L’oggettivo è
percezione, e di conseguenza il soggetto percipiente non può essere centro. Non
più di qualunque altro soggetto percipiente.
Nello scrivere
(e nel teorizzare) di Pizzuto rimbombano gli echi delle moderne teorie delle
reti, dei sistemi complessi, dell’ordine caotico dell’universo, dell’invarianza
di scala, si scorgono nitide le strutturazioni frattali e quelle isotropiche.
La narrazione di
Pizzuto è entropica, <<è
la seconda vista che sa scorgere il “vero”, ossia il poetico, al di là del
reale, alla cui molteplicità il narrare –sfornito di centro e disperso in mille
rivoli, ciascuno dei quali insieme marginale e centralissimo- non solo è
perfettamente omologo, ma incessante adequatio>> come sostiene
Gualberto Alvino, che dice poi anche <<una cosa (per Pizzuto,
ndr) non è ciò che è, ma la costellazione delle cose che sembra>>.
Come non riconoscere in queste espressioni le logiche di funzionamento dei
moderni autofocus di videocamere e macchine fotografiche, basate su quella che
viene definita logica fuzzy (logica
sfumata)?
La logica
sfumata è applicabile anche alla percezione dell’Io, che però non è
sopprimibile. Nel suo pagellare, persino le distanze siderali che Pizzuto
frappone fra sé e l’espressione del sé nella narrazione, persino l’indeterminazione
del fatto vengono in qualche modo annullate nella reductio ad unum (unum
in questo caso è da intendersi come flusso di percezione a forma di imbuto, il
quale imbuto ha alla fine della parte stretta il soggetto) che il percipiente
impone al percepito nello stesso istante in cui percepisce. E senza percezione
non può esserci trasferimento a terzi –diciamo così- del percepito, neanche se
il percepito è indeterminato e caotico.
Per fare un
parallelo cinematografico, il Frederich che Wenders ha usato in Lisbon Story
cova lo stesso dilemma di Pizzuto. Portare una cinepresa rivolta alle spalle e
non guardare mai le immagini casuali che ha ripreso non libera l’autore dalla
propria presenza, non libera il prodotto artistico dal criterio di selezione
anche quando randomizzato, non libera dalla dictatorship dello spettatore
neanche quando lo spettatore tenta di farsi ectoplasmico.
Come il
matematico puro arriva a vedere la bellezza di un’equazione, Pizzuto apre le
porte di un bellissimo spazio virtuale dove il lettore può muoversi con
ampiezza di orizzonte proprio perché la minimizzazione della presenza
dell’autore libera gigabyte, mettendo a disposizione di un nuovo percipiente
file di memoria predisposti, però, dall’autore stesso.
La bellezza
mozzafiato delle sperimentazioni letterarie pizzutiane con il loro strascico
teorico affascina perché conduce a un’indeterminazione che è anche nelle
fondamenta dell’universo intorno a noi, un’indeterminazione che percepiamo
profondamente e che continuamente ci sfugge. Ma in tutto ciò l’Io non è affatto
scomparso, ha subìto una surcodificazione e abita altezze tali da rendersi
invisibile ai sensi, esattamente come i satelliti che ci permettono le odierne
telecomunicazioni.
La narrativa
–anche se sarebbe meglio parlare di poesia e poetica- di Pizzuto non è un drone
senza pilota, il suo <<sfibrante
corpo a corpo>>
con la scrittura è evidente in ogni momento e tormenta tanto l’autore quanto il
lettore che non può non sentire la presenza di un altro Io diverso da sé che
l’accompagna nell’esplorazione dei mondi instaurati. È una presenza certamente
astratta, un remote-control che facendosi sistema tende a palesarsi nei margini
e a farsi invisibile mentre ci si è immersi, tanto quanto la telecamera
sparisce anche in concetto durante la visione di un film.
In ogni caso lo
scopo di Pizzuto è raggiunto appieno nella dimostrazione che <<l’oggetto
conosciuto dipende esclusivamente dall’Io percipiente>>,
perché attraverso le sue pagine si impara
che aggrapparsi alle forme infinitive o sedere nella cabina comandi di
uno Shuttle sono in fondo solo due modi diversi di viaggiare.
Lorenzo Pezzato
Le citazioni
sono tratte da “Verrei in tassì a catturarti, Il carteggio
Contini-Pizzuto”, relazione di G. Alvino per la Giornata di studi in ricordo di
Gianfranco Contini presso l’Università di Pavia, 2010.
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