Oltre al sonno e alla concentrazione ci sono anche altre cose che non sono state dette a nessuno.
Giornate intere che scompaiono, e brevi attimi che diventano un’eternità.

(Peter Høeg)

venerdì 9 giugno 2017

Il rispecchiamento della morte. "Pelle di tamburo" di Gualberto Alvino


Di Pierino Venuto


 «I libri andrebbero scritti soltanto per confidare cose che non si avrebbe il coraggio di dire a nessuno»: parafrasando Emil Cioran, Pelle di tamburo è il nuovo romanzo (inedito) di Gualberto Alvino, che affida a una fluente e dinamica scrittura la dura e forse inconfessabile cronachetta di e, la protagonista, ex redditiera e buia per la sopravvivenza.
     Il nome: e; sì, chi racconta è una semplice congiunzione; è il simbolo stesso di quella paraipotassi che, secondo il fidato amico «Mob, non esiste perché l’e non è una congiunzione coordinante, se lo fosse la paraipotassi esisterebbe eccome, però non lo è, dunque non esiste». Matta, matta da legare in un mondo di falsi e di ipocriti: perbenisti che nascondono le loro miserie umane dietro il paravento della rispettabilità; bugiardi e arrampicatori — notevole il caso del copiatore seriale — che sopravvivono credendo di vivere; parrucconi che offrono lezioni di morale per nascondere le proprie nefandezze, le proprie pulsioni, le inconfessabili colpe di una vita piatta ma onorevole.
     In centoquaranta pagine tese e nervose, con un italiano riplasmato che non fa sconti, con una scrittura — semplice in superficie e ricercata nelle strutture — che tenta di ricreare un flusso armonico di coscienza per mettere ordine al disordine della vita, si è proiettati nell’abisso spesso marcio della nostra coscienza. E, la pazza da manicomio, la criminale, l’assassina è lo specchio onirico ma non deformante delle nostre paure primordiali: la fame anzitutto; perché è per fame che uccide; è per fame che spesso si concede; è per fame che non accetta di scendere a patti con l’umanità associata da vincoli di fatua e ipocrita rispettabilità. Si annida tra le pieghe del racconto anche la disperata ricerca di trascendenza, quel fare a pugni con un Dio in cui non crede ma di cui avverte una struggente mancanza: le grida e finanche le imprecazioni della protagonista svelano il corrodersi di un’anima davanti al nonsenso dell’ipocrisia imperante.
     In sedici quadretti finemente cesellati Alvino incastona una moltitudine infinita di storie che hanno il centro nel fluido io narrante di e: icasticamente rappresenta il lato oscuro del vivere contemporaneo. In un mondo dicotomicamente spezzato fra redditieri e bui, e è la coscienza critica di chi non si adatta, di chi lotta per vivere senza paura e senza infingimenti.
     Lo spaccato della vita è quanto di più reale vi possa essere perché è attraversato dalla penna lucida della protagonista: un personaggio polimorfico che attraversa la realtà del vistocogliocchi con la naturale semplicità di chi racconta perché ha visto e ha sperimentato, ha subìto e reca sulla propria pelle il sovvertirsi delle situazioni apparentemente normali; pertanto e non parla per sentitodire, non scrive o plagia altro da sé: è autentica come lo è la vita, la sua vita, che descrive confidando cose che farebbero sussultare i benpensanti. Figlia di un giudice e nonno ragusano, maestra e sceneggiatrice negra, moglie maltrattata e madre, vedova e privata del figlio: la protagonista è tutto questo per i due terzi della sua vita di redditiera. Il tutto lo si scopre poco a poco, unendo i fili, osservando i dettagli dei quadretti. In realtà si viaggia fra il puzzo dei manicomi, degli ambienti degradati, di quelli borghesi e pieni di varia umanità associata dentro i quali l’ex redditiera conduce la propria esistenza in una sorta di maniacale delirio denso di ferrea logica e di memoria scritta in ogni parte del suo corpo sino all’arrivo dell’acqua nella sua confortevole tana di Ponte. Come i gatti ha sette vite e la sua pelle è dunque un tamburo. Cibo e fame, odori e fetori, luci e ombre tratteggiano con precisione chirurgica l’esistenza di e; un tanfo di sudore ad esempio proietta la protagonista bambina nella barca del nonno ragusano salvato dal delfino fra due ali di tonni da un certo naufragio; quello di e non è altro che il tempo intimo di ciascuno che proietta ognuno di là dall’assurdità reale di questa vita.
     Nessuna consolazione ma una narrazione che fluisce con fantastica scioltezza e ricrea un italiano vero, lontano da qualsiasi stereotipo preconfezionato: parole macedonia che inchiodano il senso delle cose, univerbazioni che ammantano il fluire della coscienza; e poi i frequenti anacoluti, le tematizzazioni e le dislocazioni, il vezzo di taluni monosillabi accentati, il lessico rapsodicamente seletto e ampiamente imbevuto di pregnanti e mai scontati regionalismi o di un parlato parlato mai sciatto e banale. È un italiano vivo e pulsante, non un italiano di plastica, quello di Alvino: è la lingua con la quale determiniamo il senso del nostro vivere, tracciamo le coordinate della nostra esistenza. Pelle di tamburo è pertanto l’esempio ben strutturato ma non artificioso del perché le parole respirano. Le pagine della narrazione appaiono dunque scritte da sé, ma è una semplicità voluta e che l’autore all’interno della narrazione, en passant, svela a un occhio attento.
     Nel suo romanzo Gualberto Alvino credo abbia pertanto compiuto un’operazione degna del miglior Stefano D’Arrigo e del suo capolavoro: Horcynus Orca; lo ha fatto agendo di taglio e non di aggiunta e coagulando la sostanza della narrazione in un distillato di forma: un piccolo scrigno che può rivelare per antitesi molto dello spirito del tempo della nostra letteratura.

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