Oltre al sonno e alla concentrazione ci sono anche altre cose che non sono state dette a nessuno.
Giornate intere che scompaiono, e brevi attimi che diventano un’eternità.
(Peter Høeg)
Giornate intere che scompaiono, e brevi attimi che diventano un’eternità.
(Peter Høeg)
sabato 9 aprile 2011
"Pagelle" di Antonio Pizzuto, a cura di Gualberto Alvino
di Filippo Secchieri
All’impresa di leggere Pizzuto — ché tale perlopiù si configura l’accesso alla sua pagina letteraria — Alvino ha dedicato, nel corso di un ventennio abbondante, notevoli sussidi filologici ed esegetici. Parzialmente anticipata in varie sedi periodiche, la munitissima edizione di Pagelle che vede ora la luce parrebbe possedere i crismi per togliere il bando che impedisce la circolazione attiva dell’opera pizzutiana tra un pubblico meno ristretto di quello rappresentato dai soli addetti ai lavori: sia concesso, quantomeno, formulare questo auspicio, incoraggiati anche dalla di poco successiva riproposta nella collana dei «Tascabili Bompiani» di Si riparano bambole, un romanzo del 1960 che torna in commercio nell’edizione approntata sempre da Alvino per Sellerio nel 2001. Pagelle appartiene alla fase della «sintassi nominale» o tout court «narrativa», se possibile ancor più catafratta delle precedenti, che informa la produzione estrema dell’ex-questore palermitano; così, tra i brani meno impegnativi, càpita ad esempio di leggere nelle battute finali di Idrovolante (una pagella di neppure trenta righe, che richiese circa un mese di lavoro): «Mestieri, unico passeggero, ricoverarti digiuno e squattrinato in locanda contrabbandiera là presso. Uno stambugio a abbaini, fornirlo branda, sedia, pila minima da acqua santa, decalogo; nel ricetto, niente giordano» (p. 119). Colpo di coda o di teatro – il sostantivo di cui si asserisce la mancanza – che non può non lasciare interdetti e sul quale torneremo. In origine le Pagelle apparvero in due volumi, ognuno contenente 20 pezzi, per i tipi de Il Saggiatore tra il 1973 e il 1975 con, a fronte, la versione francese (qui non riprodotta ma fruita al bisogno) e le note di Madeleine Santschi (in realtà ispirate da Pizzuto, quindi tenute in maggior considerazione nell’apparato). Già l’intromissione, nelle rispettive principes, di un’assortita serqua di refusi, di cui viene data opportuna collazione, sarebbe di per sé bastevole a salutare con favore la nuova stampa, riscontrata sui manoscritti autografi conservati presso la Fondazione Pizzuto di Roma nonché su parecchi altri documenti (dagli apografi autoriali di 37 Pagelle inviati in lettura a Contini, attualmente alla Fondazione Ezio Franceschini di Firenze, ai dattiloscritti della versione francese annotata, per giungere sino alle pre-pubblicazioni in rivista di alcuni gruppi di pagelle). Ma, naturalmente, c’è di più. L’esame degli autografi, spesso tormentati al limite dell’indecifrabilità, non ha soltanto consentito di ripristinare l’esatta lezione dei quaranta componimenti: ha altresì fornito un importante spaccato del laboratorio pizzutiano attraverso la ricostruzione, minuziosamente espletata nel folto apparato, del processo variantistico (comprendente anche le varianti alternative e cassate) da cui originano le singole pagelle. Non meno rilevanti sono le molte glosse marginali (scolî, annotazioni testuali ed extratestuali) che costellano il manoscritto ovvero rinvenute in un paio di missive a corrispondenti, utili a realizzare la seconda finalità (l’esegetica, in effetti inscindibile dalla prima) di questa edizione. Dopo un ampio saggio introduttivo (Fragments à réassembler) e la Nota al testo che con qualche coatta acrobazia dà conto dei criteri adottati, Alvino offre per ciascuna pagella un apparato costituto da una sintetica introduzione, da una fascia devoluta al commento (che a giusto titolo si avvale anche di riscontri intertestuali e di suggerimenti epitestuali) e da un’altra cospicua fascia riservata alla puntuale registrazione della frastagliata fenomenologia genetica. A seguire viene ristampato, come dalla princeps del ‘73, il breve saggio teorico pizzutiano Sintassi nominale e pagelle, mentre concludono il volume quindici lodevoli pagine di Glossario e alcune tavole che riproducono una campionatura dello stato degli autografi.
