I
libri di Gualberto Alvino dicono molto più di quanto il numero delle loro
pagine possa far credere: essi lasciano una scia nella mente e nell’anima, il
germe del pensare che egli inietta senza parere nei suoi lettori facendone di
fatto, suoi discepoli. In questo Là
comincia il Messico tanti e tremendi sono i temi che discute con sé stesso
in un lungo incalzante monologo diretto ad un interlocutore muto (e senza nome,
un innominato), ricettore passivo dell’opera di plagio che compie subdolamente
la voce protagonista insinuando nella mente della vittima il seme della
paranoia, trasformandolo inesorabilmente in un mostro bestiale. Come in un
percorso che partisse dal personaggio abulico e confuso dei quadri di Francis
Bacon, preda indifesa e areattiva, che scivola nel fumo di un torpore in cui
penetrano senza ostacoli e forse invocate, allucinazioni, mostri eroditori
della coscienza, che si stringono a cerchio attorno alla vittima divorandola
fino ad una finale mutazione genetica, creando un nuovo essere, automa amorale,
come i mostri di Max Ernst. Ma durante questo percorso, molte sono le domande
sui fondamenti dell’esistenza, domande terribili a cui l’autore stesso dà una
definitiva risposta, essa sì terribile, più ancora degli incubi con i quali
tortura il suo personaggio, più ancora delle terribili domande, perché ha il
sapore di una sentenza inappellabile: «Ciascun quesito ha infinite risposte,
dunque nessuna.» Eppure questo non ferma il protagonista nella sua vorace ansia
di «capire» (il possesso del sapere: bulimica luciferina mania di grandezza o
ansia di eternità?), perciò affida alla insinuante voce del tentatore il
compito di portarci dentro ai quesiti con una straordinaria forma narrativa che
illustra atti, azioni e vicende attraverso lo sciorinare dei sentimenti, delle
sensazioni ed emozioni che quegli avvenimenti hanno prodotto nel personaggio
senza nome, la vittima, tanto da poterne dedurre che quello che conta non è ciò
che avviene, ma come lo si percepisce e come incide sull’essere. E allora
emerge il filologo: «[…] la struttura del linguaggio riflette l’ordine della
realtà, dimenticando che lo stato delle cose è inconoscibile, dunque
immotivato, pertanto indicibile». E qui la filologia si gemella con la
filosofia e con l’antropologia, per esempio nella straordinaria descrizione
dell’uomo attraverso i motivi dell’odio, elencati in un ritmo incalzante che
toglie il respiro. E sempre restando sul confine filosofico, vale la pena
citare alcune definizioni. Sull’arte: 1) «In arte lo sguardo conta assai più
del guardato» (dunque la percezione individuale?). 2) «L’arte scaturisce non
dalla qualità dei dati contenutistici, ma dalla struttura formale, unica e sola
depositaria del senso… In arte il diluvio universale non ha maggiori diritti
del belato d’un capretto, o del flettersi d’un filo d’erba. L’errore è credere
che lo stile stia da una parte e la materia dall’altra, quando si tratta di un
binomio inestricabile. Di un’equazione. La sostanza dell’opera sta nella sua
sagacia costruttiva». Sull’indipendenza della critica: «[…] contro quanti
pretendono ridurla a scrittura di secondo grado, utilitaria, ancillare,
perdutamente infeudata al genio altrui, argomentando che al presunto interprete-eunuco
non è dato fecondare la lingua, che il cosiddetto brivido della creazione
pertiene in fatto e in diritto a un ordine radicalmente superiore, che il
critico è un cencioso scudiero dannato a splendere di luce riflessa perché
chiamato a scrivere su qualcosa:
qualcosa di preesistente alla sua venuta, in mancanza del quale la sua voce
sarebbe fatalmente destinata a tacere… postulando l’assurdo di un’arte priva d’utenti,
sganciata dagli ormeggi della fruizione e indifferente agli acidi dell’azione
ermeneutica. Che al contrario ne rappresenta la necessaria catalisi, il vero
atto di nascita, essendo non solo in grado di rivelarne intima struttura e
segrete ragioni, inafferrabili ai più (non di rado allo stesso autore), ma di
tramutarli in edificio di pensiero, stile: ossia in un’opera a sua volta
autonoma e originale che, no, non sarebbe sorta senza il suo referente, ma
nemmeno questo avrebbe potuto compiutamente costituirsi, posto che la realtà
estetica si determina nel preciso istante in cui lo sguardo dell’osservatore si
spiega sulla cosa osservata.… Uno scrittore è solo uno scrittore, ma un grande
critico può far brillare l’universo nel palmo della mano.» A proposito di
questa sua appassionata e incontestabile difesa della critica, vorrei citare come
opera autonoma e originale (anzi, essa rimasta nella storia della letteratura
mentre del suo oggetto si è persa memoria), il Trattato sulle donne di Denis Diderot, nato come critica ad un
libro dello scrittore suo contemporaneo, Antoine-Léonard Thomas, e divenuto
invece esso stesso un libro di sorprendente attualità nel nostro tempo. Mentre
a dimostrazione di come un grande critico possa «far brillare l’universo nel
palmo della mano», vorrei ricordare la mirabile opera di riscoperta di Piero della
Francesca da parte di Roberto Longhi e il riscatto artistico-storico di Mario
Sironi ad opera di Lionello Venturi. La tormentata serie di domande sulla
crudeltà di Dio, che ho ritrovato anche in Pelle
di tamburo, terzo romanzo di Alvino, è un’angoscia destinata a non vedere
schiarite e, nonostante ci si soffermi su questo tema a lungo, in fondo Alvino
sa che non otterrà risposta perché il cielo è muto. Motivo che va ad
aggiungersi alle cause della follia. Che procede inesorabilmente verso l’ultimo
capitolo… verso il sesso femminile! Non si salva, il povero protagonista
silenzioso e senza nome, dall’ossessione del sesso femminile, da questa donna
dalla quale proviene e nella quale vuole ritornare. È un vero amore-odio il
rapporto con l’altro sesso per il personaggio, da quando sente la frustrazione
del confronto con la prima donna, più intelligente, brillante e colta di lui,
fino al duello sessuale con il quale egli vuole esorcizzare la tentazione di
guardare all’amore come tenerezza, sentimento, salvezza. Amore e salvezza
intuiti nell’amplesso con quel: «si fa me», bellissima piccola frase che
contiene l’universo dell’amore. Ho trovato in un passo, una figura nella quale
ho creduto di riconoscere il ritratto del critico (non oso pensare
autoritratto): «l’impassibilità, il distacco, la calma del nibbio che abbranca
la preda a cuore fermo e a cuore fermo macchinalmente la sbrana, con innocenza,
tenerezza, ponendo fine al suo orgasmo inessenziale: mai premuto da collera, né
sfiorato da odio, da rancore.» Su tutto, trionfa ammaliatrice la mirabile
ricchezza nella forma linguistica, nuova, riconoscibile come sua, originale. E
sono deliziose le lezioni di sintassi che con naturalezza inserisce qua e là
nel testo. Pone questa domanda: quale sarebbe il contrario di mediocrità? E fra
le parole che prende in esame per la risposta non ne ho vista una che mi
permetto di proporti: eccellenza. E, chiedo, c’è forse una puntina, ma piccola
piccola, di maschilismo nel suo definire il “dotto scindere” effeminato? Peccato,
il libro è finito. Ma so che ne arriverà un prossimo laddove io sarò ad
aspettarlo.
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