Per ora vi basti sapere che faccio, e con successo, lo psicanalista.
Alcuni anni fa, ho ricevuto una telefonata da Riccardo, un mio vecchio amico di gioventù diventato, per tutta una serie di circostanze che mi sono sempre apparse bizzarre, commissario. Dopo qualche convenevole, giunse al nocciolo della questione:
“Mi è capitato un caso stranissimo: un tale, un giovanotto, ha bastonato un vecchio di più d’ottant’anni in piazza della Rotonda, davanti al Pantheon.”
“Non poi così strano: io e te conosciamo bene le disastrose condizioni psicologiche in cui vive un giovane in certe zone di Roma…”
“Il problema è proprio questo: non si tratta d’uno sbandato ma d’un legale: un avvocato tributarista che lavora in uno degli studi più famosi della città, quello del dottor Volpi. Non ti è mai capitato di vederlo in televisione? Spesso lo invitano a commentare la politica fiscale del governo.”
“Mi sembra di averlo intravisto su La 7.”
“Precisamente! Lì è di casa.”
“Allora il fatto è davvero abbastanza curioso…solo che io non mi occupo di consulenze psichiatriche. L’analisi che faccio io ha regole molto determinate e stringenti: il paziente viene di sua volontà, scuce bei soldi che potrebbe destinare ad altre cose, si attiene agli spazi e ai tempi a lui concessi in certi orari precisi in certi giorni della settimana altrettanto precisi.”
“Lo so: non credermi così ignorante in questo campo! Ricordo però molto bene come tu riuscivi a capire tanto di una persona anche se magari l’avevi vista solo un paio di volte. Ecco… a me farebbe piacere avere la tua impressione su un tipo del genere, uno che fa una certa professione e poi si abbandona a certi atti, anche se la cosa non è del tutto pertinente al tuo vero lavoro.”
“Sai sempre come solleticare la mia vanità e per questo ti amo. Ma, per passare di palo in frasca, non credo che le consulenze per la polizia siano pagate dallo stato così tanto… o no?”
“In effetti…”
In questura Riccardo mi presentò il poliziotto testimone oculare di quanto era accaduto.
“È molto interessante ascoltarlo” aggiunse.
Questi prese a raccontare:
“Mi trovavo come al solito sulla volante stazionata in piazza della Rotonda, accanto alla fontana centrale. Saranno state le nove e mezza d’una mattinata di Febbraio: un orario in cui in quella zona tutto è più che tranquillo. Fra l’altro faceva freddo e anche i turisti erano rari. Avevo messo su una musica gradevole, carezzevole e – lo confesso – ero lì lì per appisolarmi, quando, a un tratto, da via della Minerva, sbucò fuori un vecchio dai capelli scarruffati e la barba candida, che arrancava trafelato concitato esausto stringendo forsennatamente a sé una grossa borsa di cuoio. Alle sue spalle, al suo inseguimento, un giovanotto con un impeccabile completo blu e gli occhiali che, più che corrergli davvero dietro, saltellava, esagitato e goffo, a zig zag sulla strada, brandendo quello che poi non era un bastone vero e proprio ma piuttosto un manico di scopa anche abbastanza smilzo. Non so bene perché ma mi venne da ridere. Nondimeno, nel mentre, il tizio raggiunse il vecchio e cominciò a colpirlo. Anche se i colpi parevano fiacchi e imprecisi, il vecchio si afflosciò subito a terra, stroncato. Saltai giù dalla macchina, e, la destra sulla fondina, corsi verso di loro urlando:
“Butti via quel bastone!”
Il giovane dal completo blu mi guardò stupefatto, con aria vagamente trasognata; poi sembrò come riscuotersi, come raccapezzarsi, e lasciò cadere il manico di scopa ai suoi piedi. Gli ero ormai vicinissimo.
“Ma lei è un matto o un vigliacco? Accanirsi su un uomo di quest’età! Si prepari a passare un brutto quarto d’ora…”
E lo squadrai da capo a piedi, per capire cosa avrebbe fatto adesso. Si strinse nelle spalle, prese l’espressione malinconica e contrita d’un bambino sorpreso a compiere una marachella e rimase perfettamente immobile. Non avrebbe reagito o tentato di scappare. Benissimo. Un arresto facile facile. E in piena flagranza di reato! Meglio di così!... Ebbi tutto il tempo di chiamare un’autoambulanza e di farvi caricare su il vecchio. Poi, a un mio cenno, il giovanotto mi seguì sulla volante.”
“E non ha detto niente?”
“Non una parola. Sembrava sopraffatto da quello che aveva combinato, sembrava non crederci nemmeno lui.”
“D’accordo. La ringrazio molto.”
Congedato il poliziotto, Riccardo si rivolse a me:
“Allora?..”
“Allora, quando posso incontrare il nostro eroe?”
