe non più intensi e profondi d’un elenco telefonico), bensì il lessico, la sintassi, il ritmo, i nessi tra le parole e il loro ordine, la tessitura dell’immagine, la capacità di dar pathos e anima a un gesto, a un dato paesistico, alla descrizione d’un volto o d’un interno, persino ai doppi spazî (qui rotondamente irrazionali, da copione cinematografico) e alla posizione di una virgola, dimodoché tutto concorra alla globale connotazione.
Ora, scontata l’esilità del plot e la disarmante angustia ideologica dell’opera (dopo la morte improvvisa del fratello Domenico — saggio e modesto commerciante d’infissi che conduce una vita «semplice e serena» a misura d’uomo — Marco, top manager al culmine della carriera come l’Autore, acquista coscienza del proprio deserto interiore, sente di avere «nelle vene una corrente diversa, magari quella che aveva Domenico, che aveva avuto suo padre», e si ribella alle leggi disumane della corporation apprestandosi alla palingenesi), l’unica speranza sarebbe il linguaggio e l’organizzazione formale; sta di fatto, però, che la scrittura di Nata, monocorde e del tutto priva d’inflessioni, non s’innalza d’una spanna sopra i limiti della decenza e dell’urbanità: impeccabile correttezza grammaticale (pregio non dappoco al giorno d’oggi), proprietà, esattezza lessicale, gusto della variatio (salvo rarissime eccezioni: «Avvertì una leggera avvisaglia»), ma nessun guizzo, mai uno scatto inventivo, una sorpresa. Tutto viaggia all’insegna del déjà dit e del prevedibile («Marco udiva il rumore dei tacchi sulle piastrelle del corridoio. Man mano che Isabella si allontanava, il suono diveniva più lieve» [mancherebbe sol-tanto che, allontanandosi la fonte di un rumore, questo divenisse via via più grave], e cfr. uno dei tanti pseudopirandellismi: «Già, ma quale vita? Quella che vedono gli altri, o la nostra, quella che noi sappiamo essere la nostra vita?»), ma soprattutto del calligrafico, dell’eccedente, e si dica pure dell’additivo, l’unico modo per allungare il brodo e dilatare a misura romanzesca una materia tanto scarsa e rada da poter alimentare a stento una novella: «Domenico diede un lungo tiro alla sigaretta e buttò fuori il fumo dalle narici, subito disperso dal vento», «Aprì il frigorifero, prese una bottiglia, si versò l’acqua in un bicchiere di plastica e bevve un sorso. Inserì la cialda nella macchina per l’espresso, spinse un bottone, attese che il caffè gocciolasse nella tazzina, vi aggiunse pochissimo zucchero e bevve. Con soddisfazione riconobbe che era zuccherato al punto giusto. Mise la tazzina vuota nel lavello e finì l’acqua minerale nel bicchiere», «L’hotel era vicinissimo agli uffici della sua azienda e lui percorse il breve tragitto guardando a terra per evitare di mettere i piedi in qualche pozzanghera. Aveva scarpe estive, con suole di cuoio anziché di gomma, come sarebbe stato invece opportuno con quel tempo. Ogni volta che partiva per Waterloo, dove pioveva spesso, si domandava se doveva portarsi i soliti mocassini o le Church’s. Le Church’s non lasciavano passare l’acqua ma e-rano pesanti e facevano sudare il piede. Quella settimana aveva optato, sbagliando, per i mocassini», «Si alzò di nuovo, prese dal termoventilatore l’altro calzino e, visto che non era più bagnato, se lo infilò. […] Andò in bagno e accese la luce. Si sciacquò a lungo la faccia. Si tolse l’asciugamano che aveva in vita e se lo passò sul viso. Spense la luce. Uscì. In camera si infilò i calzoni antracite e subito si diresse verso il termoventilatore per prendere la scarpa. Era asciutta e calda. Se la mise, cercò l’altra che era finita sotto una poltrona e si mise anche quella»: tacciono all’appello soltanto la forma e il peso della poltrona, il colore dell’interruttore, le dimensioni del termoventilatore e l’odore delle scarpe.
«Uno degli esordi più attesi dell’anno» urla dalla fascetta editoriale Gabriele Pedullà, il cui gran padre, in tandem con Renato Minore, candida nientemeno che allo Strega — il premio più prestigioso e meno chiacchierato del mondo — quest’opera prima di Matteo Nucci, filosofo e studioso di cultura classica. Qual meraviglia se di sùbito ardemmo? Per, ahinoi, di sùbito accorgerci con sommo stupore che Sono comuni le cose degli amici (il titolo, tratto da Platone, non ha nulla a che spartire col narrato) è sostanzialmente un clone del Valore dei giorni. Come quello, infatti, vorrebbe essere un Bildungsroman ed ha per evento centrale e scatenante una morte, qui del padre, là di un fratello: «Una perdita», spiega l’Autore in un’intervista, che pone il protagonista «di fronte a una serie di dilemmi tra i quali il principale è: seguire o no le orme di questo padre dalla personalità a dir poco ingombrante»: crapulone, donnaiolo, ma disperatamente solo, come nel giorno del suo funerale.
Stessa bonaccia, eguale uniformità e mancanza d’accenti, che pochi spruzzi d’atroce paratassi — da taluno definita a sproposito hemingwaiana —, una violenta bestemmia e qualche acido dialettal-turpiloquiale non valgono a minimamente increspare: «E certo, nessuno ci andava, ’sti poveri coglioni. So’ andato io, te credo: ’na scopata gratis!»; «E allora rispondimi porcoddio».
Identica urbanità formale e precisione nominativa, forse appena più accusata in Nucci per la sua solida educazione classica che traspare evidente da ogni opzione linguistica, benché in entrambi i casi non si passi mai — per dirla in termini debenedettiani — dalla lavorazione all’opera.
