Oltre al sonno e alla concentrazione ci sono anche altre cose che non sono state dette a nessuno.
Giornate intere che scompaiono, e brevi attimi che diventano un’eternità.

(Peter Høeg)

martedì 22 dicembre 2009

Canto di Natale




Faceva un tempo da schifo, un freddo che spaccava le ossa, vento tagliente, pioggia a gocce chiodate e un cielo scuro come l'ansia. I mobili Aiazzone comprati vent'anni prima si sgretolavano sotto la morsa del gelo che entrava dagli spifferi grandi come canali degli infissi scalcagnati delle finestre, due delle quali al posto del vetro c'avevano due tavole di compensato attaccate col silicone, ormai semi scollato. Il televisore trasmetteva ininterrottamente un effetto neve frusciante, il decoder non ce l'aveva, un apparecchio nuovo manco a parlarne, tanto valeva spegnerlo. Ma sua suocera si ostinava ad accenderlo e a passarci le giornate davanti, con lo sguardo fisso e un sorriso ebete, da rincoglionita qual'era. Per rispetto a sua moglie la lasciava fare. Tanto tra un po' avrebbero tagliato la corrente elettrica e sua suocera avrebbe fissato lo schermo spento. I bambini, per così dire visto che erano adolescenti animaleschi, s'accapigliavano, come sempre, dandosele selvaggiamente, ma non litigavano, erano esuberanti, così diceva sua moglie, sfogavano e basta, era il loro modo di giocare. Almeno così s'accaldano e non sentono troppo 'sto freddo pazzesco, pensò. Sua moglie rimestava il pentolone grande, nel quale bollivano da ore due carcasse di pollo. Comprate al supermercato. Il marketing s'era adattato alla crisi. Incellofanate, su vassoietti di polistirolo bianco fulgido, sotto la luce del bancone macelleria, erano apparse queste meraviglie, a sessanta centesimi al chilo, ti portavi a casa un pollo, senza petto e senza cosce. Ma almeno ti sembrava di potertelo permettere, un pollo. Visto che erano in cinque a mangiare, per le feste sua moglie ne aveva comprati due. Avevano il pregio che a forza di rosicchiarli e succhiare le ossa, ti stancavi e ti passava la fame. In più c'era il brodo, che era sempre meglio di quello dei dadi, che tra l'altro erano più costosi. L'odore era buono, faceva venire l'acquolina in bocca, ma questo era uno svantaggio, perché quando tutto arrivava in tavola, il niente che era straziava l'anima e il corpo. Ciò nonostante sua moglie canticchiava. Che cazzo c'hai da cantare, pensava Natale, siamo nella merda, mangeremo quattro ossa e una tazza di brodo; tua madre è rimbecillita davanti al televisore scassato e ogni tanto chiama tuo padre, che è morto da vent'anni, e lo rimprovera per qualche minchiata che avrà fatto quarantanni prima e che è una delle poche cose che ormai si ricorda; i tuoi figli, i nostri figli, sono due idioti violenti che a scuola vanno malissimo fin dall'asilo nido e il buongiorno si vede dal mattino; tu sei patetica con quella camicia rosa coi volant, attillata sopra la ciccia da quarantenne esausta, quella pantacollant ti fa un culo a mappamondo che a te ti fa sentire la cugina di Jennifer Lopez ma tanto io lo so che quando te la togli la forza di gravità te lo schianta, e io sono un fallito disoccupato, a cinquantanni passati, c'è la crisi, che ci vuoi fare, passerà, sta già passando: si come no, sopra di me sta passando, come un tritacarne e che cazzo c'avrai da cantare, eh? Boh.
Gli girano i coglioni a Natale e per non litigare con sua moglie, per non ammazzare sua suocera e buttarla nella pentola a tocchi insieme alle carcasse di pollo, per non legare col filo spinato quei figli che a tredici e quattordici anni hanno testosterone e idiozia pompati dappertutto, acchiappa la giacca a vento ed esce. Torno più tardi. Copriti bene che fa freddo, gli fa la moglie. Sì.
