Oltre al sonno e alla concentrazione ci sono anche altre cose che non sono state dette a nessuno.
Giornate intere che scompaiono, e brevi attimi che diventano un’eternità.

(Peter Høeg)

giovedì 29 gennaio 2015

Quel treno per Auschwitz




Quando la minore delle sorelle Bucci, Andra, è entrata per la prima volta nel padiglione israeliano a Auschwitz – un padiglione molto bello, emozionante, dotato di grandi immagini video proiettate sui muri bianchi, coperti al piano superiore da decine di copie di disegni fatti dai bambini del campo – per un attimo il cuore le si è fermato. Davanti a uno di questi disegni dai tratti incerti, infantili, raffigurante il treno della deportazione, qualcosa dentro di lei si è sbloccato, è rinato come in un'epifania dolorosa. Andra non riusciva a ricordare niente di quel viaggio verso Auschwitz, fatto ad appena quattro anni, insieme alla madre e alla sorella Tatiana, e adesso, grazie all'immagine disegnata da un altro bambino, quel treno aveva ripreso vita, i ricordi erano tornati all'improvviso, dopo settant'anni. Era di nuovo là, su quel vagone piombato con le due piccole finestre in alto, il secchio per i bisogni corporali di centinaia di persone stipate, un po' di pagliericcio per terra per un viaggio di una settimana. Anche se non possiamo certo paragonarci a Andria e alla sua storia, anche per noi andare ad Auschwitz è stato un po' come ritrovare quel disegno fatto da un altro bambino. Enrico, mio marito, ci ha perso il nonno e il bisnonno e ha dovuto spezzare il silenzio di suo padre e della nonna paterna per sapere, per conoscere qualche frammento di memoria familiare; io ho vissuto invece la Shoah attraverso una madre cacciata da scuola a undici anni che si è ritrovata a nascondersi, a fare il partigiano nella macchia grossetana armata di pistola in quanto ebrea e ha provato lo shock di essere sopravvissuta a cugini e amici finiti nel fumo. La nostra infanzia è stata minacciata da questo uccello nero rapace, da questa belva cattiva, dall' ombra pericolosa del paese del Laggiù, come lo chiama David Grossman in “Vedi alla voce amore”. Siamo stati anche noi dei piccoli Momik, confusi e impotenti. Abbiamo letto tutti i libri possibili, abbiamo visto film, abbiamo voluto sapere tutto fin nei minimi dettagli, bere fino all'ultima goccia di informazione e racconto. Abbiamo fatto spettacoli e scritto testi. Ma adesso, essere qui, ad Auschwitz, è diverso. E' ritrovare il posto tanto temuto nella nostra infanzia, la tana dell'orco, riconoscerlo come lo scenario dei propri incubi e nello stesso tempo attribuirgli una nuova terribile concretezza che lo radica nella realtà, spostandolo dal piano della fantasia solitaria. Questo non è più l'Auschwitz di singoli bambini spaventati da una creatura delle tenebre, terribile e perversa, è l'Auschwitz di tutti, quello vero. Il viaggio ha significato entrare a poco a poco in un disegno incerto che si riempiva sempre più di particolari, frecce, connessioni, è stato un lento sprofondare in un fango freddo e viscido, una discesa in un abisso sordo da cui ora è difficile riemergere. No, non è la stessa cosa pensarlo da casa, è diverso esserci. E' importante esserci, far schiudere l'uovo del male e assistere alla nascita del mostro. Ci sono cose che prima non sapevo e adesso so. So che quando Tatiana Bucci parlava della baracca dei bambini io potevo vederla davanti agli occhi perchè ci ero stata. Sapevo com'era fatta quella maledetta baracca, vedevo le travi mangiate dall'umidità, i ripiani che fungevano da letti, la finta stufa mai accesa, i piccoli lavandini senza acqua con l'appoggio per un pezzo di sapone mai ricevuto. Sapevo che i bambini ci stavano ammassati come animaletti braccati, che di giorno giocavano davanti allo spiazzo spelacchiato – perchè l'erba se la mangiavano – incustoditi, esposti al freddo che a Cracovia arriva anche a meno quaranta gradi in inverno. Che la mansione più ambita era spingere il carro dei cadaveri, un lavoro faticoso e durissimo ma che almeno dava la possibilità di attraversare il campo e di rivedere la mamma, sogno e speranza di tutti (un sogno che i nazisti conoscevano bene, quando Mengele ebbe bisogno di venti bambini per i suoi esperimenti sulla tbc, chiese al gruppo quanti volessero rivedere la loro mamma; quei venti, tra cui il cuginetto delle Bucci, Sergio, finirono impiccati a Bullenhuser Damm dopo atroci torture). Grazie alla nostra guida italiana, Michele, adesso so che la vita media a Birkenau dall'arrivo era di quaranta minuti per l'80% dei prigionieri. Che le donne ritenute inabili a lavorare venivano mandate in una baracca (vista, anche quella) a aspettare di essere gassate e vi potevano rimanere anche per giorni senza ricevere cibo perchè tanto erano destinate alla morte (perchè sprecare risorse?) sole, disperate, dimenticate. Posso sentire il silenzio sinistro dello Zigeunerlager, la zona dove c'erano le baracche degli zingari, un campo rumoroso, addirittura vitale, dove i detenuti potevano suonare i loro strumenti, pieno di bambini che nonostante tutto giocavano e facevano chiasso: in una sola notte di agosto i nazisti lo “evacuarono”, gassarono 2897 