Entrai nello squallido stanzone della questura. Un giovane, che era seduto a un tavolo dal ripiano in compensato, si alzò subito in piedi. Sembrava fosse arrivato un suo superiore. La cosa, comunque, mi permise di osservarlo meglio. Non molto alto per i parametri di oggi (sarà stato un metro e settantacinque più o meno), un po’ pingue, si vestiva secondo i canoni d’un’eleganza assai classica che ormai hanno abbandonato in tanti. Indossava un completo celeste su camicia bianca e cravatta blu cupo in perfetta sintonia coi calzini della stessa tinta. Ai piedi morbidi mocassini in scamosciato marrone, disinvolti ma impeccabili. I capelli dolcemente ondulati d’un castano molto chiaro, biondicci quasi, anch’essi accuratamente pettinati, incorniciavano un facciotto tondeggiante da bambino… o forse no… diciamo… da adolescente. Gli occhi erano d’un cilestrino slavato, alla tedesca, alla nordica; il nasetto aggraziato, come il mento; le guance abbombate, le piccole labbra troppo rosseggianti. E già un po’ di sottogola. Per finire, dei grandi occhiali dall’imponente e solidissima montatura nera, pure loro piuttosto lontani da quelli che vanno adesso. Aveva una curiosa espressione attenta e deferente nei miei confronti. Il poliziotto non aveva torto: c’era in lui qualcosa che spingeva al riso. O perlomeno alla sfottitura. Forse non aveva avuto vita molto facile a scuola. Cominciai:
“Buongiorno. Se vuol sedersi…”
“Grazie. Buongiorno anche a lei.”
Mi accomodai di fronte a lui, gli occhi negli occhi, e:
“Vuol raccontarmi qualcosa della sua vita?”
“Riguardo quale argomento?”
“Quello che preferisce lei.”
“Mah! La mia vita è normalissima… che devo dirle? Ho frequentato la prima elementare a cinque anni e mezzo e mi sono diplomato al liceo scientifico a diciassette, un anno avanti agli altri. Poi mi sono iscritto a Legge, una facoltà molto affollata ma che pure apre tante strade… e mi sono specializzato in diritto tributario con una tesi che affronta il più classico degli argomenti, infatti è intitolata: La Rivoluzione della Vanoni.”
“Ornella Vanoni ha fatto una rivoluzione?”
Ridacchiò di gusto. Era la prima cosa spontanea che gli vedevo fare.
“Ma non stiamo parlando della cantante ma di Ezio Vanoni, il ministro delle Finanze, quello che con la sua legge del’11 gennaio 1951, comunemente chiamata “la Vanoni”, ha gettato le basi del sistema fiscale moderno in Italia. Non l’ha mai sentita?”
“Confesso di no: nessuno conosce tutto.”
“Ḕ proprio vero... specializzarsi è fondamentale. Io, come le dicevo, l’ho fatto in diritto tributario e a ventidue anni sono entrato in uno dei migliori studi della capitale, quello del professor Volpi.”
“Lui, lo conosco.”
“L’ha visto in televisione?”
“Confesso di sì.”
“Infatti ci va un po’ troppo… comunque… cos’altro? Vivo ancora coi miei genitori ma fra due anni mi sposo. Con Elisabetta, una mia compagna d’università. Anche lei già lavora, per cui saremo una coppia senza problemi economici. È già qualcosa. Non le pare?”
“È indubbiamente qualcosa.”
Il narcisetto rimaneva molto sul generico, la prendeva molto alla lontana. Bisognava osare.
“Conosceva già il vecchio o l’ha incontrato solo quella mattina?”
All’improvviso smarrì completamente il suo aplomb.
“Lo conoscevo da un bel pezzo!”
Esclamò. E digrignò i denti.
Quindi rimase silenzioso per più d’un minuto; l’aria confusa, stranita.
Stavo per dire una cosa quando fu lui a riprendere:
“Come le dicevo, io sto ancora coi miei genitori. Viviamo all’Appio Tuscolano, nei pressi della basilica di Santa Maria Ausiliatrice. Un quartiere un tempo assai popolare. Oggi meno, anche se non è mai diventato una zona davvero signorile. Tanto che, da sposato, ho proprio l’intenzione di trasferirmi. Comunque, è un quartiere che trabocca di vecchi. Io amo i vecchi, amo la loro vita semplice, ordinata, tranquilla. Si alzano con comodo, vanno al supermercato per la spesa quotidiana; qualcuno si siede al tavolo di un bar, ordina un caffè, chiacchiera con amici vecchi come lui, magari scorre il giornale e inveisce contro tutte le brutture del mondo d’oggi: ai suoi tempi ogni cosa era migliore. Poi i vecchi tornano a casa per il pranzo e, il pomeriggio o la sera, non escono mai, se non in occasioni rarissime, quando li vengono a prendere i figli per festeggiare insieme il Natale o l’ultimo dell’anno. Tutto ciò mi rassicura, mi conquista: mi sembra che questi vecchi accettino dolcemente, serenamente, il lento ma inevitabile esaurirsi dei loro giorni. Di più: ho l’impressione che l’universo mondo giri sui suoi cardini in modo rigoroso e giusto.”
A questo punto un lampo strano, indefinibile, attraversò gli occhi del giovane.
“Ora, da quando cominciai a lavorare nello studio del professor Volpi, mi capitò più volte, salendo o scendendo le scale, d’imbattermi, verso le otto del mattino, in un vecchio corpulento, tarchiato, dalla barba e i capelli candidi assai rigogliosi anche se non perfettamente curati, che portava con sé una grossa borsa di cuoio nuova nuova che sembrava rigonfia; una di quelle borse di solito usate da chi per la sua attività è costretto ad andare in giro con un bel numero di documenti. Il fatto è che quel tale, anche se c’era in lui qualcosa di ancora vigoroso, era vecchio… ma davvero molto vecchio! Gli avresti dato, senza la minima esitazione, più di ottant’anni! Eppure, d’estate e d’inverno, col caldo o col freddo e magari anche con la pioggia, egli, puntualmente a quell’ora, scendeva le scale a piedi e spalancava il portone per andarsene via, baldanzoso e frettoloso come un professionista nel pieno della sua carriera.
