Oltre al sonno e alla concentrazione ci sono anche altre cose che non sono state dette a nessuno.
Giornate intere che scompaiono, e brevi attimi che diventano un’eternità.
(Peter Høeg)
Giornate intere che scompaiono, e brevi attimi che diventano un’eternità.
(Peter Høeg)
domenica 28 febbraio 2010
ARCENCIEL MONDO
Continuano con successo gli incontri interdisciplinari del Progetto Arcenciel Mondo presso la libreria-caffè Rinascita a Roma, Via P.Alpino 48.
Sabato 20 marzo dalle ore 18,00 Marco Palladini, scrittore, poeta, performer in "Ho visto le migliori menti...Beat Poetry e oltre". Un percorso nell'autobiografia della ribellione occidentale attraverso la lettura-performance di alcuni brani del suo CD poetico-musicale Trans Kerouac Road.
lunedì 22 febbraio 2010
martedì 16 febbraio 2010
Sgombero
Niente rimane intatto
è finzione l'accumulo
supponenza dell'io
assurdo formicaio di segni
presunzione di permanenza
con relitti innumeri e salati
La vacuità firma la memoria
sotto strati di polvere sabbiosa
Montagne di bottoni mai attaccati
Colletti di camicie mutilate
Abiti inabitati e astratti
Colli di volpi orribili e setosi
Bambole morte dagli occhi vivi
Scarpine di bimbi invecchiati
Camiciole di batista sottili come ostie
Simulacri di capelli in treccia
Ortodonzie appartate senza senso
Necropoli di scodelle e piatti
Fax di firme autorevoli e sbiancate
Cahiers de presse sfaldati
Papiri quadri pergamene tristi
Lettere capitali senza più importanza
E libri di letture dimenticate
monili di crescite passate
Penne orgogliose e secche
Lavabi ottusi e aridi
Fuochi fatui d'appliques e lampadari
Mura silenziose di rude indifferenza
piene di caos e nulla truciolato
Appare ingenua e struggente
quest'ostinata e compulsiva
illusione della salvezza
nell'obliquità della materia
Labirinto e supponenza
di presidio terreno permanente
È invece come un fulmine
la certezza della cancellazione
Il tempo è un verme che rode oltre la morte
Mi strazia e ripulisce il cuore
La mente già s'annega
si contorce e affila
nel mare sgretolato dell'addio
© Francesco Randazzo - 2010
Paolo Guzzi. Lo spessore della lingua. Il fondo della visionarietà, la complessità del tempo in "Là comincia il Messico" di Gualberto Alvino
Quando si sono letti moltissimi libri, li si è studiati a fondo, si è assorbita la storia e le molte storie che raccontano, quando si è avvicinato lo spessore della lingua nei suoi aspetti più nascosti, nei suoi risvolti più misteriosi, quando si è penetrato in quel mondo di segni, in quei fonemi, di cui si sa tutto alla perfezione, allora si ha come un disgusto, una nausea, tanto più forte in quanto non se ne può fare comunque a meno, per tutto ciò che sappia di letteratura e di quel mondo inevitabile e stravagante, così attraente e repulsivo insieme, costituito dal tappeto di strumenti per cui la lingua si costruisce e si dipana.
Allora, come ha fatto Gualberto Alvino, filologo e studioso di letteratura italiana contemporanea, con questo lavoro (Là comincia il Messico, Firenze, Polistampa, 2008), si vuole continuare a rivivere quel mondo, questa volta creando qualcosa del tutto nuovo, originale, qualcosa che prima non c’era.
La crudeltà non è pietosa, né verso gli altri né verso sé stessi, il tutto è osservato e rappresentato per accumulo barocco di immagini, di linguaggio, di sensazioni.
Il ritmo trainante del linguaggio, nonostante le cesure e le interruzioni, gli spazi vuoti della pagina, ci spinge nel profondo della scrittura, seguendo l’itinerario di una vocazione letteraria che coinvolge l’autore e quindi il lettore.
Nel testo non succede nulla, sembra, se lo prendiamo come un viaggio all’interno della lingua; succede di tutto invece se seguiamo i mille accadimenti di cui veniamo resi partecipi.
L’esperienza fatta non può essere dimenticata. Le migliaia di libri letti e studiati, analizzati come un entomologo gli insetti, si affollano nella mente, la riempiono di idee, di immagini, di sogni e di nevrosi.
