Oltre al sonno e alla concentrazione ci sono anche altre cose che non sono state dette a nessuno.
Giornate intere che scompaiono, e brevi attimi che diventano un’eternità.

(Peter Høeg)

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domenica 28 giugno 2020

Gaetano Testa, "Al balcone sognando"

 
 

«L’atto di scrivere esige una perfetta innocenza», dice Vladimir Jankélévic. Poi, forse per sottolineare la debolezza della parola di fronte all’imprendibilità del reale, aggiunge: «Non bisognerebbe che le parole stesse si trasformassero in stelle cadenti?» Non so se la scrittura di Gaetano Testa sia composta di stelle cadenti, ma è sicuramente innocente. Lo è perché ignora il principio di non contraddizione o qualsivoglia principio di sistematicità. Lo è perché innocentemente si contraddice, si mostra fedifraga e nel contempo sincera, scivola dalla descrizione ad altissima definizione a improvvisi sussulti in cui senso e non senso si interfacciano con sorprendente naturalezza.  Lo è perché risulta del tutto inaddomesticabile e indefinibile: «do col naso gli occhi i polpacci un nome panciuto alle cose».
Gaetano Testa (Mistretta 1935), protagonista negli anni Sessanta dell’ala palermitana del Gruppo 63, radicalmente anarchico al punto da rinunciare per scelta di vita a ogni mira carrieristica, si è da molti anni auto-confinato in un suo privatissimo spazio di “resistenza esistenziale” dal quale però continua a mostrare i denti e a rappresentare un’importante presenza-assenza nella scena culturale non solo palermitana. Insieme ad un gruppo di autori che lo riconoscono come essenziale punto di riferimento, negli anni ha dato vita a un vivacissimo laboratorio di sperimentazioni aperte, ha creato due riviste (“Fasis”, “Per Approssimazione”) e una casa editrice (“Perap”), ha prodotto opere di arte visiva ed ha pubblicato diversi volumi: da un romanzo che curiosamente ha un titolo non alfabetico ma numerico, “5” (Feltrinelli, 1968), sino a quest’ultimo, “Al balcone sognando” (Perap, 2020). Ed è talmente anarchica e aperta la sua scrittura, che talvolta confluisce nella scrittura di un altro, in particolare in quella di Francesco Gambaro, insieme al quale Testa ha pubblicato diversi libri (“Borno”, “Jallo”, “Quartini”…). Fra Testa e Gambaro (che purtroppo è deceduto nel 2019) vi è stata infatti una intensa frequentazione, e questi libri “a quattro mani” dove la scrittura dell’uno non è distinguibile da quella dell’altro, ne sono un esito quasi naturale; ma fra i due si era creata una sintonia ancora più forte, tanto che solo grazie ad essa e all’azione “aggregante” di Gambaro, è stato possibile dar vita a una straordinaria esperienza di creatività collettiva che ha coinvolto negli anni non solo personaggi come Edoardo Sanguineti, Paolo Volponi, Mario Lunetta, Fulvio Abbate, ma soprattutto autori in gran parte estranei alla letteratura ufficiale, personalità diverse, ma accomunate dall’interesse verso la pratica dell’avanguardia intesa come libera e radicale sperimentazione espressiva. Fra questi, citando alla rinfusa: Giuseppe Zimmardi, Nino Vetri, Carola Susani, Pippo Rizzo, Costantino Chillura, Gaetano Altopiano, Antonio Patti, Mimmo Gerratana, Antonio Pane, Nicola Di Maio, Sergio Toscano, Giancarlo Mirone, Giuseppe Tutone (e fra gli altri – inutile negarlo – anche il sottoscritto). Per non parlare di artisti come Toti Garraffa, fotografi come Letizia Battaglia, uomini di teatro come Nino Gennaro, giornalisti come Guido Valdini, musicisti come Salvatore Sciarrino, musicologi come Aurelio Pes...
Testa non si è posto però come capo carismatico, tanto meno come ideologo, si è limitato a rappresentare niente più che se stesso innescando negli altri un istintivo meccanismo di mimesi. Questo nuovo libro, insieme al corpus delle altre pubblicazioni edite, non è che una minima parte dell’immensa matassa di scrittura che Testa produce quotidianamente quasi in sintonia con la sua respirazione polmonare; un’unica spiazzante matassa di dimensioni “atlantiche”, come ebbe a definirla Francesco Gambaro , aggiungendo che in Testa «l’inconclusione è cercata come bisogno primario, non tanto di spiazzare il lettore ma di spiazzarsi».
L’ ”inconclusione”, appunto:

«ma lei non ha ancora finito (pausa) mi sba­glio?"
"non si sbaglia però (pausa) forse lei non dovrà di­menticare che è molto proba­bile che io non sappia mai quando ho finito (pausa) anche nel senso che posso avere già finito"
"spero che esista un momento in cui le è chiaro se ha finito o no"
"non sempre (pausa) ma questo non è un vero pro­blema"».