Per me fu un colpo. Cominciai a pensare spesso a quel vecchio. Dove andava? E chi lo pagava? E per fare che cosa?
Provai a interrogare Alfio, il portiere.
“Del dottor Osvaldo Crovi (Osvaldo Crovi: che nome dal suono sgradevole! Mi venne istintivamente da pensare) mi ha parlato abbastanza a lungo mio padre. “Pure lui portiere nel nostro stabile. “Diceva che aveva avuto un vita tristissima. Gli era morto, a otto anni, il figlioletto tanto amato. Per una malattia rara e strana… che mio padre mi ha citato… anche se adesso non me la ricordo. Fu qualcosa di terribile, d’invivibile, sia per lui, che per la moglie, la signora Elvira. Anche se nel loro caso – non succede sempre così ‒ contribuì ad unirli ancora di più. Li rivedo come se fosse ieri parlare piano piano fra loro, ridacchiare, scambiarsi piccoli baci con un’intimità e un trasporto rimasti vivi e immutati nonostante il tanto tempo trascorso insieme. Poi, una decina d’anni fa, è morta anche la signora Elvira e il dottor Osvaldo è restato solo solo in un appartamento di quattro stanze troppo grande per lui. E dico solo solo perché non solamente non ho mai visto nessuno venirlo a trovare o magari accompagnarsi a lui per andare da qualche parte ma non l’ho mai visto neppure parlare con un’altra persona almeno per un po’, almeno per cinque minuti. È cortesissimo, impeccabile, saluta tutti, ma con una rapidità e una freddezza che tengono a distanza. Però, come ha notato anche lei, tutte le mattine, dal lunedì al sabato, verso le otto, se ne va con una grossa borsa che sembra piena di carte e ritorna verso le due, le due e mezza del pomeriggio. È evidente che non ha abbandonato il suo lavoro.”
“Infatti è difficile trovare un’altra spiegazione… ma si può ricostruire la sua età?”
“Ricostruire… mio padre mi diceva che quando è venuto ad abitare qui, nel ’61, nel millenovecentosessantuno, era già sposato ma molto giovane… ventiquattro venticinque anni…”
“Quindi oggi ne potrebbe avere addirittura ottantasei…”
“Più o meno…”
Il racconto del portiere riuscì in qualche modo a tranquillizzarmi. Sì… certo… la cosa era chiara: al dottor Crovi, solo fino all’osso, era rimasto esclusivamente il suo vecchio lavoro ‒ probabilmente di amministratore, di contabile, donde la borsa sempre gonfia – e il suo principale non se l’era sentita di mandarlo via e lo faceva andare in ufficio per mezza giornata. D’altronde, già pensionato, pretendeva poco e, in alcuni lavori sedentari, che non richiedono un grosso sforzo fisico, l’esperienza conta molto. Mi dissi che l’unica spiegazione possibile era questa: non poteva essercene nessun’altra. Mi racquetai, mi sentii molto meglio e cominciai a non pensare più al vecchio.
Sono certo tutto sarebbe finito lì, non fosse stato che una mattina lo incrociai per le scale ma me lo ritrovai davanti in strada che andava chissà dove, rapido, deciso e animoso come qualcuno che si appresti a compiere una grande impresa. La cosa mi offendeva… non poteva non offendermi. Lo seguii. Alla fine della via svoltò a sinistra. In quella zona le mura del casamento popolare che stavo fiancheggiando formavano una rientranza ad angolo acuto: mi ci rannicchiai dentro e ripresi a spiarlo. Era sotto un policromo tabellone metallico che descriveva il percorso d’un autobus, l’85, che collega l’Appio-Tuscolano al centro. Quella fermata in una stradetta secondaria e angusta, dove le persone in attesa erano rare, aveva un’aria vagamente assurda, vagamente surreale: sembrava una sopravvivenza dei tempi andati rimasta miracolosamente intatta. Ebbi subito l’impressione che si attagliasse in modo perfetto al vecchio. Questi trascorse i sette minuti che lo separavano dall’arrivo dell’autobus tutto tranquillo e pacioso, senza il minimo di quegli scatti d’impazienza così caratteristici fra coloro che sono abituati a servirsi dei mezzi pubblici. Evidentemente, in tanti anni, doveva proprio averci fatto il callo. Non appena l’85 gli si fermò davanti sferragliando, balzò su dalla porta centrale. Io, con una piccola corsa, entrai dalla prima delle due laterali. L’autobus era ancora quasi vuoto: mi sistemai facilmente in fondo in fondo, da dove potevo vedere bene il vecchio che invece si era accomodato vicino al conducente, su un sedile singolo, e ora tirava fuori il giornale dalla borsa, lo spalancava, lo scorreva un po’ e infine lo ripiegava per leggere meglio l’articolo di suo interesse. Il tutto con un agio e una disinvoltura davvero eccessivi: sembrava si trovasse nel salotto di casa sua. La cosa mi diede fastidio. Addirittura in qualche modo mi turbò.