Quindi Alvino ha pensato a questo suo primo romanzo: una struttura rigorosa che ha l’andamento, dichiarato nei sottotitoli ai capitoli nell’indice, di una sinfonia musicale.
Un romanzo che è un antiromanzo eppure racconta, senza dialoghi eppure con un dialogo ininterrotto con l’altro, un altro sé stesso, cui l’autore si rivolge dandogli del tu. Un alter ego? Forse. Eppure qualcosa di diverso, in più, un dostoevskiano diario di un pazzo, un pazzo dotato di ragione e di metodo, come il Polonio dell’Amleto shakespeariano.
La follia e il disgusto, la passione per il disgusto e la necessità di procurarselo, una crudeltà senechiana e sadiana, un’attenzione per gli odori (i cattivi odori) alla Suskind, determinano questo singolare romanzo che vuole raccontare l’esperienza totale, la vita, una vita nella sua interezza, nello stesso tempo autobiografia ed invenzione, immaginazione e realtà, piuttosto una de-realtà, come chiamava Barthes quello stato a metà tra realtà ed irrealtà appunto, dovuto ad una mente che soffre.
In un testo che si vuole “sinfonico” il tempo è fondamentale. L’esperienza è sempre anteriore alla sua descrizione, il tempo umano è diverso dalla sua rappresentazione. La sua descrizione è difficile in quanto esiste una sovrabbondanza di vita che sovrasta, che fa mancare qualcosa che riempia l’abisso della propria esistenza.
Nel romanzo di Alvino questa sovrabbondanza compare ad ogni pagina, ad ogni rigo, in ogni aggettivazione, negli elenchi in cui si accumulano gli aggettivi, insoliti, da repertorio filologico, fonemi, parole in antico italiano, citazioni di poeti, in una scrittura in cui il tempo, appunto, sembra mancare il suo spazio; in cui, a volte, per l’eccessivo affrettarsi, perfino la punteggiatura è eliminata e la frase può interrompersi di colpo, senza finire il concetto.
Esiste in questo lavoro di Alvino un desiderio di abbracciare l’universo, non solo quello esistente intorno a noi, in cui si muove con odio e rancore la figura del narrante, ma anche di penetrare e farsi attraversare dalla scrittura che quell’universo descrive.
Così, come dice Poulet (la traduzione è del sottoscritto), «Sentire la propria esistenza come un abisso vuol dire sentire la mancanza infinita del momento presente. Il momento, generato dall’uomo, non basta più all’uomo» (G. Poulet, Etudes sur le temps humain, 1, Plon 1972, p. 33). In questo grande affresco scritto, in cui le capacità narrative e descrittive sono notevolissime, si avverte una velocità e un ritmo, a volte accelerati a volte rallentati, che trascinano il lettore, lo agganciano e a volte lo distolgono, ma sempre costringendolo alla lettura ed alla rilettura.
Se il Messico è a poca distanza, se siamo dunque al confine con il Texas, luogo di ogni sopruso e di ogni tormento, dobbiamo dunque soltanto attraversare il Rio Bravo per raggiungere la sedazione.
Ma l’autore non ci dice di avere raggiunto il Messico. Ce lo indica da lontano, da questo Texas che tutti ci ossessiona, tra sparatorie e fuorilegge.
Nella “durata” esiste la vita vissuta al di qua e al di là dell’istante: è questo istante che ogni scrittore vuole cogliere e che Gualberto Alvino prova, riuscendoci, a cogliere.
Oltre al tempo umano, un tempo disumano, piuttosto, l’altra coordinata del romazo di Alvino è la profondità. Profondità filosofica, filologica, profondità descrittiva che va sino dentro i corpi, con una visionarietà al microscopio che sviscera, è il caso di dire, il corpo e i corpi l’uno dentro l’altro, ponendo in superficie ciò che fisicamente ci sta dentro. Il cammino del personaggio narrante precipita inesorabilmente verso la dissezione, dapprima del testo, quindi del corpo. Una tale forsennata introspezione ravvicinata giunge alla rottura dei globuli e della cellula. L’amplesso è visto da dentro, si entra nel sesso come se ci fosse, nel membro virile, una luce che illumini minuziosamente ogni orifizio. La descrizione è così precisa, gli odori stessi sono talmente ben descritti che sembriamo sentirli, e il cervello esplode, trascinato da sé stesso verso il nulla. Bum, concludendo come nel romanzo.