Testa è insomma un sismografo che registra ininterrottamente i moti di un corpo e di un cervello, («ho nel corpo e mi si va sviluppando un orientamento senza sì e senza no che dà un senso a tutto quello che vado facendo e che somiglia a un nonsenso») ma anche di uno spazio geografico osservato con occhio da entomologo, gusto e disgusto, complicità e distacco, crudo realismo e guizzi visionari:

«la sicilia è un'isola che in pochissimo tempo è di­ventata una pro­vincia dei sar­gassi basta allontanarsi un metro e già comincia a profumare di ri­noceronti bianchi».

Non che i suoi libri, nel loro essere inconclusi e ramificati, siano intercambiabili, ma certo è difficile riassumerne il contenuto in quanto sono parte di una rete intricatissima di connessioni, ripetizioni, rotazioni a spirale. Sono insomma frammenti di un corpus che in teoria non si potrebbe segmentare in una struttura limitata (come per sua natura sarebbe quella di un volume). In questo libro pertanto si narra una minima sezione dell’atlante, la scorribanda sfilacciata di un gruppo di amici per le vie di una Palermo mutevole e immobile che potrebbe non essere Palermo ma qualsiasi altro luogo del cosmo, se non fosse che qualsiasi luogo del cosmo nelle pagine di Testa somiglia a Palermo. I personaggi si spostano quasi a caso da un punto all’altro dello spazio, con «i coglioni  gonfi di nullaggine» e passo da flâneur, si incontrano, si scontrano, si annoiano, fumano, bevono, telefonano, si annusano (anzi, si “annasano”), maneggiano oggetti, stanno comodamente seduti al balcone (“sognando”); pulsano insomma assecondando i ritmi del battito cardiaco e del paesaggio urbano. Alcuni sono riconoscibili:  ciccio (Francesco Gambaro), costantino (Costantino Chillura), guidoval (Guido Valdini). E quest’ultimo peraltro è l’interlocutore diretto del penultimo libro del nostro autore, “Dialoghi con guidoval” (Il Palindromo, 2017), ulteriore testimonianza di come la scrittura nelle pagine di Testa possa sdoppiarsi in forma dialogica, ma nello stesso tempo fondersi in una linea continua fatta di progressivi spiazzamenti che mandano in frantumi l’idea del dialogo di ascendenza filosofica e richiamano piuttosto un’altra forma di dialogo, quella che rinuncia alla costruttività ed è governata da un moto centrifugo, dalla libido del gironzolare intorno alle parole per il puro piacere di farlo, come Pollock gironzolava attorno alle sue tele godendosi il piacere di lasciare che il colore vi gocciolasse liberamente.
«”Dialoghi con guidoval” – diceva appunto Francesco Gambaro nel suo intervento alla presentazione del libro a Palermo – sembra muoversi nella logica binaria del dialogo, ma il binario è compulsivamente deviato, sembra una cartina geografica che traccia strade intrecciate a colori, le traccia e poi le straccia, con la sfacciataggine del bambino discolo,  impermeabile a ogni rimprovero».
Così come, del resto, compulsive deviazioni segnano anche “Dal balcone sognando” dove ritornano a spaglio spezzoni di dialogo con il detto guidoval ma qui mixate a un sistema ramificato di s/variazioni a girandola:

«non sono ancora riuscito a pensare più di quanto so­litamente mi pare di avere sempre pensato e ancora non so se penso molto o poco e se quello che certe volte individuo come pensiero sia pensiero o no»

«in conclusione so che è difficile individuare cos'è che scompare e cos'è che ri­mane anzi so che scomparire e rimanere sono soltanto il perché del sal­tare».

Alfonso Lentini
 

 

 
 
 
 
 


 
Gaetano Testa

“Al balcone sognando”
Perap, Palermo 2020
 
 
 

 

 

 


mercoledì 16 ottobre 2013

***


il gatto non le mangiò
in àgape felina la lingua
purtroppo né consonante
palatale l’inchiodò [c]
[sch-iaffo] e sarebbe stata
meglio muta e gravida

sabato 28 settembre 2013

***


bingo bongo sub
sahariano from lesotho
arco e frecce al chiodo
lasciò sotto tetto eternit
il survit aujourd’hui Ou
muovi il culo porta qui
il muletto (forklift, dio)

lunedì 27 maggio 2013

Giovanni (Rossi) 1-1,51


in principio era il fastidio
presso il video una dotata
di verga a dar testimonianza
dei diversi sotto fosca
luce solare Che sia
genetica? poi: Perché
battezzi tu che non sei? alta
s’era levata la voce deserticola
In verità in verità ti dico
convèrtiti

domenica 24 febbraio 2013

Accorrete a voi stessi in soccorso / disprezzate il riposo sul divano...