I minuti passavano, l’85 cominciava a riempirsi, il vecchio seguitava a leggere beatamente il giornale: non succedeva niente… niente di particolare, niente d’importante. Fui sopraffatto da un sentimento di delusione, di profonda assurdità riguardo a quanto andavo facendo. D’altra parte ero arrivato nei pressi di piazza dei Re di Roma: il mio studio si trovava lì vicino. Scesi. Tuttavia, mentre lo raggiungevo a piedi, non riuscivo proprio a concentrarmi sulla causa – peraltro molto importante – di cui di lì a poco avrei dovuto discutere con i miei colleghi: il pensiero del vecchio continuava a riaffacciarmisi alla mente ossessivo.
E fu così per diversi giorni: ormai sapere dove diavolo andava ogni mattina era diventato per me una necessità assoluta.
Alla fine mi decisi: mi nascosi dietro i cespugli d’un giardinetto nei pressi della strada che doveva percorrere il vecchio. Non fui deluso: puntualmente, alle otto e sei minuti, era lì, che se ne andava tutto energico e ardimentoso chissà dove. Lo seguii. Le cose si svolsero pressappoco come la prima volta. Poi l’85 passò sotto le mura aureliane abbandonando la zona di San Giovanni. Un tratto di via Merulana, via Labicana, il Colosseo. E, attraversata piazza Venezia, già imboccavamo via del Corso. Ma dove cavolo lavorava? In uno studio del centro? Era possibile? Finalmente scese e io con lui. Mi parve che la sua andatura fosse profondamente cambiata: non più asciutta e risoluta come poco prima bensì lenta, ieratica, solenne… sì sì, proprio solenne. Arrivò a piazza Grazioli e si fermò davanti a un edificio che mi apparve qualcosa di unico e di bizzarro: un enorme casamento popolare, ai suoi tempi moderno, in pieno centro storico. Non troppo alto – cinque sei piani al massimo – orizzontalmente era lunghissimo, interminabile: quasi quasi l’occhio faceva fatica ad abbracciarlo. E brulicante d’infinite finestrelle colla doppia persiana e di tanti balconi piccoli piccoli. Il colore della facciata – un tempo probabilmente acceso ‒ era ormai in gran parte colato via e predominavano tutta una serie di chiazze, fra il rossastro e il biancastro. Il vecchio rimase a fissarlo per tre quattro minuti buoni. Poi se ne distolse e riprese il suo cammino. Arrivato in via di Santo Stefano Del Cacco, entrò in una chiesa. Io feci lo stesso. La chiesa era molto diversa da quelle che conoscevo: vaste, ariose, spaziose, e quasi sempre, anche se antiche, tutte tirate a lucido. Questa mi sembrò troppo piccola, e angusta, e soffocante. E poi tenuta male: era evidente il suo sfacelo. Eppure con un che di singolarmente vivo rispetto alle altre che volevano essere innaturalmente attuali: questa chiesa era qualcosa di vetusto, di stantio, d’ irrancidito che si sforzava di continuare a esistere contro tutto e contro tutti. Il vecchio, comunque, ci si muoveva con una disinvoltura, una sicurezza e una padronanza assolute: come sull’autobus, quando si era messo a leggere il giornale, dava l’impressione di essere a casa sua. Si soffermò su un affresco in cui addirittura il volto del Salvatore era stato cancellato dal tempo. Quindi davanti a uno spropositato crocifisso con un Cristo dal corpo di Ercole troppo bianco, troppo nudo – solo uno straccetto sul pube – e con grandi chiodi scuri conficcati nelle palme delle mani e nei dorsi dei piedi da cui fuoriusciva un falsissimo sangue scarlatto il cui colore però era misteriosamente, miracolosamente, rimasto immacolato e acceso, il che lo rendeva più vero del vero. Infine si abbandonò con tutto il suo peso su un inginocchiatoio tutto consunto e scricchiolante, tanto che ebbi il timore non lo reggesse. Abbastanza al di sopra di questo v’era una nicchia – alta, vasta, profonda, tutta foderata di antiche stoffe preziose e protetta da un vetro molto spesso – in cui era stata collocata qualcosa fra l’enorme bambola e l’idolo raffigurante una madonna in manto celeste e ricchissima veste d’oro che nella mano destra reggeva uno scettro e sul braccio, sempre destro, allungato aveva un Gesù bambino piccolissimo ma avvolto in una veste dorata ricca quanto la sua. Il volto della Vergine era bronzeo e grigio e guardava il vecchio ai suoi piedi con un’espressione ambigua, severa, sfuggente. Questi, intanto, aveva congiunto le mani e vi aveva affondato il viso ripiegandosi, raggomitolandosi tutto su se stesso. Spesso e volentieri sembrava scosso da tremori, da singhiozzi. Più che pregare, implorava. Rimase così per un tempo che mi parve interminabile. Nel mentre, intrappolato lì dentro, io cominciai a sentirmi male. Qualcosa di tedioso, estenuato, snervante, dolciastro, doloroso mi stava prendendo alle tempie e alla bocca dello stomaco. Non ce la facevo più. Stavo per scappar via ma il vecchio mi precedé e, tornato all’improvviso tutto energico e risoluto, finalmente abbandonò la chiesa.