Ma anche qui straripanti masse di descrizioni calligrafiche fuori squadra e destituite di qualunque funzionalità, con mansioni coloristiche o patentemente riempitive: «Si affacciò alla finestra. Il palazzo di fronte era attraversato da una linea diagonale d’ombra sull’intonaco giallastro sempre più scrostato, tutte le persiane chiuse tranne su una delle finestrelle minuscole dai vetri smerigliati dei bagni di servizio», «Infilò il tè nel pentolino dell’acqua bollente, mentre lui prendeva dal frigorifero il ghiaccio e lo passava sotto l’acqua corrente […]. Aprì un limone e ne infilò metà nello spremiagrumi metallico, abbassò la leva e tolse la metà spremuta e infilò l’altra, abbassò di nuovo la leva, tolse la cuccuma metallica dal fondo, e riversò il succo nel pentolino, girò mentre Lorenzo infilava gli ultimi due ghiaccioli che non si sciolsero immediatamente», «Schiacciò bene il caffè macinato nel braccetto metallico, lo inserì sotto alla bocchetta dell’acqua calda, diede una spinta forte verso sinistra eppoi, mentre il rumore partiva, si voltò».
Anche qui ovvietà e tòpoi sparsi a piene mani (si veda solo a quale sconcertante ingenuità s’impronti il j’accuse di Marco, l’amico d’infanzia cui il protagonista ha soffiato la ragazza: «Noi eravamo amici fin da bambini. Eravamo amici veri. Tutto abbiamo fatto insieme, ci siamo raccontati ogni cosa, abbiamo sofferto insieme. Passioni, studi, tutto. E come hai fatto?»).
E ancora le pleonastiche spaziature tipografiche — tecnicamente tagli — che nelle sceneggiature di lavoro separano un’inquadratura dall’altra.
Ma quel che distingue e rende più insoffribile l’opera del Nucci è l’annodatura poco meno che casuale dei fatti, la scarsa nitidezza dei moti convettivi del racconto, e soprattutto la sovrana insensatezza degl’inserti dialogici, che vorremmo definire beckettiani, non fossero completamente svuotati d’ogni sostanza drammaturgica e scopo estetico:
«Lorenzo».
«Sì».
«Non russare, per favore».
«No».
«Sei ubriaco fradicio, russerai di sicuro, mio dio».
«Be’ se capita, lo sai, basta che mi giri un po’» fece lui.
«Ma cerca di non russare».
«Non dipende da me».
«Se bevessi di meno».
[…]
«Buongiorno» gli disse, «come stai?»
«Meglio».
«Ma ti sei alzato e ti sei rimesso a dormire».
«Come?»
«Ho visto il cornetto, grazie».
«Sì».
«Ti eri svegliato?»
«Be’, non proprio».
«Eri veramente ubriaco eh?»
«Abbastanza».
«Dio se hai russato».
«Io?»
«Certo, tu».
«Ma ora, solo ora».
«No, no, tutta la notte».
Da «Le reti di Dedalus», giugno 2010.
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Recensioni
domenica 6 giugno 2010
ARMI DA DIFESA
Qui al buio davanti a un computer
a battere parole bare
quando poesia sarebbe uno scooter
che ci portasse fino al mare
Poesia è forse bugia
che sogna la verità
Poesia è amnesia
che lascia le pagine a metà
Ma ho sempre usato il bilancino
anche in prosa
Sono anni che spino
una rosa
Per non rischiare di graffiarmi
uso guanti da presa
Sento il bisogno di armi
da difesa
a battere parole bare
quando poesia sarebbe uno scooter
che ci portasse fino al mare
Poesia è forse bugia
che sogna la verità
Poesia è amnesia
che lascia le pagine a metà
Ma ho sempre usato il bilancino
anche in prosa
Sono anni che spino
una rosa
Per non rischiare di graffiarmi
uso guanti da presa
Sento il bisogno di armi
da difesa
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Poesia,
Simone Consorti
venerdì 4 giugno 2010
Muoia Sansone con tutti i filistei (visione del futuro/presente)
Muoia Sansone con tutti i filistei Sì sì sì
Tutta questa distruzione comincia a piacermi
Ascolto questo tremore sotterraneo scuotere
l'aria Dalle viscere vibra come bestia fremente
E vedo palazzi crollare vedo spaccarsi asfalti
cubicoli di fogne emergere e straripare fetidi
Sui tetti delle automobili si schiantano protesi
sanguinanti di silicone e glabre chiappe aperte
spaccate come angurie sfarinate e sfrante
Le scimmie portano a spasso operai padani
e i bambini randagi sgranocchiano croccantini
lasciati agli angoli delle strade da gattare grasse
mentre rinoceronti in doppio petto trascinano
schermi ellecidì a quarantasei pollici ostentati
tutti accesi a colori turgidi dal vivo e in diretta
Qualche vecchio si lancia dai balconi e fluttua
come carta crespa prima di spiegazzarsi al suolo
Si cantano messe nei canili abbandonati
tra tonache insozzate e ostensori di fango
gli allibratori danno perdenti le resurrezioni
così nessuno prova a scommetterci su niente
Tutto si schianta rompe erode trancia rade
Ci si barrica dentro buchi caldi e vetrosi
come parassiti brancicati su reti virtuali
a cliccare compulsivi sperando in un back up
mentre tutto s'imballa in spettacolare crash
Muoia Sansone con tutti i filistei Sì sì sì
Dopo non potrà che essere meglio di così
Male che vada non ci saremo a vederlo
e su youtube non caricheranno più un cazzo
da condividere e su facebook solo autistici
Tutta questa distruzione comincia a piacermi
© Francesco Randazzo - 2010
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