Accorrete a voi stessi in soccorso
disprezzate il riposo sul divano
uscite incorrete infrangete
fatevi portatori di disturbo
origliate verità dimenticate
e gridatele al vento nelle piazze
Ditevi qualcosa che valga la pena
tramandare ai vostri figli Ditevelo
Ma fate qualcosa fatelo per voi
fatelo perché va fatto non solo
per convenienza Mai per questo
Non accendete candele ai santi
Incendiatevi l'anima e il sangue
Miracolatevi con folle ragione
Perché così sarete viventi
liberi nel giusto esistere
e non invano passerà la vita
e non inutile sarà morire
lasciando non polvere sbiadita
ma scavate tracce da seguire
e il cane del tempo non saprà
distruggervi Vento e pietra siate
Suonatevi in tempo ostinato
Cominciate prima che sia tardi
prima che sia troppo tardi
Cominciate Accorrete adesso
Accorrete a voi stessi in soccorso





* * *


Tratta dal libro:

poesie di francesco randazzo
ISBN  978-88-6682-344-5



Il libro può essere acquistato dal sito photocity.it

oppure dal sito IBS.it



©francescorandazzo






giovedì 20 dicembre 2012

Su chiamata


sciabatta h24 panbiscotto latte u.h.t.
ha sballato d’intenzione frequenze digitali
furioso sul remoto funzioni incomprensibili
Ok pigiati random in attesa d’intervento
coccola il decoder Pater noster st’altr’anno
fanno ottanta

mercoledì 5 dicembre 2012

12



rintrona la campana
battuta da chimico batacchio
dodici l’acqua già salata
bolle postevento tutto un dritto
ultracircadiano mixa il viaggio coso lì
meriggio ganja chill

martedì 6 novembre 2012

ombelico mobile


dall’abitacolo particolato
(senti la ventola, muove al filtro hepatico)
in punta di lancetta limitatamente centodieci
nei finti elisi sotto l’arco led Infotraffico
settembre ventinove ’miladodici condividi su

lunedì 11 giugno 2012

Eccedersi


Piantumare un fuscello
esile due foglie
scosse dal posarsi dell’insetto
immaginare dove cadrà la ghianda
tra sessanta lune
di quanto spazio avrà bisogno
la nuova quercia
vedere già la foresta
espandersi per ettari
avanzare oltre l’orizzonte
farsene in testa
un’immagine satellitare
dinamica
come una finestra sul futuro.

lunedì 2 gennaio 2012

La guerra è di moda

Cavalcano le Valchirie
potenti equini volanti
d’acciaio
tesi nel muscolo protesi all’azione
eccitati dall’avena politica
spronati a condurre a vittoria
cavallerizze in perizoma di Yamamay.

mercoledì 21 dicembre 2011

Quella notte

Nel pugno infantile

canditi uvette

stretto sgusciano tocchetti

a macchiare ricami

rossi scintillare bianchi

vini frizzanti flut

la provincia illuminata

(dio è ovunque)

auguri a grappoli d’invio

accendono display

in abbraccio intercontinentale.

One world.

Ci caschiamo

ogni natale.

lunedì 19 dicembre 2011

Alfabeto Camus, lessico della rivolta

 

FUORI RIGA
recensione di Alfonso Lentini
pubblicata su “Il Grandevetro” (n. 206 – luglio/settembre 2011)