Adesso mi sembrava che l’andatura del vecchio si fosse fatta leggera, armoniosa, in qualche modo danzante. In breve arrivò a largo di Torre Argentina che, nonostante il freddo, vibrava di luce. Io tornai a respirare a pieni polmoni: mi sentivo sgravato d’un peso enorme. Mi pareva d’esser tornato nel mondo vivo, vero, palpitante di modernità. Mi fece piacere che il vecchio entrasse alla Feltrinelli dove indugiò a lungo nel reparto DVD per uscirne poi con quattro o cinque vecchi film americani. Cominciai a tentare di convincermi che quello a cui stavo assistendo era qualcosa di assolutamente normale.
Quel maledetto vecchio, però, sembrava instancabile, ne inventava sempre una nuova e di lì a poco era in via della Rotonda, davanti a un locale arcaico e piccolissimo, incorniciato di vecchio buon marmo che aveva resistito bene al passar degli anni e su cui in alto, su quello che era una specie di frontespizio, erano state incise grandi lettere maiuscole che formavano la parola: TRATTORIA. Al di sotto, una porta abbastanza stretta e una vetrinotta abbastanza larga su cui erano inesorabilmente abbassate due saracinesche sudice e scrostate: si poteva facilmente presumere da non poco tempo. Ora però potevo vedere meglio l’espressione del vecchio che tuttavia era poco definibile. Non avresti potuto decidere se dolcemente trasognata o piattamente idiota.
Trascorsero così un bel po’ di minuti. Poi l’uomo riprese a muoversi e si avvicinò a un negozio altrettanto arcaico e minuscolo della la trattoria abbandonata anche se probabilmente ancora in attività. Aveva un’insegna in spesso vetro nerofumo su cui spiccava in maiuscole bianche la scritta: SI RIPARANO OROLOGI accanto alla quale era dipinto in modo bizzarramente, anacronisticamente naif un orologio inverosimilmente stretto e oblungo, dal quadrante nero e la cerchiatura oro. Sotto, una porta piccolissima e una vetrinetta: su entrambe erano calate delle tendine in spessa mussola candida, crespose, cispose, antiche, qui e là con qualche lieve e abile rammendo. Nascondevano completamente ciò che accadeva all’interno del negozio. Il vecchio entrò e ci si trattenne per più di mezz’ora. Cosa stava facendo lì dentro? Il fatto che, appena uscito, diede una rapida occhiata all’orologio che portava al polso destro poteva far pensare che, molto semplicemente, se lo era fatto riparare in quel negozio. Ma una spiegazione del genere non mi bastava, non mi soddisfaceva…
L’ambiguo vagabondare del vecchio lo condusse in una gelateria, Il Fiocco di Neve, anch’essa incredibilmente angusta seppure assai pacchianamente rammodernata. Su un tabellone fuori si parlava addirittura di gelati senza glutine. Il vecchio vi penetrò e vi rimase un’eternità. Andavo avanti e indietro nei pressi del locale e lo vidi sorbirsi con una rilassatezza e una lentezza estreme – credeva che il tempo che Dio gli aveva concesso fosse infinito? ‒ prima una sontuosa coppa di gelato con doppia cialda in biscotto infilata dentro, quindi una gran tazza di cioccolato caldo alla panna. Fra l’altro notai che si stava insudiciando oscenamente la barba. Comunque non la finiva più. Guardai il mio di orologio: l’una meno dieci. Possibile che vuoi io, vuoi il vecchio, avessimo gettata via così l’intera mattinata?
Fortunatamente, con uno dei suoi scatti repentini, l’uomo si alzò, pagò e uscì. Adesso mi pareva che non solo nella sua andatura fattasi tutt’a un tratto assai rapida ma proprio nel suo corpo, proprio nelle più intime nervature del suo corpo, vi fosse qualcosa di allegro, di soddisfatto, di pieno, come fosse riuscito ad adempiere a un compito per lui molto importante…
Attraversata via del Pozzo delle Cornacchie, raggiunse via di Ripetta dove, in fondo in fondo, ci sono le fermate di molti autobus. Aspettò con la solita angelica pazienza che arrivasse il suo ‒ e questa volta l’attesa durò più di venti minuti – vi salì, trovò un posto singolo abbastanza comodo e si mise immancabilmente a leggere il giornale. Io gli ero sempre alle costole. L’autobus, l’87, aveva il capolinea a piazza dei Colli Albani, vicinissima al nostro palazzo.
Mi sentivo profondamente turbato da quanto avevo visto. Il giorno dopo non mi curai di nessun altro impegno e tornai a seguirlo un’altra volta.
Mi nascosi dietro i cespugli del giardinetto ed egli arrivò puntualissimo. Gli fui subito dietro. Tutt’a un tratto ebbi un tuffo al cuore, provai una sorta di mancamento: il vecchio, invece di arrestarsi nei pressi della fermata dell’85, continuò ad andare e, più animoso e ardimentoso che mai, imboccò un’agile stradetta in discesa che lo ricondusse in piazza dei Colli Albani. La piazza era troppo vasta, troppo crudamente e vividamente illuminata dal sole, troppo piena di taxi e autobus che andavano e venivano frenetici… Io mi ci sentivo sperso e schiacciato insieme. Mi sembrò di non riuscire più a respirare. Ma perché quel maledetto vecchio aveva cambiato il suo itinerario? Perché voleva tormentarmi così?
