Oltre al sonno e alla concentrazione ci sono anche altre cose che non sono state dette a nessuno.
Giornate intere che scompaiono, e brevi attimi che diventano un’eternità.

(Peter Høeg)

venerdì 5 agosto 2011

Il gran Lombardi

di Gualberto Alvino




Pezzo di gran pregio l’ultimo fascicolo monografico di «Resine. Quaderni liguri di cultura» (XXXI 2010, 125-26, pp. 144) dal titolo L’occhio di Germano Lombardi, dedicato — per le cure di Pier Luigi Ferro — allo scrittore di Oneglia (1925-1992) sulla soglia del ventennale della morte: certamente tra gli outsider più innovatori, ergo completamente dimenticati, del secondo Novecento, la cui ascendenza da Robbe-Grillet e dalle sue algide, ossessive schedature fenomenologiche affidate a bisbigli monocordi e ipnotici — che sarebbe a dir nulla temerario revocare in dubbio — non ne intacca minimamente il valore, se è vero, come risulta persino a non pochi feroci oppositori d’ogni sperimentalismo, che la sua prosa non cessa dopo decennî d’apparire altrettanto unica che rivoluzionaria per il suo essere rapinosamente fabulatoria quanto secca ed essenziale; non minuziosamente pianificata come nel padre del Nouveau roman ma istintiva, quasi biologica e comportamentale, colata sulla pagina allo stato nascente; espressivamente azzerata eppure musicalmente strutturatissima (il livello prosodico, specie del primo tempo, merita studio); trapunta di para-azioni e microgesti compiuti da improbabili personaggi-regard da cui tralucono a tratti i massimi sistemi; scandita in blocchi, e si dica pure balbettii paratattici giustapposti fuor di logica e cronologia, che riescono tuttavia a mimare con impressionante efficacia il récit in tutta la gamma delle sue movenze (gialle e fino avventurose) pur negandone recisamente statuto e possibilità.
Tra commemorazione e saggio critico lo scritto d’apertura di Renato Barilli, in cui sostanzialmente si conferma la stretta parentela di Lombardi con l’autore di Les gommes («Era per me evidente che la prosa scarna e magra di Germano consuonava con quanto faceva oltralpe il numero uno dell’école du regard, o di una littérature objectale, o litérale, come era anche detta, stretta attorno al motto propiziatore Les choses sont là. […] Lombardi come il Robbe-Grillet di casa nostra, seppure con esercizio più rado, più affaticato e incerto, e soprattutto non accompagnato dall’aggressività teorica che traspariva dalle prestazioni del capofila del Nouveau roman»), anche in occasione della svolta rappresentata da Cercando Beatrix e Villa con prato all’inglese, i “gialli” commissionati al Nostro da Rizzoli, in cui «non viene meno il parallelismo […] con la rotta che intanto sta seguendo già da qualche tempo il capofila del Nouveau roman, che anche lui aveva ben compreso come con Dans le labyrinthe fosse pervenuto a un punto terminale e di totale saturazione. Non si poteva continuare all’infinito — dichiara infine il critico bolognese, gettando la maschera del sodale e svelando il proprio canone attuale — a tessere quelle erranze nel vuoto, nel freddo sidereo, nella rarefazione di tutti i possibili motivi di trama. Bisognava capovolgere la clessidra, passando da una narrazione fatta di niente, volta a respingere come banali le risorse dell’intreccio, a uno sfruttamento di questo ingrediente essenziale»: il che equivale non pure a negare qualunque cittadinanza all’organizzazione formale, e dunque a ogni letteratura antagonista e di ricerca presente passata e futura (la sola che conti), ma a sancire l’assoluta primazia delle scritture da banco fondate sulla consolante e unproblematic linearità dell’intreccio farcito di fatti fruibilissimi e però sonanti a vuoto assai più delle «erranze» lombardiane.
L’altro compagno di cordata neoavanguardistica, Angelo Guglielmi, pone l’accento sullo «sfrenato desiderio di narrare, di far vivere la vita» di Lombardi e sulla sua «voglia di testimoniare, di fantasticare, di dire»: «Il romanzo italiano a lui contemporaneo, pur nelle sue prove più degne riconducibili alla neoavanguardia, tende a mortificare lo slancio narrativo, con la giustificazione che deve provvedere a demistificare la realtà e scoprire l’inganno del presente. L’operazione è realizzata con drammatica grandezza in pochi casi ma più spesso con mediocre furbizia e penosa avarizia. La narrativa di Germano Lombardi, al contrario, non pone alcun freno al dispiegamento della piena fabulatoria, che prorompe densa e appassionata»: è fin troppo facile osservare che i “romanzieri” del Gruppo 63, lungi dal mortificare lo slancio narrativo (da identificarsi, secondo Guglielmi, nei puri valori tematici, scil. nell’intrattenimento) si studiarono di creare nuove forme di narratività, e che — ripetiamo — quelle di Lombardi non ambiscono ad essere se non simulazioni di racconto: anarrazioni, o «de-narrazioni», come scrive Mario Lunetta nel suo lucido contributo, «paragonabili a delle cluster bombs che depositino le loro schegge ben al di là del target prestabilito. La scrittura lombardiana non racconta, piuttosto ammicca, divaga, mette senza tregua in gioco frammenti di discorso magari prima soltanto accennato, e intanto costruisce una catena di edifici votati alla decostruzione permanente. Lombardi, insomma, è un grande autore drammatico-sarcastico che adopera con sferzante nonchalance le