“Figura incarnata del ribelle; quello vero, colui che prima ancora di ribellarsi agli uomini, si ribella ai fondamenti dell’esistenza”. Così Antonio Castronuovo inizia a parlarci di Camus. E lo fa secondo gli schemi tipici della collana “Fiabesca” (fiore all’occhiello delle edizioni Stampa Alternativa) che raccoglie una saggistica fortemente eretica non solo nei contenuti, ma anche nelle modalità di scrittura. Alfabeto Camus non è infatti una monografia né un saggio critico, ma una ricognizione svolazzante e bizzarra, eppure di disarmante onestà, su uno scrittore verso il quale l’autore di questo volume dichiara di nutrire una vera e propria “venerazione”.
Il libro si divide in due parti. La prima altro non è che un’intervista a un Camus che si immagina sopravvissuto all’incidente automobilistico in cui in realtà, tre anni dopo aver ricevuto il Nobel, perse la vita nel 1960. Ed è talmente palese e temerario lo stravolgimento degli eventi che la prima domanda a cui il recidivo Camus è chiamato a rispondere riguarda il successo dei suoi libri presso i giovani di Berkeley negli anni a ridosso della contestazione. È una sorta di “intervista impossibile” che però Castronuovo, con la grazia intellettuale che lo contraddistingue, riesce a rendere non solo possibile ma anche attendibile grazie a un accurato lavoro di taglio e cucito su scritti camusiani da lui solo appena ritoccati. Grazie a questo espediente sembra che l’occhio di Camus riesca a puntare una sorta di cannocchiale su un futuro che non ha potuto vedere, ma in tal modo Castronuovo riesce a mostrare (e dimostrare), nei fatti, la lungimiranza e l’attualità dell’autore de L’uomo in rivolta. Camus ha insomma qualcosa da dire non solo agli studenti del Sessantotto (dai quali si sente amato perché anche loro più che la rivoluzione teorizzavano la ribellione), ma agli uomini d’oggi.
E cosa, secondo Castronuovo, Camus abbia di urgente da dirci appare chiaro nella seconda parte del libro, che è composta da un dizionarietto arbitrario ma non troppo dove, in ordine alfabetico, vengono squadernate alcune parole chiave per la comprensione del suo mondo. Si va da “Algeri” a “Ungheria”, passando attraverso un lessico che più camusiano non si può (“Anarchia”, “Esistenzialismo”, “Lager e gulag”, La peste”, “Nobel”…), ma anche attraverso termini in apparenza più generici come “Madre”, “Mare e sole”, “Povertà”… Ne esce vivacissima e non neutrale una rivisitazione di Camus, tra le più vicine allo spirito autentico dello scrittore francese, al punto che l’autore ha ricevuto dalla stessa figlia di Camus, Catherine, una lettera in cui gli dice che da questo libro si vede benissimo come Castronuovo ami Camus “per le ragioni più giuste”. E infatti il punto sul quale il libro batte maggiormente riguarda la scelta libertaria (del tutto inconciliabile con il fondamentalismo stalinista allora imperante nelle sinistre europee) che sta alla base della sua intera produzione e che sicuramente spiega i mille ostracismi se non addirittura le scomuniche di cui fu vittima anche da parte di mostri sacri della filosofia come Sartre. (E a questo proposito Castronuovo, sornione, annota subito: “So soltanto che se leggo Camus mi ci ritrovo, se leggo Sartre sbadiglio”).
Libri come questo rimettono con i piedi per terra uomini e vicende intellettuali, Camus esce dai santini in cui qualcuno vorrebbe comprimerlo (magari per poi subito dopo dimenticarlo) e riacquista carne e sangue. Come ad esempio quando Castronuovo riporta le righe con le quali Dino Buzzati racconta il suo incontro, lui così timido e introverso, con il celebre scrittore francese: “Grazie a Dio, non aveva una testa da intellettuale, ma da sportivo, limpida, da uomo del popolo, solido, ironico ma con bonomia, in un certo senso un viso da garagista”.    

Antonio Castronuovo
Alfabeto Camus, lessico della rivolta
Collana Fiabesca
Stampa Alternativa, Viterbo 2011
Pagg. 249, E. 13,00

lunedì 14 novembre 2011

“Luminosa signora, lettera veneziana d’amore e d’eresia” di Alfonso Lentini



Villa Alliata Cardillo / Centro d'Arte Piana dei Colli
 Palermo
5 novembre 2011

Presentazione del libro
“Luminosa signora, lettera veneziana d’amore e d’eresia”
di Alfonso Lentini


Trascrizione dell’intervento di  
EVA DI STEFANODocente di Storia dell’Arte  Contemporanea alla facoltà di Lettere di Palermo e direttrice dell'Osservatorio Outsider Art.


Alfonso Lentini,  artista visivo e scrittore (ma dovrei dire poeta), è nato nel 1951 in provincia di Agrigento, è vissuto a Palermo negli anni di formazione, dove ha frequentato e collaborato con le riviste letterarie e sperimentali Fasis e Per Ap del gruppo formatosi attorno allo scrittore palermitano Gaetano Testa, poi si è trasferito  alla fine degli anni ' 70 in Veneto per insegnare, vive a Belluno.

Dovrei dire poeta, non solo perché la sua scrittura evocativa è intessuta di rimandi poetici che vanno dal Dolce stil novo a Leopardi, a Montale etc., ma soprattutto perché il suo racconto è sempre circolare, senza un vero inizio, uno svolgimento e una fine, è un racconto che si intravede in dissolvenza, dove c'è un io narrante che naviga tra frammenti di memoria, visioni, riflessioni, interrogativi, come in un gioco di specchi, come un incantesimo. La prospettiva è sempre assolutamente soggettiva, dal punto di vista dell'io narrante,  e la possibile trama è suggerita, evocata, più che raccontata in senso tradizionale. Direi che ogni libro di Lentini è un incantesimo che ci conduce in una dimensione sospesa dove la realtà si dissolve nel sogno e il sogno nella realtà, i confini sono incerti, la consistenza delle cose si sfarina come in questo libro succede a una parte della casa, ma soprattutto al linguaggio. Una scrittura simbolista nel senso che è una trama di corrispondenze e analogie, che conducono in quelle “foreste di simboli dagli occhi familiari” di cui parlava Baudelaire. Un filone letterario minoritario in Italia, ma che nella letteratura siciliana ha una sua presenza, con modalità diverse, da Bufalino a Bonaviri.