Fui capace d’un enorme sforzo su me stesso: mi calmai, ripresi le forze e, un po’ da lontano, sotto il grande e ombroso tendone di MacDonald, tornai a osservarlo mentre colla solita, incrollabile pazienza aspettava il suo autobus, questa volta il 671. Era veramente un maestro nel gettar via in modo insensato il poco tempo che gli rimaneva e anche in questa occasione passarono così più di una quindicina di minuti. Come Dio volle, alla fine, l’autobus arrivò; lui ci salì su e anch’io ‒ potevo forse comportarmi altrimenti? – con una breve corsa un po’ affannosa riuscii a saltarvi dentro.
Il vecchio si accomodò e prese a leggere il giornale, il che, devo dire, mi rasserenò non poco. Avevo l’impressione di tornare su un terreno ben conosciuto, nel quale potevo muovermi con un certo agio. Fu dopo che anche il 671, all’altezza di Porta Metronia, abbandonò le mura aureliane e, attraversato un breve tratto delle Terme di Caracalla, s’immise sulla Colombo, una strada troppo complicata, con troppe corsie, troppi semafori, troppe uscite da una parte e dall’altra, difficilissima da controllare, fu allora dicevo che ricominciai a sentire con grande chiarezza che tutto vacillava, che ogni ordine era perduto. Dove stavamo andando? Cosa sarebbe accaduto di lì a poco? Ormai l’angoscia mi trafiggeva spietatamente il ventre.
A un certo punto, pressappoco all’altezza di piazza dei Navigatori, scese. Ora stavamo attraversando dei prati dall’erba secca e ingiallita, traboccanti d’immondizia. Poi ci trovammo sulla sinistra il concavo, mastodontico palazzone della regione Lazio, tutto vetrate bluastre e cemento grigio e sulla destra il Mongiovino, un macabro teatro di marionette. Infine entrammo in un mondo più umano. Il vecchio percorse tutta via Guglielmo Massaia e si fermò in uno spiazzo davanti al quale si trovava un caseggiato introdotto da uno smisurato portico a forma di mezzaluna, la cui curvatura era amplissima, lentissima, semplicissima, eppure con qualcosa di vagamente solenne proprio nella sua semplicità. Sopra, un grande balcone che era stato diviso in diversi altri più piccoli mediante frammezzi metallici. Sotto, cinque sei gradini stretti ma lunghissimi, anch’essi di forma semicircolare, sovrapposti l’uno all’altro in modo che il soprastante fosse sempre leggermente più breve del sottostante. Esattamente in mezzo a loro una ringhiera in ferro, ancora solidissima, anche se la sua intima consunzione le aveva ormai conferito un colore nerastro. I gradini conducevano a un atrio, un po’ nascosto dal portico, dove, l’uno di fronte all’altro, si trovavano gli usci dei primi due appartamenti. Oltre, il primo cortile con una fontanella sulla quale erano scolpiti due putti che avrebbero dovuto versar acqua dalle anfore tenute sotto il braccio reclinate ma tutto era screpolato, polveroso e inaridito da gran tempo. Dietro il cortile s’intravedevano tante palazzine dalle linee essenziali non prive d’una loro eleganza.
Il vecchio rimase lì davanti, a fissare il casamento, con quella sua espressione forse trasognata, forse idiota, per tre o quattro minuti buoni.
Fu allora che capii. Che afferrai. Che tutto mi divenne orribilmente chiaro.
Difatti il seguito della mattinata non fece che confermare la mia intuizione. Egli entrò in una chiesa e si raccomandò alla Madonna, acquistò dei DVD, si soffermò davanti a una trattoria chiusa… faceva sempre le stesse identiche cose. O forse no. Forse non riesco a essere del tutto esatto. Sarebbe stato impossibile fare in ogni occasione le stesse medesime cose. Egli compiva delle azioni sottilmente, perversamente analoghe a quelle che aveva già mandato ad effetto il giorno precedente. In lui non c’era nulla di spontaneo, di autentico, di davvero vivo: tutto quello che faceva era stato meticolosamente e malignamente architettato da molto prima.
Continuando a pedinarlo scoprii che aveva in tutto sei itinerari ognuno dei quali era inesorabilmente connesso a un ben preciso giorno della settimana: lunedì il centro storico, martedì la Garbatella, mercoledì la zona intorno a piazza San Giovanni, giovedì il rione Monti, venerdì Tor di Nona, sabato i borghi antistanti il Vaticano. Di domenica – almeno in questo era simile a tutti – riposava e rimaneva chiuso in casa. Non andava mai – assolutamente mai – in altri quartieri; né tantomeno fuori Roma. In tutti quei posti ripeteva all’infinito le azioni che ho già descritto e di cui sembrava non stancarsi mai.
Com’ è ovvio, dagli e dagli, si accorse della mia presenza. Ma non se ne curava minimamente: continuava a fare – spudoratamente, oscenamente – quel che doveva fare come fosse nella più completa solitudine. D’altronde nel suo agire v’era qualcosa di profondamente contraddittorio: da un lato era evidente come tutto fosse preordinato; al tempo stesso però tutto era… come si può dire?… in qualche modo… ispirato. Mi faceva pensare a un attore che sta recitando per l’ennesima volta un testo classico che non ammette la minima variazione e che lui peraltro conosce a menadito ma che per questo non si stanca anzi si esalta, fino ad essere rapito da una specie d’ebbrezza bizzarra e travolgente.
Sopraggiunse un periodo incerto: ora che avevo svelato il suo segreto non sapevo bene come fosse giusto comportarsi. Alla fine ci fu la classica goccia che fa traboccare il vaso.
