Di lontano il mare cristallino mostrava i suoi tentacoli con fare brusco e imbronciato, come se volesse ricacciare le sue storie sotterranee, mostrare le sue arcane miserie, il tumulto di secoli di lotte rimestate e perse, giochi improvvisi e sprazzi di euforici moti di sospensione. Sì, sospensione: paralisi e forza inespressa, come inettitudine a vivere in un’epoca nuova ma sempre vecchia, giacché le onde non invecchiano increspandosi, avvolgendo storie su storie, racconti di spazi e antri segreti.
Ero ferma sul bagnasciuga, una piccola onda mi pizzicava i piedi quasi a dire io ci sono, devo fare il mio corso, puoi spostarti se non vuoi sentire la mia presenza. Fui còlta da un guizzo di malinconica consapevolezza: ha ragione questo flutto insistente, sono un’intrusa; è lui che domina la vastità dell’esistere, con smodata foga di abbondanza.
Arretrai e guardai il soffitto dipinto di uno strano colore, azzurro, come l’azzurro del deserto che avevo appena dipinto in una mia poesia. D’un tratto si alzò una brezza che sapeva di ricordi, la vasta cavità che avevo davanti non era più placida e arrendevole, ma invadente e quasi vendicativa. I sussulti spumosi cominciarono ad avvicendarsi; tutt’intorno musiche e colpi di scena. Si era aperto il sipario e il mare, eterno musicista, aveva iniziato lo spettacolo, alzando sempre più i toni, tanto da non farmi sentire il rumore dei miei pensieri frastagliati.
Ebbi netta la sensazione che tutto fosse avvenuto nello spazio di pochi secondi, ma non era così. Il tempo può trastullare le sue indomite creature, ma a volte può annientarle. Mi allontanai dalla spiaggia e mi diressi verso il villaggio. Trascinavo le gambe stanche per la calura di quel giorno torrido di inizio agosto. Fui attirata da un capannello di persone che sorridevano a qualcuno, a qualcosa. La mia innata curiosità mi condusse verso di loro e mi si aprì un altro piccolo sipario: foglie arse, fili d’erbetta, ramaglia sparsa e piante che disegnavano ombre per dei gatti diventati ormai attrazione per tutti i villeggianti. Mi colpì lo sbrego della madre in fronte, sulla cui natura ognuno congetturava. I felini — liberi e avvolti nell’ombra al riparo dal sole rovente, che non sentivano come una volontà oppressiva e vincolante — girovagavano in quel piccolo rifugio dando l’impressione di farsi osservare, mentre erano loro i veri osservatori. Si lasciavano accarezzare, quasi per accondiscendere a un nostro intimo bisogno di instaurare un rapporto di intimità, però di tanto in tanto si dileguavano, come fanno spesso i gatti. Erano tutti diversi: miele, ambra, maculato, grigio. Ognuno aveva ricevuto un nome da alcuni bambini.
A un certo punto scorsi un musetto che se ne stava tutto solo in un angolo, riparato da una foglia larga e palmata. Lo chiamai e lui, incuriosito, mi si avvicinò pian piano, scrutandomi per capire bene chi aveva davanti. I nostri occhi s’incrociarono, quasi a voler carpire l’uno le intenzioni e i pensieri dell’altro. I movimenti sinuosi ed eleganti mi fecero immaginare per un attimo di trovarmi dinnanzi a un piccolo sultano. Ci osservammo per un po’, specchiandoci nel verde bagliore dei nostri occhi, quindi vidi che tentava di salire sul muretto, lastra rovente porosa. Mi tese la zampina, morbida, vellutata, e continuò a guardarmi con occhi che sembravano già colmi di un mondo sinistro. In quel momento scattai la foto e dipinsi quella immagine nella mia mente come quando scrivo versi. Un’immagine in movimento, una poesia incentrata su quelle pupille dal colore malinconico e ebbro di curiosità — già carichi della meraviglia del mondo catturata ai passanti — e sulla sua zampina, tesa al riconoscimento di non so quale strana figura in me.
La poesia diventò viva e prese forma in quell’esserino simpatico, ben lontano dall’umana belluinità che si va diffondendo. Gli animali sanno dare tanto; in cambio chiedono poco. Anche la natura talvolta può essere arrendevole e benevola, ma in certi casi non mantiene le promesse e rischia di diventare il nostro peggior nemico. Non lo fa di proposito: dimentica, ignora, non conosce la lealtà.