Lentini ha scritto diversi volumi, hanno tutti una misura contenuta – 100 pagine o poco più – in tutti c'è sempre qualcosa di molto lunare e lunatico – pagine scritte alla luce della luna, che è cercata, amata, temuta, e tutti i racconti si concludono con una luna che sparisce o che c'è, ad esempio il libro che presentiamo oggi - Luminosa signora – si conclude: “E camminando prendevo a calci la luna”.
Sono tentata di pensare che la Luminosa signora del titolo non sia altro che proprio la luna. Insomma, Alfonso Lentini è una sorta di Pierrot lunaire, in bilico come un trapezista tra angoscia, allucinazione, fiaba e incantamento. Non un figlio del sole, ma un figlio della luna.

Non ho letto tutti i suoi libri, ma ne ho letti diversi. Il mio rapporto con lui è nato leggendo il libro che nel 1996 ha dedicato a Filippo Bentivegna, il signore delle teste, che lessi durante la ricerca per il libro che ho pubblicato sugli Irregolari di Sicilia, traendone molte informazioni e molti spunti. É una sorta di romanzo-saggio, a metà tra la ricostruzione e l'evocazione, del resto anche Filippo Bentivegna è un “figlio della luna”.
Ho letto Piccolo inventario degli specchi (2003), che è un viaggio trasversale attraverso la letteratura, il mito, il mondo delle immagini, sul tema della seduzione e dell'inganno dell'immagine riflessa, ma anche sulla natura della scrittura che è anch'essa riflesso. Anche il libro stesso, come si dice all'inizio, non è infatti che un nostro specchio tra i tanti possibili.
Ho letto Cento madri (2009), che ha vinto il premio Città di Forlì, e mi è sembrato un bellissimo romanzo di formazione nella Sicilia anni '50, una formazione dominata dal complesso materno in quel mondo del matriarcato occulto, come lo definiva Sciascia, dove il protagonista per crescere deve immaginare di diventare un assassino. E' un romanzo notturno che ha un andamento ondeggiante, elusivo, onirico, ipnotico a tratti, costruito per brevi frammenti, illuminazioni progressive. Come questo, che è l'ultimo in ordine di tempo, appena uscito, che presentiamo oggi,  Luminosa signora. Lettera veneziana d'amore e d'eresia. Anche questo è costruito per brevi capitoli, che si presentano come frammenti di un racconto che resta aperto - più che narrato è suggerito all'immaginazione del lettore. 

C'è uno stretto rapporto tra la sua scrittura e la sua produzione artistica che del resto ha per tema principalmente la scrittura, la parola, le pagine, il libro,  e che potremmo classificare nel genere che un tempo veniva chiamato “poesia visiva”. Ne vedete una selezione in questa colonna visiva proiettata alle nostre spalle, che fa da contrappunto a questa presentazione, e che Alfonso ha preparato per noi.
Sono tutte pagine di libri magici che lui chiama “Insulae”, piccoli formati intimi fatti di collage e sovrapposizioni, dove si aprono squarci come uno spicchio di cielo che fa intravedere altre parole, le parole nascoste, le parole non dette che stanno sotto tutte le nostre parole....... , così una declinazione “rosa rosae” può diventare un paesaggio o un meteorite cucito su un cielo di carta. 
Queste piccole icone fatte di collage leggeri, poetici, commoventi, “soavi” (uso un aggettivo caro a un altro amico e scrittore palermitano, Michele Perriera), sono un omaggio alla scrittura, la scrittura a mano, la scrittura stampata, in un tempo in cui la scrittura è diventata sempre più immateriale, un dialogo tra schermo e tastiera, perdendo il suo rapporto esistenziale con la carta.
C'è eleganza, ma non innocua, le graffette metalliche stanno lì a cucire le parole, ma suggeriscono anche chiodi e spine, un dolore non urlato ma, come nei romanzi, soltanto sussurrato. C'è un segno rosso che si ripete, -  ricorda il bordo rosso di certi quaderni dalla copertina nera che tutti abbiamo avuto in mano e di cui abbiamo nostalgia, - ma è diventato una luna, una fenditura  o una piuma che a me evoca la piuma di Mallarmé in Un colpo di dadi:
piuma solitaria sperduta tranne che la incontri o la sfiori un tocco di mezzanotte e immobilizzi col velluto sgualcito d'uno scoppio di risa scuro....