Un bel giorno, scendendo dall’autobus con una fretta assai insolita in lui, chiuse male la borsa e, senza che se ne accorgesse, il giornale scivolò via, in terra. Non appena fu abbastanza lontano, mi ci gettai sopra, lo raccolsi e cominciai a scorrerlo. In quel momento l’obbrobrio che provavo per la sua attività malata non ebbe più limiti.
Il giornale era una copia di Paese sera – una testata che non esiste più da tanto tempo – esattamente di mercoledì 8 Luglio 1964. Spiccavano le notizie: “Ciombè ha formato il nuovo Governo del Congo”, “Le donne americane e le pillole di Pincus”, “Scoperto il fidanzato segreto di Rita Pavone”. Non potevo sopportare una cosa del genere. Dovevo fare qualcosa. Decisi di denunciarlo all’autorità costituita.
Il carabiniere che mi ricevé, nonostante la sua giovane età – venticinque ventisei anni, credo ‒, sembrava tutto compreso del suo grave ruolo. Il che mi rassicurò profondamente. Lo avvertii comunque che dovevo parlargli di un caso molto strano e scabroso.
“Sono di stanza a Roma già da un bel po’ di tempo: ne ho viste di tutti i colori. Piuttosto, se è lei che magari in un luogo più appartato si sente più a suo agio e riesce a dirmi tutto con più facilità, può seguirmi in quello che io chiamo il mio studio personale.”
Mi condusse a un’assai disadorna stanzettaccia dove i pochi mobili erano sgangherati e sporchi e mi sedette davanti. Poi corrugò la fronte e prese un’espressione severa, concentrata, attentissima: voleva dimostrare di essere pienamente all’altezza della difficile situazione che stavo per prospettargli. Man mano però che gli narravo per filo e per segno le folli azioni del vecchio, la fronte gli si spianò e il suo viso cominciò a essere percorso da sbuffi d’ilarità, finché non si mise francamente a ridere. Cercando di contenersi, disse:
“Mi scusi… ma a lei cosa gliene importa di quello che fa questo vecchio?”
“Ma niente! Solo che la sua attività malata e nefasta non può essere permessa!”
“Sarà un po’ rimbambito data l’ età… ammazzerà così il tempo perché non ha proprio nient’altro da fare… ma, a noi? E soprattutto, a me? Con tutto quello che succede a Roma dovrei occuparmi d’un vecchietto mezzo svanito che più innocuo non potrebbe essere?
Mi scusi ancora… lei un lavoro ce l’ha?”
“Perdinci! Sono avvocato tributarista.”
“Non ha cause per le mani in questo momento?”
“Ne ho di molto importanti. Lavoro nello studio del dottor Volpi. Non so se l’ha mai visto in televisione.”
“E allora… si dedichi un po’ di più al suo lavoro: sarà meglio per lei, per me e per il vecchio.”
Non capiva. Decisamente non riusciva a capire. Mi fece però ricordare che proprio in quel periodo stavamo trattando una causa riguardante uno psichiatra. Ecco l’uomo che faceva per me! Ecco chi avrebbe compreso tutta la follia che imperversava nella mente di quel vecchio!
Lo psichiatra, infatti, si dimostrò molto gentile e ben disposto e m’invitò a raccontargli i fatti. Durante tutta la narrazione rimase impassibile. Poi, a poco a poco, sul suo volto magro, colle guance incavate, dominato da grandi occhiali dalla cerchiatura metallica, si dipinse un’espressione… come potrei dire? sospettosa. Cominciò a farmi un sacco di domande: con chi vivevo, com’erano i rapporti con la mia fidanzata se ne avevo una, quali episodi della mia infanzia continuavano a tornarmi alla mente ancor oggi…
Restai sconcertato e terribilmente deluso: sembrava che per lui il pazzo fossi io invece del vecchio!
Ero solo, ferocemente solo: nessun altro si rendeva conto della mostruosità delle azioni di quel vecchiaccio bacucco!
Cominciarono a riaffiorarmi dentro certe sensazioni – crude, pungenti, vividissime – che risalivano ai tempi della mia infanzia, della mia adolescenza, quando – com’è successo a quasi tutti – mi era capitato di fare a botte con altri ragazzini della mia età. Mi venne il desiderio di far del male fisicamente al vecchio: era l’unico modo per dissuaderlo dal continuare nel suo agire dissipatorio e insensato… Anche il solo sentirmi più e più volte nella bocca l’espressione: “bastonare il vecchio” mi dava piacere.
A un certo punto capii che non sarei riuscito a trattenermi dal soddisfare concretamente la mia voglia. Il problema era che un bastone non ce l’avevo. Comprai allora con un pretesto una nuova scopa a mia madre, m’impadronii della vecchia e ne svitai il lungo manico in legno: non era particolarmente spesso e nodoso ma per un ultraottantenne poteva andare bene.
Infatti, quando mi vide salire dietro a lui sull’85 con quella cosa fra le mani, il vecchio, per la prima volta, mostrò di accorgersi di me ed ecco che ora mi lanciava spesso sguardi inquieti. Quando poi, uscendo come al solito dalla chiesa di via di Santo Stefano del Cacco, mi si ritrovò davanti che battevo ritmicamente con la mia arma sul selciato, smarrì del tutto quel suo aplomb ieratico e trasognato che per tanto tempo nulla era sembrato poter scalfire e prese a camminare frettoloso, irrequieto, a tratti convulso.