Da «Zeta. Rivista internazionale di poesia e ricerche», XXXII 2010, 1 p. 24.
Allora, come ha fatto Gualberto Alvino, filologo e studioso di letteratura italiana contemporanea, con questo lavoro (Là comincia il Messico, Firenze, Polistampa, 2008), si vuole continuare a rivivere quel mondo, questa volta creando qualcosa del tutto nuovo, originale, qualcosa che prima non c’era.
La crudeltà non è pietosa, né verso gli altri né verso sé stessi, il tutto è osservato e rappresentato per accumulo barocco di immagini, di linguaggio, di sensazioni.
Il ritmo trainante del linguaggio, nonostante le cesure e le interruzioni, gli spazi vuoti della pagina, ci spinge nel profondo della scrittura, seguendo l’itinerario di una vocazione letteraria che coinvolge l’autore e quindi il lettore.
Nel testo non succede nulla, sembra, se lo prendiamo come un viaggio all’interno della lingua; succede di tutto invece se seguiamo i mille accadimenti di cui veniamo resi partecipi.
L’esperienza fatta non può essere dimenticata. Le migliaia di libri letti e studiati, analizzati come un entomologo gli insetti, si affollano nella mente, la riempiono di idee, di immagini, di sogni e di nevrosi.
Quindi Alvino ha pensato a questo suo primo romanzo: una struttura rigorosa che ha l’andamento, dichiarato nei sottotitoli ai capitoli nell’indice, di una sinfonia musicale.
Un romanzo che è un antiromanzo eppure racconta, senza dialoghi eppure con un dialogo ininterrotto con l’altro, un altro sé stesso, cui l’autore si rivolge dandogli del tu. Un alter ego? Forse. Eppure qualcosa di diverso, in più, un dostoevskiano diario di un pazzo, un pazzo dotato di ragione e di metodo, come il Polonio dell’Amleto shakespeariano.
La follia e il disgusto, la passione per il disgusto e la necessità di procurarselo, una crudeltà senechiana e sadiana, un’attenzione per gli odori (i cattivi odori) alla Suskind, determinano questo singolare romanzo che vuole raccontare l’esperienza totale, la vita, una vita nella sua interezza, nello stesso tempo autobiografia ed invenzione, immaginazione e realtà, piuttosto una de-realtà, come chiamava Barthes quello stato a metà tra realtà ed irrealtà appunto, dovuto ad una mente che soffre.
In un testo che si vuole “sinfonico” il tempo è fondamentale. L’esperienza è sempre anteriore alla sua descrizione, il tempo umano è diverso dalla sua rappresentazione. La sua descrizione è difficile in quanto esiste una sovrabbondanza di vita che sovrasta, che fa mancare qualcosa che riempia l’abisso della propria esistenza.
Nel romanzo di Alvino questa sovrabbondanza compare ad ogni pagina, ad ogni rigo, in ogni aggettivazione, negli elenchi in cui si accumulano gli aggettivi, insoliti, da repertorio filologico, fonemi, parole in antico italiano, citazioni di poeti, in una scrittura in cui il tempo, appunto, sembra mancare il suo spazio; in cui, a volte, per l’eccessivo affrettarsi, perfino la punteggiatura è eliminata e la frase può interrompersi di colpo, senza finire il concetto.
Esiste in questo lavoro di Alvino un desiderio di abbracciare l’universo, non solo quello esistente intorno a noi, in cui si muove con odio e rancore la figura del narrante, ma anche di penetrare e farsi attraversare dalla scrittura che quell’universo descrive.
Così, come dice Poulet (la traduzione è del sottoscritto), «Sentire la propria esistenza come un abisso vuol dire sentire la mancanza infinita del momento presente. Il momento, generato dall’uomo, non basta più all’uomo» (G. Poulet, Etudes sur le temps humain, 1, Plon 1972, p. 33). In questo grande affresco scritto, in cui le capacità narrative e descrittive sono notevolissime, si avverte una velocità e un ritmo, a volte accelerati a volte rallentati, che trascinano il lettore, lo agganciano e a volte lo distolgono, ma sempre costringendolo alla lettura ed alla rilettura.
Se il Messico è a poca distanza, se siamo dunque al confine con il Texas, luogo di ogni sopruso e di ogni tormento, dobbiamo dunque soltanto attraversare il Rio Bravo per raggiungere la sedazione.
Ma l’autore non ci dice di avere raggiunto il Messico. Ce lo indica da lontano, da questo Texas che tutti ci ossessiona, tra sparatorie e fuorilegge.