In queste icone dell'anima, pagine di un diario criptato, la parola diventa una foglia o un petalo, o è una fragile scritta all'interno di un guscio d'uovo, guscio che ci suggerisce la fragilità ma ci indica anche che la parola è all'origine di tutto, della nascita del nostro mondo e della nostra relazione con il mondo, come dicono i mistici della cabala.
Anche l'oggetto-libro, che Alfonso manipola esercitando la sua creatività, contiene molto mondi, quindi può essere di foglie, di sassi, di lana, etc.,  diventando un talismano alla maniera in cui lo ha immaginato, ad esempio, Mirella Bentivoglio e i tanti artisti che si sono dedicati al libro-scultura della sua straordinaria raccolta.
Se nella scrittura  di Alfonso ci sono molti echi di altri poeti, citazioni esplicite e citazioni nascoste, anche nelle sue opere ci sono tanti fili che rimandano a tutta la storia dell'arte del novecento, ad esempio Fontana, Rothko, Clifford Still etc. per arrivare alla leggerezza di Folon nelle ultime immagini di questa sequenza.

La chiave dell'immaginario di Alfonso l'ho trovata in un altro libro: Ti racconto formiche mentali, un volumetto che ha curato raccogliendo le esperienze di un laboratorio di scrittura tenuto con gli utenti di un Centro Diurno di salute mentale di Belluno, con cui ha collaborato varie volte anche organizzando delle mostre “irregolari”. Alla fine di questo volumetto c'è una frase, scritta da uno dei partecipanti al laboratorio : “Avere in pugno i sogni! Questo è importante.”
Ecco, credo che questa sia anche la ragione segreta per cui Alfonso scrive e crea oggetti: non annegare nei propri sogni, ma navigare attraverso, tenerli sotto controllo, manipolarli, reinventarli. Del resto lui stesso, quasi a conferma di questa mia impressione, cita nella prefazione di questo volumetto sulle formiche mentali Fernando Pessoa, poeta dalle multiple identità: “Non sono niente / non sarò mai niente /non posso voler essere niente/ a parte questo, ho dentro di me tutti i sogni del mondo/”

Quale è il sogno sognato in questo libro di oggi?
Se Cento madri è un lungo sogno abitato da una madre multipla, fagocitante e protettiva, dietro la Luminosa signora c'è invece l'ombra paterna, di un padre generoso e combattente, un padre marxista che crede nella forza e nella verità delle parole, un padre che un giorno conduce il protagonista ad ascoltare un concerto del silenzio.
La luminosa signora dagli occhi d'ombra chiara (un bell'ossimoro che ritorna – in tutta la scrittura ricorrono del resto immagini e metafore suggestive: il silenzio piumato, o il silenzio come spugna di mare - )  è una figura misteriosa, una sorta di Beatrice dantesca, che va e viene nella casa del protagonista – io narrante –  come la marea, come la primavera dice lui, che alla primavera annette un significato di attesa e di  rinascita. Non sappiamo chi sia questa lei, sembra essere tutt'uno con Venezia, dove è ambientato il racconto: Veni etiam, sono tornata ancora, è l'etimologia del nome della città suggerita da Alfonso.
Il protagonista, che potremmo chiamare lo sfregiato perché ha una ferita sulla guancia che si è procurato non si sa bene come, un proiettile vagante in una situazione imprecisata, la osserva e le scrive una lettera d'amore mentre naviga tra i propri ricordi, vorrebbe farle una domanda essenziale che non riesce mai a formulare. 
Tutto è incerto in lui e attorno a lui: la casa è cangiante (è un motivo che troviamo anche in Cento madri), si aprono falle nel pavimento, anche il linguaggio è friabile, poroso, i significati si sovrappongono e sfuggono da tutte le parti, le parole sono come polvere che sfarina....
Questa incertezza che rende ambigue le cose e le parole e che si spinge fino all'eresia: “noi tutti non siamo che tentativi di una creazione incompiuta” – dice a un certo punto il protagonista -  mi ha ricordato un'altra lettera celebre: la Lettera di Lord Chandos , un testo in cui Hofmmansthal denuncia la crisi del linguaggio e con ciò della Mitteleuropa (1902):  Chandos  a cui “le parole si disfano in bocca come funghi ammuffiti”,  Chandos che dice che “i vortici delle parole conducono nel vuoto” ( Bodenlose – senza terreno sotto i piedi). E' il problema della perdita di senso e di  verità delle parole in cui si rispecchia la crisi di identità della cultura asburgica nella sua fase terminale. Lo stesso problema che negli stessi anni è avvertito dal filosofo Wittgenstein. Il protagonista di “Luminosa signora” soffre di una sindrome simile a quella di Chandos, per altre ragioni e in altro contesto, ma anche qui nella friabilità del linguaggio si rispecchia una crisi d'identità e la perdita di un mondo.

L'atmosfera di questo racconto, - la casa mutante e irrisolta abitata da misteriose presenze, le cui stanze si dilatano o si restringono come uno spazio onirico, e Venezia come sfondo, una città piena di ritorni e scomparse, di cui fanno parte anche isole che nel tempo sono state sommerse -,  mi ha ricordato anche un altro romanzo che ha al centro un carteggio perduto da ritrovare, Il carteggio Aspern  di Henri James, una vicenda molto ambigua e un tentativo di ritrovare un passato che inesorabilmente si sfalda. Nella letteratura Venezia infatti è una città dei passi perduti, la città ideale per tutti coloro che hanno perduto qualcosa. Lo è anche in questo romanzo di Lentini.