Ma fu a largo di Torre Argentina che consumai il mio trionfo, che mi tolsi il gusto di lacerare la fitta, vischiosissima, inestricabile trama di obblighi ai quali il vecchio doveva assolutamente adempiere. Lo vidi coi miei occhi che invece di entrare in libreria svoltava per largo delle Stimmate e, imboccando via de’ Cestari, si metteva a correre per sfuggirmi. Gli fui per l’ennesima volta alle calcagna, brandendo il mio bastone, ormai deciso a tutto.
A questo punto, ero davvero molto curioso riguardo la versione dei fatti che avrebbe dato il vecchio. I colpi ricevuti, tutto sommato, erano lievi; a pesare era stato lo spavento che gli aveva procurato un infarto. Comunque, quell’antica pellaccia ‒ a ottansette anni suonati: questa la sua vera età ‒ era riuscita a venirne fuori. Certo, le sue attuali condizioni non dovevano essere splendide… io però volevo sentirlo il prima possibile e, del tutto informalmente, nel normale orario di visita, andai a trovarlo in ospedale.
E così, finalmente, mi trovai davanti al famigerato vecchio. Anche se avvolto in coperte pesanti, da quel che si poteva vedere e magari intuire, fisicamente sembrava molto vicino a come me lo aveva descritto il giovanotto: robusto, corpulento, con barba e capelli candidi un po’ troppo esuberanti e certo non impeccabilmente curati. Nessuno era venuto a fargli visita.
Mi accostai io al suo letto: aveva un’aria profondamente spossata, anche se leggera, in qualche modo serena. Mi presentai:
“Buongiorno, signor Crovi. Sono il perito psicologico incaricato dalla polizia di farle qualche domanda.”
“Non oggi, per carità! Mi sento così stanco…”
C’era in lui qualcosa di genuinamente indifeso ma, insieme, di vagamente ambiguo…
“Oggi sono venuto soltanto per rompere il ghiaccio: i colloqui più impegnativi li faremo dopo, quando starà meglio.”
Non sapevo esattamente bene il perché ma non volevo mollare la presa. Tentai un affondo probabilmente poco leale:
“Ma cosa ci faceva quella mattina nei pressi del Pantheon?”
“Cosa può fare un vecchio di più d’ottant’ anni se non ricordare la sua vita passata?”
“Non c’è mica bisogno di vagabondare per Roma.”
“Ce n’è bisogno… eh sì, che ce n’è bisogno! Adesso però sia gentile…mi sento distrutto: devo dormire per un po’.”
“Non c’è problema: ci rivediamo fra un paio di settimane.”
Ebbi la sensazione di andarmene a mani vuote: ero sinceramente deluso di me stesso. E comunque, in fondo in fondo, c’era davvero qualcosa d’irritante in quel vecchio: voleva chiaramente sfuggire anche a me. Mi consolai pensando che avrei auto tutto il tempo per cambiare quella situazione.
Invece, il tempo non ci fu. Due giorni dopo, un’embolia cerebrale, una gocciolina di sangue che si era improvvisamente bloccata nei capillari di quel vetusto cervello, se lo portò via in un attimo.
Sic transit gloria mundi!
OTTO ANNI DOPO
Per tante ragioni (il risultare del tutto incensurato, la mia relazione sulla sua salute psichica, il fatto che non si presentasse nessuno in tribunale a reclamare un risarcimento di qualsiasi tipo per la morte del vecchio, un avvocato piuttosto scaltro) il giovanotto se la cavò con solo sei mesi di carcere. Poi lo presi in analisi da me e posso dire d’aver fatto un buon lavoro: ha lasciato la casa dei genitori, si è sposato e ha una bella bambina; ha mietuto notevoli successi nella sua attività e adesso è lui ad apparire in televisione. In breve ha imparato a sopportare ‒ come direbbe Freud – la nostra comune e inevitabile infelicità e a godersi appieno le piccole soddisfazioni che, di tanto in tanto, ci capitano.
In una bella mattinata di sole m’imbatto in lui. È particolarmente sereno e allegro: sta per aprire uno studio tributario tutto suo. Prendiamo qualcosa al bar a sue spese. Quando usciamo dal locale non possiamo fare a meno d’accorgerci d’un omone grande e grosso, sproporzionato e malfatto, dagli abiti consunti e stazzonati, l’espressione da bestia ottusa. Si sbraca in un angolo, incurante della sporcizia che trasuda dal selciato e dai muri, e tende la mano aggressivo a chi gli passa davanti bofonchiando con voce roca, profonda, incattivita:
“Damme quarche cosa! Damme quarche cosa, che tu li sordi ce l’hai!”
Anche il suo greve romanesco bastardo non lo rende particolarmente simpatico.
Il mio ex-paziente ne è attratto: all’improvviso mi abbandona e gli si fa accosto accosto. Non posso fare a meno di seguirlo. Ora fissa il tizio con un gelido sguardo abbacinato tanto che l’omone ammutolisce pieno di sconcerto, forse già vagamente timoroso. Tutto il corpo del mio expaziente è percorso da strani brividi. Le sue mani poi sono preda di movimenti tentacolari, come se avessero una voglia irresistibile di stringere qualcosa di contundente, qualcosa che faccia male. Magari tra breve sarò costretto a intervenire. Intanto mi vien da pensare che l’arte mia, che coltivo con tanto amore, la psicanalisi, ha purtroppo limiti invalicabili…