sue drammaticità e i suoi sarcasmi; e sempre, in fondo alla sua tagliente ironia, ai suoi doppi sensi, ai suoi intelligentissimi jeux de mots spande i suoi fetori una palude di tragedia in cui annaspano i suoi personaggi bislacchi». E prosegue, con l’acume e la persuasività argomentativa che gli son proprî: «Uno stile del tutto privo d’avventura e di vistosità, in un autore che paradossalmente si picca di essere un tessitore di avventure esistenziali, erotiche, politiche, truffaldine, piene di ignominia, tutte ridotte in porzioni di quotidiano degradato; si direbbe, tranquillamente collaudato in una sorta di sotto-koiné, ‘espressivo’ soltanto ai fini minimi della ‘comunicatività’ più puntigliosa e insieme più maledettamente ambigua, senza fratture sottolineate o aperte intenzioni di sfida a chi legge. Lombardi non rischia mai di accumulare materiali per poi disfarsene, o agirvi sopra in tempi successivi a definire la curva di una storia, tagliarne il profilo sotto gli occhi del fruitore. Egli offre soltanto morceaux di storie, meglio blocchi di eventi già confezionati, che sembrano esaurire in sé, nel fatto stesso di essere accaduti, ogni missione a posteriori, ogni applicazione interpretativa».
Tema sul quale anche Francesco Muzzioli, in Germano Lombardi e l’antiromanzo, appunta il proprio ingegno critico: «c’è qualcosa di anomalo — afferma il teorico della letteratura — alla base della narrazione lombardiana, qualcosa che recalcitra […] allo schema di fiction. Precisamente, secondo le diverse fasi che adesso affronteremo, qualcosa di meno e qualcosa di troppo. In ogni caso, per difetto o per eccesso, Lombardi sottrae sempre all’‘indiscrezione’ del lettore il nocciolo essenziale. A dirla in estrema sintesi, la ‘beatitudine’ (la Beatrix) del reale appare solo per scomparire, oppure risulta deludente. Dopo un po’ il lettore di Lombardi capisce che non raggiungerà nessun porto, semplicemente perché la navigazione è infinita. E capisce che il vero contenuto non è affatto quel quid che veniva cercando, bensì la ricerca stessa e il suo percorso plurale, aperto e contorto».
Ferro offre una compiuta e suggestiva ricognizione dell’unica silloge poetica lombardiana, La ballata dello zio Lucas e altre con una nota dell’attore Kean e un commento inedito e falso di William Shekaspeare, apparsa nel 1979 per i tipi dell’industriale fiorentino Mario Luca Giusti, editore quell’anno anche del Pinocchio di Carmelo Bene. Lombardi, avverte il critico, «costruisce i suoi testi secondo la logica enigmatica e beffarda dello scarto, del décalage, innestata talvolta sullo sfondo di pratiche ricorsive, che si realizza con grande consapevolezza anche al livello lessicale […]. Nei testi narrativi in prosa di Lombardi la sequenza degli eventi narrati innesca alla prima lettura, perfino nell’interprete più avvertito, l’impressione che prevalga una logica puramente arbitraria, anche nel caso di un’opera invece molto rigorosamente costruita, come il romanzo d’esordio Barcelona, dove il disorientamento viene indotto per una ragione di segno contrario a quella dei testi poetici, ossia per il fatto che gli stacchi tra i pieni narrativi non vengono denunciati dalla separazione sulla pagina, ma si presentano nel testo della prosa in assenza di soluzione di continuità, ad esempio, dal piano onirico a quello della veglia, senza essere annunciati o demarcati, fatta salva naturalmente la simmetrica partizione della storia in tre blocchi di sei capitoli. Nella raccolta poetica si può dire che invece tale effetto di frammentazione e spiazzamento venga sottolineato e reso più drastico dall’uso del découpage, con un effetto intensificato di smarrimento nel lettore, condotto in una vicenda che pare procedere a sbalzi, sostenuta nella sua claudicante andatura dall’uso iterato di moduli retorici (l’allocuzione diretta, l’uso degli epiteti e degli stilemi del ‘poetese’) apparentemente forti, in realtà destabilizzati alla base».
Aggiungono tratti notevoli alla figura dell’uomo e dell’artista i ricordi e le testimonianze di Orio e Martina Vergani (nipote e figlia di Lombardi), Giulia Niccolai, Maurizio Spatola e Nanni Cagnone; mentre un quartetto di giovani studiosi s’incarica di gettare più d’un seme di ricerca: Jacopo Marchisio esamina con rigore e puntualità parte della produzione teatrale; Andrea Tullio Canobbio isola «alcuni aspetti (grafici, fonetici, morfologici e lessicali) della lingua di Lombardi, per illustrare meglio l’oscillare tra i due poli, tra precisione descrittiva e frastuono mistilingue»; Irma Manganelli dimostra convincentemente la continuità tra i romanzi e le opere teatrali, continuità che «trova un esempio significativo nel personaggio di Antonio Tre, presente in alcuni capitoli del romanzo che è forse il capolavoro di Lombardi, Il confine (Milano, Feltrinelli, 1971), e poi protagonista, qualche anno dopo, di tre pièces radiofoniche inedite e molto brillanti, connesse proprio dalla sua figura e intitolate collettivamente con l’estrosa etichetta Tre storie di Tre»; infine Stefano Giordanelli ripercorre le alterne vicende della collaborazione di Lombardi all’«Espresso» (1971-1983). Tutti fornendo dati e strumenti indispensabili alla (ri)scoperta dello scrittore.

Da "Le reti di Dedalus", estate 2011

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