Dunque: c'è una lettera che in realtà non si conclude perché non può concludersi, una casa dove dai rubinetti a volte scorre sangue, la misteriosa e incongrua  apparizione di un cavallo morto a Campo Santa Margherita, una luminosa e misteriosa signora che va e viene senza curarsi del protagonista che la osserva, e il protagonista che ha sulla guancia una ferita che non guarisce. Quasi come Amfortas, il personaggio che nel Parsifal custodisce il santo Graal, e che riappare come il re pescatore dalla piaga inguaribile nella Terra desolata di Eliot, che non è altro che la terra desolata della modernità dove la verità resta inafferabile.  Amfortas, il re pescatore, potrà guarire solo se qualcuno gli porrà la domanda essenziale. Al contrario, il nostro sfregiato forse potrebbe guarire se riuscisse a formulare la domanda essenziale alla sua luminosa signora. Una domanda di verità. Ma la verità si è persa molto tempo prima assieme all'utopia.
La ferita, ricorda il protagonista, è apparsa quando il padre e i suoi amici comunisti sono scomparsi, quando sono scomparsi quelli per cui l'unica forma di realismo era chiedere l'impossibile, cioè trasformare il mondo, quelli che credevano che lo strumento della parola fosse un veicolo etico di certezza e di speranza. Quando è svanita la possibilità dell'utopia, o meglio della fede in questa possibilità, le parole sono diventate deboli, vuote “come un guscio d'uovo” ma senza tuorlo, senza generare più significati o movimenti. Ecco che inizia la dissolvenza, e perfino la follia. La follia del padre che compra una tipografia e si dedica a stampare testi senza senso, accostando i caratteri tipografici a caso, e poi finisce in manicomio. La follia del figlio, forse, che nella stessa tipografia stampa “microlibri” che non vende a nessuno, mentre attende la sua luminosa signora che lo ignora.
Dal libro, insomma, trapela una grande nostalgia sia per l'impronunciabile parola “compagni” che, in genere per gli anni  '60, “anni di colori sgargianti”, e gli anni ' 70, anni di rabbie e di rock duro. Ma la scena conclusiva si svolge a San Servolo, l'ex-manicomio di Venezia oggi Museo della Follia. Nostalgia e follia sembrano far parte dello stesso mistero.



domenica 12 settembre 2010

Anitya Hotel




I luoghi d’accoglienza emanano sempre un forte senso di non appartenenza, di gradevole insignificanza estetica, comodità fisica precaria; si è soli, in un luogo che si è pronti a lasciare senza rimpianti, ma dove pure è piacevole stare. Senza quell’attaccamento spasmodico che invece ci consuma a casa nostra. E che ci fa soffrire. Anche gioire, ma sempre con un filo sottile di paura celata.
Dovremmo vivere come in un Hotel, con cura e semplicità dell’esserci, pronti al distacco. Pienamente presenti. Tentare almeno.


lunedì 9 agosto 2010

Gabriele Mandel

Un mese fa è scomparso Gabriele Mandel Kahn, Maestro Sufi, uomo di sterminata cultura, rappresentante del miglior Islam illuminato, è stato divulgatore e traduttore di molte opere, tra le quali mi piace citare il canzoniere di Rûmî  il grande poeta mistico persiano. Impegnato quale uomo di pace al dialogo tra le varie religioni, ha attraversato il secolo passato e questo primo decennio, quale vero maestro, d'arte, filosofia, umanità.  


La sua biografia, in sintesi, su wikipedia


Sul suo sito si possono ammirare anche le sue opere di ceramica.

Non l'ho mai conosciuto di persona, ma attraverso sua figlia Paola, mia cara amica, ero entrato nella sua mailing list, grazie alla quale ricevevo lettere di saggezza e conoscenza.
Qualche mese fa, la notizia della sua malattia, da lui accolta come un'opportunità, utile al suo risveglio interiore; così scriveva nella sua lettera agli amici: 
«Voi tutti sapete oramai che ho un tumore al polmone, che la chemioterapia è pesante da sopportare, che la via alla guarigione è lunga e piena di imprevisti.
            Ne sono felice. Perché? Ero giunto ad un momento della mia evoluzione sufi in cui non progredivo più, in cui perfino cominciavo a dubitare dell’esistenza di Dio, in cui nulla mi soddisfaceva e nulla avevo più voglia di fare quasi che la fonte dell’ispirazione che alimentò per oltre sessantanni la mia vita si fosse esaurita.
Ed ecco: questa situazione invece mi insegna molto, l’evoluzione ha ripreso forza, imparo ancora, progredisco ancora. Adesso ho abbandonato ancor più alcuni concetti illusori, ho ridimensionato i valori, ho iniziato a far ordine fra le mie troppe scartoffie e a liberarmi da quelle inutili buttandole via.
Ringrazio Dio di avermi dato la possibilità di continuare a credere in Lui, ad adorarLo con l’intensità necessaria a capire sempre di più come il Sufismo ci prende per mano e ci conduce all’essenza del misticismo, lontano dagli orpelli del mondo terreno deleterio transitorio e vano.
Tutto il tempo che trascorriamo nelle vicende materiali vane nell’Aldilà sarà vanificato; tutto il tempo che nel mondo fenomenico dedichiamo sinceramente a Dio nell’Aldilà sarà per noi una testimonianza favorevole.
Che bella evoluzione, Dio, che bel vigore, che bel dono mi hai fatto! Grazie.
Gabriele»