Nella “durata” esiste la vita vissuta al di qua e al di là dell’istante: è questo istante che ogni scrittore vuole cogliere e che Gualberto Alvino prova, riuscendoci, a cogliere.
Oltre al tempo umano, un tempo disumano, piuttosto, l’altra coordinata del romazo di Alvino è la profondità. Profondità filosofica, filologica, profondità descrittiva che va sino dentro i corpi, con una visionarietà al microscopio che sviscera, è il caso di dire, il corpo e i corpi l’uno dentro l’altro, ponendo in superficie ciò che fisicamente ci sta dentro. Il cammino del personaggio narrante precipita inesorabilmente verso la dissezione, dapprima del testo, quindi del corpo. Una tale forsennata introspezione ravvicinata giunge alla rottura dei globuli e della cellula. L’amplesso è visto da dentro, si entra nel sesso come se ci fosse, nel membro virile, una luce che illumini minuziosamente ogni orifizio. La descrizione è così precisa, gli odori stessi sono talmente ben descritti che sembriamo sentirli, e il cervello esplode, trascinato da sé stesso verso il nulla. Bum, concludendo come nel romanzo.
Da «Zeta. Rivista internazionale di poesia e ricerche», XXXII 2010, 1 p. 24.
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Recensioni
domenica 14 febbraio 2010
USANDO IL PASSATO REMOTO
I
Non conosco il futuro
ma quando vedo scorrere la Senna
penso ad Epicuro
e che appena uno di noi
verrà trascinato
dalla corrente come un ramo
a nulla gli servirà
aggrapparsi ad un ti amo
II
Quando il tempo sarà finito
e l' amore avrà fatto il suo corso
quando ti vedrò come una gazza ladra
e tu come un orso
per noi non ci sarà un rimborso
Nessuno ci ripagherà
del tempo salvato o perso
Né basterà pregare
la Dea dell' Amore o il Dio dell' universo
quando come ciechi sfioreremo
il braille delle nostre foto
e parleremo di oggi
usando il passato remoto
Non conosco il futuro
ma quando vedo scorrere la Senna
penso ad Epicuro
e che appena uno di noi
verrà trascinato
dalla corrente come un ramo
a nulla gli servirà
aggrapparsi ad un ti amo
II
Quando il tempo sarà finito
e l' amore avrà fatto il suo corso
quando ti vedrò come una gazza ladra
e tu come un orso
per noi non ci sarà un rimborso
Nessuno ci ripagherà
del tempo salvato o perso
Né basterà pregare
la Dea dell' Amore o il Dio dell' universo
quando come ciechi sfioreremo
il braille delle nostre foto
e parleremo di oggi
usando il passato remoto
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Poesia,
Simone Consorti
venerdì 5 febbraio 2010
Menù del giorno
Antipasto di chiacchiere
Linguine al fesso
T'imballo di scotch
Sorbetto da grumi
Spigola all'ansia pazza
Saltimbocca di presente
Germogli di minchiatine
Insalata alla cieca
Macedonia distrutta
Tiramidovetipare
Crostata di storia
Passione flambè
Spumantide
Caffè defuturizzato
Amaro del Vate
© Francesco Randazzo - 2010
lunedì 1 febbraio 2010
Se arrivano bene
Sono sicuro
ma sicuro sicuro
che sicuramente
gli extraterrestri esistano.
Non ho prove nemmeno una.
Soltanto un vago presentimento
d'essere spiato quando sono solo.
Non li ho mai visti
né mai li vedrò
e onestamente non ci tengo molto.
Non me li immagino nemmeno un po'.
Non credo siano verdi o blu o blatte giganti.
Non me ne frega niente a dir la verità.
Non è nemmeno un pensiero ricorrente.
È che i terrestri lasciano molto a desiderare
e ho deciso di dedicarmi a qualcos'altro.
Tanto per non impazzire.
O forse proprio per impazzire
ma a cuor leggero.
Di una cosa infatti sono sicuro
gli extraterrestri non sono simili a noi
e questo mi rincuora grandemente.
Mentre aspetto che arrivi un'astronave
costruisco una pista d'atterraggio
che m'attraversa la testa in diagonale.
Sono sicuro
ma sicuro sicuro
che sicuramente
gli extraterrestri esistano.
Se arrivano bene
e se no
no.
© Francesco Randazzo - 2010
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