Saverio Vasta
Il posto delle cose
(Prefazione di Emilio Isgrò)
Pagg. 52, E. 10.00
Pungitopo, Marina di Patti 2011
Che un celebre artista come Emilio Isgrò, noto per i suoi libri “cancellati” (grazie ai quali si è affermato, fin dagli anni delle neoavanguardie, come uno dei più significativi esponenti della poesia visiva), sia autore del testo introduttivo col quale si apre una raccolta poetica dove invece le parole si stagliano chiare e forti con la nettezza di una rasoiata (Saverio Vasta, Il posto delle cose, Pungitopo, Marina di Patti 2011), può apparire sorprendente.
Al di là della comune origine geografica (essendo tutti e due siciliani, nativi di Barcellona Pozzo di Gotto), un indizio su un più profondo collegamento fra il grande artista che “scrive” servendosi di cancellature e il giovane poeta che si serve normalmente della scrittura, ce lo offre (sia pure di sguincio) lo stesso Isgrò quando dice: «Questa raccolta è un armadio pieno di cassetti vuoti – le pagine bianche da riempire –, ed è proprio lì, in quei cassetti, che Vasta infila gli oggetti più disparati prima di scappare anche lui». Sembra insomma che Isgrò voglia alludere a un’idea di scrittura come gesto materiale (infilare oggetti in un cassetto) e come “azione” attraverso la quale le “cose” vengono occultate, ma anche custodite, ricollocate nel loro naturale spazio fisico, nel contempo negando (cancellando?) tutto ciò che nella scrittura stessa può configurarsi come inessenziale. Ed in effetti, aggiungerei, si ha l’impressione che le parole di Vasta riemergano da invisibili cancellature, dopo un viaggio epifanico nell’universo delle “cose”, quasi facendosi “cose” esse stesse, tanto è rarefatta, precisa, rotonda, essenziale la versificazione, tanto è concentrata, geometrica, lenticolare la costruzione del testo.
A fronte di un mondo che sembra aver smarrito ogni ordine naturale, dove tutto è sovrapponibile e intercambiabile, dove (come si legge nella poesia di apertura della silloge) «il villaggio e la metropoli», «i raccordi anulari e le trazzere» hanno perso identità e sono divenuti indistinguibili, Vasta pone l’esigenza di ricollocare gli oggetti, “cancellandoli” dal flusso indistinto che li priva di significato e prova a riportarli a un’altra valenza. Il “posto delle cose” appare allora come una sorta di ungarettiano “porto sepolto”, una meta che «odora d’attesa» e si configura come ricerca di un’armonia perduta, di quell’«oro dei cercatori» che è sempre «altrove» (e verso cui bisogna saper guardare se si vuole trovare un equilibrio diverso e più autentico).
Questa tensione verso l’altrove, verso un orizzonte diverso, è un filo conduttore che accompagna l’intera raccolta, assumendo via via valenze cangianti. Se in alcune poesie la ricerca di un “posto” rimanda anche al desiderio di penetrare nel profondo delle cose, scoprirne quel mistero, quell’autenticità che la quotidianità tende ad offuscare, in altre questa ricerca assume i caratteri di una denuncia etico-sociale (quando ad esempio si accenna al «sofà / accecante come luce / su facce trasparenti di vernice», probabile allusione al vuoto semantico, alla chiacchiera inconcludente e plastificata dei talk show, o quando più esplicitamente, nelle poesie che concludono la raccolta, si racconta, intrecciata a ricordi autobiografici, della brutale violenza che può segnare un paese del profondo Sud dilaniato dalla criminalità mafiosa).
Vi è un sentore di viaggio in questi versi. Ma di un viaggio che viene messo continuamente in discussione nelle sue più contraddittorie valenze (come in molta scrittura di area siciliana, del resto). Significativo è ad esempio, nella poesia intitolata “Stazione”, il senso di immobilità che si focalizza in una stazione ferroviaria, luogo (o “non luogo”) tipico del transito. È una stupenda riflessione sull’ambiguità del viaggio, che può essere insieme reale o immaginario. Si può partire restando fermi, o rimanere immobili pur viaggiando, sembra volerci dire il poeta. O migrare portando con sé la propria precaria identità (e per questo, come leggiamo in un’altra poesia, si può salire su «un treno di calce e di mattoni / che edifica la casa»).
È in ogni caso, quello di Vasta, un viaggio ad occhi sbarrati attraverso la frammentazione, la discontinuità, la mancanza di senso del nostro mondo, ma anche l’inseguimento di un’autenticità smarrita, fuori dai conformismi e contro l’appiattimento del “pensiero unico” («Vorrei trovare (…) / più voci stonate e meno coro / qualche personaggio senza autore»); e persino, in accenno, l’inseguimento di un sogno (o prospettiva utopistica) di sovvertimento radicale: «…Finché la serva partorirà la sua signora / e agli ultimi vedrete edificare opere grandi».
Tutto questo viene reso attraverso soluzioni espressive di notevole originalità inventiva (si pensi a quella natura morta in miniatura, un delicato disegno a filo di matita, dove risalta “un uovo che zampetta nel tegame…”) e prende forma attraverso procedimenti retorici contenuti, ma studiatissimi. In alcuni testi prevalgono venature neo-espressionistiche di sicuro impatto: «Spalancava gli occhi riversi / la gallina dal bordo del tinello / mentre le esperte mani della nonna / le aprivano il petto…»; «Sbarrai gli occhi. / Il corridoio era un enorme buco nero». In altri si riscontra un andamento quasi prosastico che si avvicina al parlato: «Era sabato sera e al bar dell’angolo / si giocava al Totocalcio…». In tutti, però, la lingua è sottoposta a un rigoroso filtro che la assottiglia e la trasfigura: asciutta, controllata, attenta ai microscopici particolari della quotidianità, priva di ridondanze autobiografiche o sentimentalistiche, ma nello stesso tempo aperta alle contaminazioni, concreta. Anche per questo un naturale riferimento di Vasta sembra essere l’opera di un altro suo grande conterraneo, quel Bartolo Cattafi che come nessun altro ha saputo coniugare la crudezza del parlato con la rarefazione espressiva e la concentrazione dei significati. Ma se di derivazione da Cattafi si potrà parlare (evidente, ad esempio, in testi come “Pésca”, “Giro di giostra”, “L’oliva”…), bisognerà notare altresì che attraverso Cattafi Vasta perviene soprattutto a quello che si può considerare il procedimento più caratterizzante della poesia novecentesca, quella “poetica dell’oggetto” che Cattafi assorbe da Montale e da Eliot: il lasciar parlare le cose, il cercare nelle cose una più ampia valenza significante. Così l’«oro dei cercatori» va rintracciato «nel porto abbandonato della nave / nel fiore appeso al filo della luce», che sono evidenti “correlativi oggettivi” di marca montaliana (e tracce montaliane, del resto, possiamo trovarle anche in espressioni come «…la voce che non c’è, / la nota che non torna»).
Ma, per concludere, ci piace notare (in margine a quanto detto) che l’«oro» (non più cercato, ma forse stavolta trovato?) fa capolino meno montalianamente in un'altra poesia, come attributo puramente descrittivo della pelle di certe “Ragazze”, che hanno «Negli occhi e sulle labbra / la scia di notti e trucco esagerati».
Alfonso Lentini
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