Il freddo, così di colpo, come una tavolata sulla faccia, appena fuori, lo fa barcollare. Ma è troppo incazzato e cammina a passi lunghi e saltellanti, una specie di corsa da struzzo nella galleria del vento, un due tre, un due tre, un due tre... Sbuffa anche, sbuffa e smadonna, sbuffa e smadonna. Birubìp. Birubìp. E si ferma. Un cazzone col suv. Ha messo l'antifurto, col telecomando, ma avrà schiacciato due volte oppure con 'sto freddo l'impianto elettrico dell'auto è andato in pappa, fatto sta che il tipo si sta allontanando, ma l'auto l'ha chiusa e riaperta, senza accorgersene. Natale lo vede sparire dentro a un portone, carico di pacchi infiocchettati e buste griffate. Stronzo, pensa. Gli fa rabbia, gli fa invidia. Però se lo ricorda che anche lui fino a qualche anno prima, tornava a casa con i pacchetti regalo, senza Suv e i regalini erano modesti, ma tutto aveva una sua dignità, Natale aveva dignità, la sua vita, piccola ma dignitosa.
S'avvicina all'auto. Sbircia intorno. Non c'è nessuno. Apre la portiera ed entra. Si siede al posto di guida e poggia le mani sul volante. Quant'è alta 'sta macchina, paiono camioncini 'sti Suv. Esagerati. Però è figo starci sopra. Ti senti forte. Potente. 'Na stronzata, ma fa bene. A uno come a me fa bene davvero, pensa. Un po'. Un po' poco, ma adesso mi pare tanto. Che fregatura, pure 'sto Suv. Nel calore dell'abitacolo, sospira, guarda avanti a sé il parabrezza appannato. Si addormenta. Senza sogni, come se scivolasse dentro un tubo nero e caldo. Di botto una musichetta esasperata invade il vano dell'auto, Natale sobbalza, si sveglia, si rende conto che il tipo ha dimenticato il cellulare, apre la portiera e schizza fuori. Corre via. Ma fa in tempo a incrociare l'uomo che sta andando a recuperare il telefonino. Giusto in tempo, pensa, mi mettevo nei guai ancora di più, e tanto non la rubavo, non so nemmeno come si fa a farla partire senza chiavi, e poi adesso con 'sti gps, pure se fai cento chilometri ti rintracciano. Soprattutto non sono un ladro, ancora no. Sono onesto. Un coglione fottuto, ma onesto, io. Fino alla fine. Non serve a niente, se sto come sto, ma sono così, colpa di mia madre, di mio padre, di tutti quei buoni principi che mi stanno dentro e addosso e non si scollano nemmeno se sono disperato, come adesso.
Le campane elettriche di una chiesa vicina suonano perdendo colpi.
Natale ricomincia a correre stile struzzo, aggiungendo dei movimenti di braccia e colpi di mani sulle cosce per non farle gelare. E corre e salta. Non se ne accorge subito del cane che lo insegue. Una specie di cane bastardo con un ricordo antico di cane lupo nella testa e nella coda, con un corpo a botte, di colore smerdato, che testimonia generazioni di meticciato trombante. Poi il cane lo supera, in un guizzo di esaltazione canina, corre un poco avanti, si ferma, salta, gli va incontro, salta ancora, riparte avanti. Per un attimo Natale si spaventa, pensa che il cane voglia aggredirlo, ma subito dopo capisce che quel cazzone vuole giocare. Perciò continua a correre, a saltare, a battere le mani, agitare le braccia, col cane che lo imita, corre, salta e invece di muovere le braccia, scuote la testa e agita le orecchie. Ogni tanto incrociano un Babbo Natale di plastica gonfiabile e Natale, senza smettere di correre gli molla un calcio o uno schiaffone in faccia.
Si fermano davanti a un cassonetto che sembra non puzzare, tanto è il freddo. Natale si piega e respira affannato. Gli duole il fianco. Suda persino. Il cane si ferma, gironzola, sbuffa, sniffa il cassonetto, alza la zampa e gli schizza su una pisciatina. Natale continua il gioco d'imitazione tra lui e il bastardone, piscia anche lui sul cassonetto. Ahhh. Ci voleva. Sente di nuovo il freddo. Una specie di manina gelida sul collo. E si volta di scatto. Nessuno. La strada è deserta. La luce giallastra dei lampioni è ovattata da un'infinità di macchioline bianche. Nevica. A Natale nevica. Quando cazzo mai ha nevicato qui? Ma nevica. Fa un freddo bestiale e nevica. Bello. Guarda il cane che s'è seduto e con la zampa si da colpetti sulle orecchie, a scacciare i fiocchi che lo colpiscono lievi e freddi. È neve, dice Natale al cane. È solo neve. Non avere paura. È bella da vedere, no? Ti piace?
E il cane gli risponde. Alza il muso e mugola, mugola forte, mugola tanto fino a ululare. Ulula a lungo. E anche Natale ulula. Ulula, ulula. Uuuuuuhhhhhh. Uuuuuuuuuuuhhhhh. Da soli, nella notte, come un canto lungo e modulato, soli e insieme, ululano, cantano come bestie, cantano nella neve, bianca come lo sconcerto che li attraversa, cantano, mentre Gesù sta nascendo.