prigionieri. La metà erano quei bambini. La mattina dopo nel campo non si sentiva più un fiato, solo le porte delle baracche che sbattevano. Posso ritrovarmi davanti alla discesa per le camere a gas, ormai smantellate, i crematori ridotti a cumuli di mattoni rossi, immaginarmi migliaia di persone stipate in quel lungo corridoio costrette a denudarsi davanti a estranei con la subdola promessa che avrebbero ritrovato i loro indumenti dopo la doccia (“per non perdere le scarpe, prego annodarle tra loro”) e poi stipate nella camera a gas dove granelli di Zyklon B le avrebbero uccise per soffocamento interno – a volte ci volevano anche quindici minuti, una morte dolorosissima, per nulla un andarsene nel sonno). Posso vedere le madri morire schiacciate dal groviglio dei corpi tenendo in alto sulle loro teste i propri figli nella speranza assurda di un po' di ossigeno. Posso vedere cos'era il Canada (la zona della ricchezza, grande umorismo nazista) dove venivano depositati i beni strappati ai gassati che erano partiti portandosi dietro con ingenuità piatti, utensili e padelle, oggetti utili per il trasloco pensando davvero che avrebbero trovato un campo di lavoro, i laghetti dove venivano buttate le ceneri, molto utili tra l'altro anche a nutrire i pesci, a fermentare i campi o buttate sulle neve per non far scivolare i camion. Posso vedere i detenuti fatti spogliare nella foresta di betulle (Birkenau vuol dire bosco delle betulle) e fatti correre direttamente nudi alle camere a gas oppure fucilati e bruciati su cataste, posso vedere dove venivano tosati con forbici da animali davanti al ghigno dei soldati, tatuati con un numero che sarebbe diventato il loro nome e esposti a docce o freddissime o caldissime per puro divertimento. Ad Auschwitz 1, quello con la storica scritta Arbeit macht frei che nel 2009 qualche sciacallo in cerca di cimeli aveva rubato (adesso è esposta una copia) si entra ed esce dai blocchi, le baracche, dove Benigni ha girato La vita è bella e in ogni angolo ancora io posso vedere. La baracca 21, l'infermeria dove i detenuti venivano uccisi con iniezioni di fenolo nel cuore e le donne sottoposte a esperimenti sulla sterilità da noti ginecologi. Ecco l'angolo della forca dove la nostra guida polacca tende a sottolineare che furono impiccati molti suoi connazionali (è molto importante per i polacchi sottolineare la loro parte in causa come vittime, fino all'eccesso comico involontario a volte: vuoi vedere che erano loro i migliori amici degli ebrei? Eppure a Cracovia adesso di ebrei ce ne sono solo centocinquanta, se non si vogliono contare le caricature antisemite in legno che si trovano abbondantemente nel mercatino di attrazioni turistiche) e dove il più giovane un ragazzino di sedici anni riuscì a scalciare lo sgabello da sotto i piedi da solo, ribellandosi con questo gesto ai suoi carnefici. Posso vedere il muro delle fucilazioni dove i prigionieri venivano appesi a un gancio finchè gli arti non cedevano e poi naturalmente fucilati in massa davanti a pareti antiproiettile che dovevano anche attutire il rumore dei colpi per non spaventare gli altri e far degenerare il panico. E poi naturalmente posso vedere l'orrore puro: le due tonnellate di capelli (e sono solo una parte) usate per fare calzini per le truppe, i chili di pelle umana usata per realizzare cartoline di auguri, le protesi, gli occhiali, le scarpe scompagnate, migliaia di scarpe, le valigie con i nomi scritti sopra. Ecco, adesso posso vedere tutto quello che mi ha terrorizzato fin da piccola. Non è più una mia fantasia solitaria. Lo vediamo tutti. Io insieme ai quasi seicento studenti della Regione Toscana che sono venuti con noi e che hanno dato a questo viaggio un ulteriore senso e anche una speranza. L'orrore sta lì davanti a noi, dentro di noi, quel noi collettivo su cui deve basarsi la memoria. Ma perchè la memoria non resti, come scrive l'autore che come sapete prediligo, George Tabori, un grande mare ghiacciato, una lastra spessa tra noi e la verità è necessario a volte affondarvi un colpo d'ascia che rompa la superficie indurita, che faccia rifluire la vita, anche se il calore può essere dolorosissimo, come probabilmente è stato per Andra Bucci tornare su quel treno su cui fu costretta a montare da bambina. E' necessaria l'epifania dolorosa. E' necessario che ce la prendiamo su di noi, la memoria, che la facciamo diventare parte dei nostri corpi, fisica, concreta, che offriamo i nostri occhi, che diventiamo noi i prossimi testimoni, visto che quelli storici ci stanno abbandonando. Per essere i nuovi testimoni è necessaria preparazione storica e tanta immaginazione – come disse una sopravvissuta a Freddie Rokem studioso israeliano del teatro della shoah che le chiedeva come avrebbe potuto parlare dei campi, lui, senza esserci stato : “Usi tanta immaginazione, caro” gli rispose lei, soave. Immaginazione per entrare in quei disegni, coraggio per affrontare il fango viscido e schifoso e forza per tornare indietro. Anche se duro, anche se difficile, io consiglio questo viaggio a Auschwitz. Consiglio di prendere questo treno.

Laura Forti ©

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