Gualberto Alvino, Pelle di tamburo.
Perché non parlare anche di un pdf? A
volte, per aspettare un editore, si aspetta invano. E non è detto che ciò che
si può vedere in una vetrina di libraio sia sempre migliore di ciò che aspetta
di fare mostra di sé stesso là dentro. Vero, anche, che gli inediti, spesso,
meritano di restare tali. Ma vero, d’altra parte, anche, che troppi editi non
meritavano di diventarlo. E questo Pelle
di tamburo di Gualberto Alvino?
Mi chiedo quanti libri siano stati scritti
sui diseredati della terra. Ma soprattutto: quanti scritti per raccontare la
testa dei diseredati, la loro vita, diciamo così, interiore, ammesso che sia
possibile distinguere un interno e un esterno della vita. Nella nostra
letteratura spiccano due titoli: I
Malavoglia e I promessi sposi.
Qualcuno mi obietterà: e Ragazzi di vita?
Una vita violenta? o La Storia? Forse, perché no? Il gioco
delle inclusioni e delle esclusioni è un gioco perennemente giocato e rigiocato
ma in fondo inutile. Perché non si tratta d’includere o di escludere, bensì di
fornire esempi. Con la distanza della prospettiva di lettura, oggi, questi
ultimi, Pasolini e Morante, appaiono più un esercizio da parte dello scrittore,
che un tentativo di pensare con la testa del diseredato. Ci sarebbe Gadda:
l’unico, dopo Verga, che abbia inventato una scrittura polifonica del racconto,
quasi un madrigale drammatico senza musica che non sia quella delle parole. Ma
all’obiezione a mia volta obietto che in ogni caso Gadda non entra nella testa
del diseredato, o se di diseredato si tratta, è la borghesia, anzi la piccola
borghesia, diseredata del suo ruolo di interprete della realtà sociale del
proprio paese, anzi della realtà, e basta. In tal senso il capolavoro non è il Pasticciaccio, ma la Cognizione del Dolore. Preparata dal
miracolo dell’Adalgisa.
Gualberto Alvino si colloca su un’altra
visuale. Nella confusione attuale dei ruoli sociali, sceglie un emarginato,
anzi un’emarginata vera, totale. Una “malata di mente”, dopo la chiusura dei
manicomi. Le toglie anche la specificazione di un nome, è una vocale, e
minuscola: e. E decide di non scrivere la storia in una lingua impersonale,
come Verga, o Pasolini, per quanto Pasolini possa rientrare in questo schema di
racconto del diseredato. La mia idea, infatti, è che Pasolini non racconta il
diseredato — nemmeno al cinema, nemmeno in Accattone,
il suo primo film, e il più bello — ma racconta il proprio disagio di fronte
all’esistenza dei diseredati, e la propria impotenza a raccontare non i
diseredati, ma il proprio disagio nel raccontare i diseredati. Alvino compie,
invece, il passo che Verga si rifiuta di compiere: facile raccontare la vita
degli esclusi, dei vinti, con la lingua degl’inseriti, dei vincitori, ma con
quale lingua ’Ntoni e gli altri avrebbero raccontato la propria vita, loro che
una lingua non ce l’hanno? o piuttosto: ce l’hanno, ma la capiscono solo loro,
è una lingua autoreferenziale, come tutte le lingue di tutti gli esclusi. Verga
sperimenta di scandire la lingua degli italiani, dopo Manzoni, con la sintassi
e la logica della lingua dei diseredati. Ma resta, comunque, la lingua dei
vincitori, non dei vinti. Questa lingua dei vinti, ci prova a farla riemergere
Luchino Visconti in La terra trema. Ma ha bisogno poi dei sottotitoli
perché il pubblico, che parla la lingua dei vincitori, capisca. Resta comunque
il film più bello di tutto il neorealismo italiano, il più veramente
neorealista, più perfino di Ladri di
biciclette, perché non prende alla lettera il racconto, ma adotta come
proprio stile lo stile del racconto. Il neorealismo, insomma, nella macchina da
presa di Visconti, non è uno strumento per raccontare la realtà, ma lo stile
per conoscerla. Mi spiego. Con un esempio altissimo. Quando Dante incontra
Francesca, non è la storia d’amore a commuoverlo (anche!), ma è la concezione
ideologica di un amore che salva raccontata da una dannata a sconvolgerlo, a
togliergli, alla lettera, la terra sotto i piedi. Francesca si rivolge a lui
con il linguaggio del Dolce Stil Novo, «Amor che a cor gentil ratto s’apprende»,
ma non è la beatitudine salvifica di Beatrice, è la passione che sprofonda
nella «bufera infernal che mai non resta». E Dante perde i sensi: già, i sensi,
quelli che assecondano la passione. Il racconto di Francesca ha funzionato da
catarsi. L’amore salva, ma un altro amore, non quello. Lo capirà alla fine del
viaggio, quando incontrerà «l’amor che muove il sole e l’altre stelle». Questa
digressione dantesca per capire una legge fondamentale di qualsiasi racconto:
il racconto risulta efficace solo se trova lo stile giusto del raccontare, e
raccontare quell’unico racconto, non qualsiasi racconto. Ovvio che lo scrittore
debba già avere una storia da raccontare. Ma dal momento che ha trovato la
storia, non conta più la storia, bensì il modo di raccontarla. Altrimenti la
storia non troverà nessun racconto, resterà materia bruta, ancora da
raccontare. Mi direte: ma allora, anche uno scrittore che non ha niente da dire
può raccontare una storia, perché inventa un modo di raccontarla. Eh no! chi
non ha niente da raccontare racconta il niente, quand’anche trovasse, ma ne
dubito, uno stile. A meno che non racconti appunto questo suo niente: lo ha
fatto, in maniera splendida, Pirandello, nei Sei personaggi in cerca d’autore. O Unamuno in Niebla, Nebbia.
Ma torniamo al romanzo di
Alvino. Le avventure picaresche della “malata di mente”, tra stupri, furti,
furbate per beccarsi un tozzo di pane, o per sfuggire alla polizia, intrigano
il lettore, che non sempre capisce i confini tra ciò che si racconta e la verità
dei fatti. Ma che conta? È un mondo senza logica guardato con la logica di chi
ha capito che è il mondo a non possedere una logica. Grammatica e sintassi
inseguono così questa logica sotterranea che cerca di raccontare un mondo senza
senso. E una volta dentro, ci si perde. L’unica a non perdersi è proprio la
raccontatrice, che «mette in fila le cose». Ma quali file in un mondo senza
file, senza un ordine, senza un senso, che non siano le file del raccontare?
L’episodio nodale potrebbe essere quello dell’autobus (Ancora pietà), in cui un gruppo di bulletti prende in giro due
«checchemerdose», e la raccontatrice li mette in riga, li fa scappare. Ma poi
presenta «il dito medio a quell’achille dell’autista». «Sempre sulla pietà. /
Per dire». Il gioco linguistico rivela alla fine ciò che rivela ogni gioco
linguistico quando a giocare è uno scrittore vero: una visione disperata della
vita, un’assoluta consapevolezza dell’inconoscibilità del reale, al di fuori
del tentativo di raccontarlo. Il reale può allora anche apparire sfuggente. Ciò
che non sfugge è questa inossidabile coscienza dello scrittore, che sa che
l’unico modo che si abbia per non lasciarselo sfuggire è raccontarlo.
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