© Francesco Randazzo - 2009

domenica 20 dicembre 2009

ARCENCIEL MONDO


ANTICIPAZIONI 2010
Presso la sede della libreria caffè Rinascita a Roma in Via P. Alpino, 48 dal 23 gennaio iniziano i nuovi appuntamenti del Progetto Arcenciel Mondo, curato da Regina Franceschini Mutini, Ivana Conte, Paola Bacchetti. Artisti italiani e internazionali vi danno appuntamento nelle seguenti date: sabato 23 gennaio dalle ore 18 Uemon Ikeda artista e performer giapponese e Massimo Giannotta poeta e traduttore della poesia giapponese; 20 febbraio dalle ore 18: Serge Uberti, pittore e scultore francese con Cristina Baruffi e Manuel Cassano. 20 marzo sempre alle ore 18 uno spettacolo di e con Marco Palladini scrittore e performer; 24 aprile ore 18 una serata di teatro: Paola Bacchetti in "Volontarie della libertà"

sabato 5 dicembre 2009

Gualberto Alvino. Parodiando

7. SANDRO VERONESI

— Sai una cosa stellina? — le chiedo osservando la frattale complessità del suo viso ovale e regolare.
— Cosa? — chiede lei mentre frotte di turisti giapponesi carichi di macchine fotografiche di ultima generazione accapano sotto gli archi con gran rumori: boing, sclomp, stu-tun, bumbumbum.
— Hanno appena rifatto il manto stradale e già c’è un’infinità di buche. Se non stiamo attenti ci rompiamo una gamba, se non peggio — dico io con atteggiamento particolarmente preoccupato.
— Solo una gamba dici? Qui si rischia di brutto, te lo dico io! — fa lei togliendosi un sassolino dalla scarpa, non solo metaforicamente.
— Sono d’accordo — rispondo facendomi largo tra i turisti giapponesi, uno dei quali ha un polso fasciato e ogni tanto se lo guarda come se fosse sorpreso o incuriosito; un altro, invece, sbircia di continuo l’orologio, come se avesse un appuntamento importantissimo al quale non può mancare. Noto che ha i tacchi alti ed è molto basso di statura: forse ha i tacchi alti proprio per compensare la bassa statura, mi sorprendo a pensare. Ma senza darlo a vedere, perché lei si infuria se si accorge che mi metto a pensare cose cazzutissime come questa. Le chiama contorsioni mentali, e forse ha ragione.
— Meno male — fa lei con gli occhi rimbombanti di dolcezza e di austerità al tempo stesso — che una volta, almeno una volta ti dichiari d’accordo con me. Cos’è, è morto il papa? È la prima volta, la prima volta in assoluto che ti sento dire che sei d’accordo con qualcosa che dico o penso. Dimmi la verità, lo dici solo per farmi contenta, non è così? Non ti conoscessi…
— Come sei abbronzata! L’abbronzatura ti dona moltissimo. Sei bellissima. Sbaglio o hai messo l’abbronzante che t’ho regalato io a Pasqua? Posso offrirti un caffè? — dico io come se niente fosse, con un sorriso incistato di nonchalance, facendo cadere il discorso da lei intrapreso, perché so che è molto pericoloso. Ormai la conosco come le mie tasche, e certi suoi discorsi so benissimo che tasso di pericolosità hanno e dove portano.
— Sì, ho messo il tuo abbronzante, è buonissimo sai? Dici un caffè? — fa lei abbastanza stralunata, mettendosi a riflettere molto a lungo, mentre il raglio di un clacson mi scuote da capo a piedi. Quando riflette sembra miope. È questo che mi è sempre piaciuto di lei, fin da subito.
— Non fare complimenti d’accordo? Ma se hai da fare non fa niente — dico.
— No non ho niente da fare. È che detesto il caffè. Magari un tè mi andrebbe di più — dichiara sinceramente lei. E questa sincerità la apprezzo molto.
— Va bene andiamo, c’è un bar proprio dall’altra parte della piazza — e glielo indico con il mento, zac, ma mi esce fuori un movimento goffo, simile a un tic, e una fitta di autocommiserazione mi trapassa dolorosamente il viso. Dovrò stare attento a quello che dico e soprattutto a come lo dico, altrimenti il tè con lei posso scordarmelo. Mi schiarisco la voce, tanto per fare qualcosa.
— Sì andiamo — dice lei ignorando il mio movimento. Non mi si fila nemmeno un po’, ma poi mi prende sottobraccio con un’allegria che mi sconcerta. Mi chiedo cos’abbia in mente.
— Sai mi sono sempre chiesta come fanno a trasformare la polvere in liquido. Sono cose così diverse tra di loro. Per me è e rimane un mistero indecifrabile — dice poi riflessiva e lievemente agitata, come ogni volta che tocca argomenti seri e scottanti.