Simile profusione di energie si serba a conveniente distanza dalle superfetazioni e dagli idoleggiamenti feticistici che in più di un caso accompagnano, o addirittura motivano, operazioni così concepite; a richiederla è infatti l’oggetto stesso nella sua prismatica, reale ma non per ciò insondabile densità. Leggere Pizzuto è indubbiamente difficile, ma è altrettanto indubbio che non si danno letture davvero semplici, dal momento che, lo ricordava Borges nel Prologo a Il manoscritto di Brodie, «non c’è sulla terra una sola pagina, una sola parola che lo sia, poiché tutte quante postulano l’universo». Ed è una presupposizione di complessità che ritroviamo anche nella prassi pizzutiana, la cui oltranza agisce, secondo Alvino, «allargando sino alle estreme conseguenze le virtualità del sistema linguistico non – o non solo – a scopi comunicativi, bensì d’instaurazione di mondi» (Fragments, p. 9), all’incirca sostituendo alla realtà finita la potenzialità infinita della coscienza. La complessione dei mondi linguistici pizzutiani non è d’altronde priva di punti d’appoggio per un lettore partecipe e intraprendente. All’auspicio della sua esistenza l’autore fa esplicito appello nella pagella proemiale – Lettura – come a una desiderata controparte verso la quale «protendere ancor poco la mano» (p. 71) affinché abbia a verificarsi, con termine della filosofia tomista e rosminiana caro a Pizzuto, quella contuizione che gli permetterà di riconoscere le tracce del processo di elaborazione compositiva e di realizzarne il senso possibile. Allo stabilirsi di questa cooperante sintonia, il contributo del curatore è obiettivamente essenziale: grazie al suo commento (e al riassuntivo glossario) si apprenderà che l’altrimenti enigmatico «giordano» in explicit a Idrovolante è un neologismo coniato sul «jordan» dell’Henry IV di Shakespeare, dove se ne hanno due occorrenze; vulgus: che l’equivoca e disadorna stanza di fortuna è sprovvista anche di pitale. Siffatte integrazioni, atte a conferire perspicuità non soltanto alla sfera semantica, interessano ogni pagella, derivando sia dallo scandaglio della falda intertestuale (esterna e interna, come nel caso appena menzionato, visto il reimpiego della medesima fonte shakesperiana nel debutto della pagella successiva) sia dalla vigile interpretazione di un lavoro correttorio che dalla distillazione del dato realistico e talora aneddotico trae forza per ambire all’assoluto. Si ha in tal modo la riprova che «l’ultimo Pizzuto stampato nudo è un Pizzuto monco, dimidiato», poiché il suo scrivere costituisce «uno dei rari casi letterari, forse l’unico, in cui il percorso conti quanto la meta» (Fragments, p. 28; corsivo nel testo). Ne discende che l’edizione critica di Alvino, debitamente abbinata alle istanze del commento, non ha alcuna parvenza del vezzo amatoriale né dell’esercizio tecnico-culturale auto-ostensivo, al contrario ponendosi decisamente nel segno di una necessità concreta alla stregua di uno strumento di bordo indispensabile per avanzare lungo le rotte creative tracciate da Pizzuto e, soprattutto, per meglio apprezzare gli approdi raggiunti nella sua insistita, plenaria sperimentazione.
[Da «Oblio (Osservatorio Bibliografico della Letteratura Italiana Otto-novecentesca)», a. I (2011), n. 1, pp. 304-305]
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento