Un Giove che tuona lemmi e neologismi, che sprizza saette
lessicali, non fa ombra minacciosa il gigante ma irradia luce giocosa, sparge
felicità leggera. E non desta paura l’ombra di quel titano, anzi, a osservare
la luce del suo volto nella risatina bonaria e irriverente, si può rintracciare
l’alter-ego del padrone dei cieli, ciò che il temibile fustigatore di uomini e
semidei avrebbe voluto essere se non gli fosse stato imposto quel fato
mitologico così potente e terribile e vendicativo. Giorgio Manganelli incarna
in forma laica quella divinità mitologica come creatore ed esploratore di una
nuova lingua italica, brillante di fuochi d’artifizio, scientifica e popolare,
radicata nei secoli e ipermoderna, buonumoristica e inquietante. In una parola,
unica.
Lo incontrai tre anni fa a Nuova Delhi. Il dorso del suo
“Esperimento con l’India” era in fila sullo scaffale principale della
bellissima biblioteca in sandalo lucido di un nobile sikh decaduto che aveva
messo a disposizione del pubblico quella preziosa stanzona. Il libro in
edizione italiana doveva essere effetto di un lascito di un amico
intellettuale, che per illustrare il punto di vista italiano sull’India aveva
scelto l’autore milanese. Punto di vista eccentrico per quanto si crede, seppur
contenuto dall’esigenze del reportage, essendo Manganelli stato inviato in Asia
nel 1975 dal settimanale Il Mondo che era stato di Pannunzio. Che tipo di
esperimento Manganelli fece con l’India? Direi soprattutto con sé stesso.
Temette che la sua solida laicità non fosse a prova di Calcutta o di Bombay,
come accadde 25 anni prima a Roberto Rossellini che lì spese addirittura un
anno. E descrisse persino in aereo una certa inquietudine, a cominciare dalla
scomodità della poltrona, che gli dettò passi come questi: “…ma che cosa è l'India?
Se è un "altrove" mi sfinisce, ma non la temo; quel che temo è questa
capacità, illusionistica e metafisica, di illudermi che l'altrove sia non solo
a portata di mano, ma dentro di me”. Oppure è “un consegnarsi al “deposito dei
sogni, l’unico luogo dove esistono ancora gli dei”.
Quanto e se quel viaggio influenzò la sua copiosa scrittura
successiva solo studiosi della letteratura del Novecento come Luigi Matt o
Gualberto Alvino potrebbero raccontarlo. Il primo ha pubblicato per Artemide
un’opera stupefacente e certosina, quasi zen, “Giorgio Manganelli verbapoiete”;
il secondo, appassionato e brillante esploratore di altri “inventori” come
Pizzuto e D’Arrigo, l’ha appena recensita sulla rivista “Per Leggere”,
costruendo di fatto un’autonoma appendice sul tema Manganelli.
Cosa ha fatto Matt? Dalla “grammaticosa” produzione del
Milanese ha estratto oltre mille voci che rappresentano non solo un
arricchimento insperato della lingua – di cui in molti temiamo la scomparsa –
ma di fatto un nuovo dizionario italiano moderno. Oltre mille neologismi, 1167,
estratti, censiti, codificati, decifrati che affondano radici nella preistoria
del lessico o che potrebbero entrare a pieno titolo nei nuovi slang giovanili.
Alvino, la cui idea di letteratura si fonda sul linguaggio che crea il
contenuto, avvisa che lo scrittore milanese è mosso più da ragioni ludiche che
sperimentali, ma dall’altro lato, scrive Matt, egli rovescia «il senso comune,
seguendo il quale si immaginano le parole come etichette che si pongono a posteriori
sulle cose», una creazione verbale come un «incantesimo per dar vita alla cosa
che quella parola indica». Spiccinare (fuoriuscire da piccola fessura),
orribilante (fra orribile e orripilante), interpuntivo (un testo morto,
piatto), cristato (qualcosa crocifissa), uccellastro (uccello mostruoso). Solo
alcuni mirabolanti esempi.
Si tratta dunque di un imponente giacimento lessicale venuto
alla luce grazie a Matt, che Alvino definisce con altruismo e competenza il
maggior esperto di narrativa italiana moderna (l’era digitale ha ristretto il
termine contemporaneo agli ultimi mesi), e che, importante quanto una miniera
di gas, potrà coprire almeno per i prossimi vent’anni il bisogno energetico
della nostra comunità letteraria.