Oltre al sonno e alla concentrazione ci sono anche altre cose che non sono state dette a nessuno.
Giornate intere che scompaiono, e brevi attimi che diventano un’eternità.

(Peter Høeg)

domenica 15 aprile 2018

SPIGOLATURE di Gualberto Alvino


     Scrive il filosofo Massimo Cacciari: «Non so se la parola poetica (il “fare del canto”, come a me piace dire) conduca all’“essenza delle cose”. Lascerei a (antichi) filosofi la pretesa. Io credo (più “modestamente”) che la parola poetica sia crisi (giudizio, decisione, metamorfosi, catastrofe) del già-detto. Più radicalmente, la poesia, nel linguaggio, è chiamata a far sentire l’ontologica differenza (crisi) tra linguaggio e realtà. La parola della poesia è sempre la parola-che-manca».[1]
     Quale scintillante verità si celerà sotto questa crepitante efflorescenza di parentesi virgolette corsivi traits d’union, a mimare un pensiero inesausto, mai pago, sempre pronto a rinnegarsi, scavando in sé alla ricerca di nicchie anfratti doppifondi, come deve fare il vero pensiero?
     Che dite? Scavare va bene, ma vediamo il contenuto delle nicchie? D'accordo.
     Prima nicchia: la poesia è il fare del canto. Efficace come definizione, non trovate? Rotonda, concisa, intrigante. Avessimo noi questa proprietà di linguaggio, questa straordinaria capacità di… Be’, lo ammetto: su fare nulla da dire (dal greco poieîn, che significa appunto questo), ma giurare che tutta la poesia sia canto può essere lievemente azzardato.
     Però sulla seconda nicchia non avrete niente da eccepire, ne sono sicuro: crisi sta per «giudizio, decisione, metamorfosi, catastrofe». Che ve ne pare?… Sì, ammetto anche questo: giudizio e decisione vanno benone ― e andrebbero bene anche scelta, lotta, esito, interpretazione ―, ma metamorfosi e catastrofe… Che dizionarî avra mai compulsato l'ex sior sindaco?
     In fondo si tratta di quisquilie, ne convenite? O credete che una minima sbadataggine possa pregiudicare… Va bene, procediamo.
     Terza nicchia. La parola poetica è catastrofe del già-detto. Dio, che frase! Sì, quel trattino non serviva a niente, però come agghinda la scrittura! Già… ora che ci penso è un truismo, e dei peggiori. Lo capisco da me, non c’è bisogno di alzare la voce. In effetti la poesia che replica il già detto non è poesia; sarebbe come asserire che di mamma ce n’è una sola o che la scultura è l’arte del togliere, e spacciare queste banalità per opinioni personali, frutto d’un intenso travaglio speculativo.
     Quarta nicchia. «La poesia, nel linguaggio, è chiamata a far sentire l’ontologica differenza (crisi) tra linguaggio e realtà». Ecco un’altra accezione del termine crisi: «differenza». Quale dizionario lo attesta? Nessuno. E allora? Non si può inventare nulla? Questa è pignoleria bell’e buona, signori! Perché in corsivo sentire? Semplice: per ribadirne il valore etimologico: dal latino sentio ‘percepisco, intendo’. Come? Anche in italiano significa questo? Confesso che non ci avevo pensato. Insomma, perdio, Cacciari è ordinario d’Estetica, è stato tra i fondatori di alcune delle più importanti riviste italiane di filosofia e cultura, da «Angelus Novus» a «Contropiano» a «Laboratorio politico» al «Centauro»; è membro di diverse istituzioni filosofiche europee, tra cui il Collège de philosophie di Parigi. Un uomo di questa statura avrà pure qualcosa d’interessante da dire, no? Sull’ultima nicchia dovrete abbassare le penne: «La parola della poesia è sempre la parola-che-manca»; scilicet: ‘la poesia non replica mai il già detto’. Questa sono arcisicuro di non averla mai sentita. E voi?


      [1] Massimo Cacciari, Il Possibile ulteriore, «Anterem», xxxii, 74, 2007, p. 25.