— In effetti è una faccenda molto complicata. Tempo fa, quando facevo il consulente finanziario a Manhattan, un barman pakistano mi disse che fanno pressappoco così: mettono un po’ d’acqua a bollire, poi ci infilano dentro una bustina di tè, l’acqua penetra nella bustina, scioglie il tè e il tè è pronto. Però t’avverto che non so se crederci completamente: quel pakistano non era molto affidabile, anzi non lo era affatto, né come persona né tanto meno come barman.
— Straordinario! Chi l’avrebbe mai detto? Certo che la chimica è una cosa fantastica al giorno d’oggi!
— Fantastica? Diciamo pure meravigliosa — la correggo io stringendole forte un gomito e parte dell’avambraccio fino a farle male. Ma non tanto da farla gridare.
— Guarda, — le dico subito dopo — stanno arrivando altri giapponesi. È una vera e propria invasione. Sembrano pilotati da un’entità invisibile. Non sembra anche a te stellina?
— Sono d’accordissimo. Ho anch’io la tua stessa medesima sensazione — risponde lei incollandomi gli occhi addosso mentre una giapponese si soffia il naso minuscolo, talmente minuscolo che pare invisibile. Mi domando tra me cosa ci sia da soffiare e inoltre come faccia a produrre quel rombo assordante che fa voltare tutti i passanti.
— Ecco il bar. Entriamo? O hai cambiato idea? Se vuoi ci sediamo su una panchina a chiacchierare del più e del meno — dico poi distrattamente.
— Perché? — fa lei allarmata.
— Non lo so. Lo dico per te. Mi è sembrato che l’entusiasmo per il tè ti fosse improvvisamente passato — rispondo laconico sperando intensamente che lei insista per il tè.
— Oh no, grazie della premura ma un tè lo berrei molto volentieri. Magari prenderei anche un pasticcino piuttosto che un maritozzo con panna, ho qualcosa qui nello stomaco che… — dice mettendosi una mano sullo stomaco e massaggiandoselo con dei rapidi movimenti circolari. Noto che ha un’unghia senza smalto, cosa straordinaria per una persona attenta e precisa come lei. Che cosa le starà succedendo?
— D’altra parte, come potrebbe essere altrimenti? Ieri sera ti sei rimpinzata di nespole e rum della peggiore qualità. C’era da aspettarselo! — sentenzio io con tono cupo e paterno, sentendo montare uno strano magone che quasi mi soffoca.
— Sai cosa stavo pensando? — chiede lei all’improvviso, e il magone mi si scioglie come neve al sole. Respiro.
— Cosa? — dico io.
— Secondo me quel pakistano t’ha detto una cazzata. Deve esserci qualcosa di più complicato e misterioso che non ha voluto, o non ha potuto dirti! — conclude calcando molto la voce su o non ha potuto e contemporaneamente sbarrando gli occhi, come se avesse di fronte un morto vivente o comunque qualcosa di terribilmente spaventoso.
— Lo credo anch’io — rispondo guardando un vecchio giapponese che s’infila il dito mignolo in un orecchio e comincia a rotearlo furiosamente mostrando il bianco degli occhi per l’intensissimo piacere che prova. Sarà pieno zeppo di cerume, penso. Magari finora è stato sordo e all’improvviso comincia a sentirci. Un autentico miracolo. Ma bando ai pensieri cazzuti.
— E se invece del tè prendessimo una birretta chiara? — propone lei entusiasta.
— Perché no? — azzardo io. Sono sempre stato affascinato dal suo spirito d’avventura, fin dal primo momento che l’ho vista. Ricordo che la prima volta la invitai a un cinema e lei propose invece un’amatriciana all’aglio calabrese nella trattoriola sotto casa sua. Per me fu un momento magico. Quasi una rivelazione.
— Che poi anche qui c’è un mistero che non mi quadra mica sai? — dice seria di colpo.
— Tipo?
— Tipo che anche fare la birra deve essere una faccenda molto molto complicata. Mi sono sempre chiesta com’è possibile che…
— Complicatissima — la interrompo io con cautela, per non indispettirla. — Pare che venga dall’orzo, ma non posso dire di esserne sicuro al mille per mille, te lo dico subito.
— Cos’è, mi prendi in giro? Eh? Ti prendi gioco di me? Io l’orzo lo bevevo col latte da piccola ogni mattina prima di scuola in quantità industriali e non mi sono mai ubriacata, mai. Invece se prendo un goccio di birra, un solo goccio, comincio a dare i numeri e ci metto tre giorni a rimettermi in sesto. Tu ne sai qualcosa — esclama lei con tono inarrivabilmente perentorio squadrandomi dalla cima dei capelli alla punta dei piedi col suo solito sguardo indagatore. Di cui ormai non riesco a fare a meno.
— Infatti, sembra impossibile anche a me stellina. È un mistero. Un vero mistero — dico io mentre un altro gruppo di giapponesi cala sinistramente dalla china.