La grandezza di un uomo, la sua forza, la sua fede. 
L'ho ammirato e mi ha commosso per queste sue parole e questa serenità, questo entusiasmo, fino alla fine. Che è soltanto un passaggio.

Qualche anno fa scrissi su Mirkal una nota su una foto molto particolare che lo ritraeva in India con uno shadu senz'ombra, al Maestro piacque e la ripropongo, per chi volesse leggerla, qui.

Di seguito i video di un documento intervista, molto bello, in cui Mandel si racconta, comunica, trasmette, il suo pensiero, la sua esperienza. Ne consiglio vivamente la visione.











Mi piace pensare che, se non qui, un giorno lo incontrerò, da qualche altra parte, dove tutto è luce, pace, gioia.






giovedì 21 gennaio 2010

I LIBRAI SI SONO ESTINTI


Microcomica patetica.

Ambientazione: Feltrinellistore, Roma, ai giorni nostri.

Personaggi:
Cliente
Commesso










Cliente
(al commesso che sguscia tra gli scaffali cercando di non fare niente, fingendo di fare chissà che) - Buongiorno, scusi, posso chiederle un'informazione?

Commesso
(rassegnato) - Prego.

Cliente - Sto cercando "2666".

Commesso - Come?

Cliente - "2666".

Commesso - E che è, un libro?

Cliente - Eh, sì.

Commesso
(con faccia sospettosa) - Vediamo.

Il commesso va al bancone del Computer Sibilla, senza il quale è perduto.

Commesso - Come ha detto che si chiama?

Cliente - "2-6-6-6", duemilaseicentosessantasei.
(pensa anche, con acido rigurgito mentale: "S'intitola così, s'intitola, i libri non si chiamano, hanno un titolo, perciò «s'intitolano»", ma non dice nient'altro e aspetta paziente che l'oracolo sentenzi)


Il commesso digita con dito scettico.

Commesso - Ah, sì... di Volano, no, Bolano.

Cliente - Sì, Bolaño, Roberto Bola
gno.

Commesso - Sì, ci sta.

Il commesso fa tre passi indietro, tornando al punto in cui si erano incontrati e da una pila alta un metro e mezzo, che stava dietro di lui, e che copriva mentre fingeva d'aggiustare l'ordine di oggetti a lui totalmente estranei: dunque per questo il cliente non aveva visto che il libro che cercava stava proprio là dietro.

Commesso
(sollevando il tomo da due chili con evidente disgusto come se maneggiasse robaccia pornografica con un titolo da numero di posizione per zozzerie estreme; lanciando uno sguardo di disprezzo al cliente) - Ecco.

Cliente - Grazie. Addio.

Commesso - ...
(bofonchia e se ne va, mimetizzandosi istantaneamente con la moquette per schivare il cliente successivo che si avvicina minacciosamente.)

Il cliente tenendo ben stretto il libro, si avvia alle casse. Paga. Esce.

Cliente
(sollevando il libro, gli sussurra) - Io so chi sei, non ti preoccupare, sei salvo.



Cala la tela.


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nota sul misterioso oggetto:
http://www.time.com/time/arts/article/0,8599,1857951,00.html

domenica 4 ottobre 2009

PER IL BENE DI TUTTI a Radio Teatro Onda Rossa



Martedì 06 Ottobre 2009 ore 14

● Radio Onda Rossa 87.9 FM ●

PER IL BENE DI TUTTI di Francesco Randazzo

con Giovanni Carta, Emanuela Trovato, Gian Luca Bianchini, Walter Da Pozzo, Adriano Davi, Francesco Sala, Silvia Cippitelli, Rebecca Braccialarghe


«Persone normali, in un normale paesino di provincia al confine. Dall’altra parte gli altri: pericolosi per definizione. Uomini anche loro ma diversi, stranieri e soprattutto indesiderati. Al di là della religione e dell’umana solidarietà, principi validi in teoria e a distanza di sicurezza, tutti nel paese sono d’accordo. E si organizzano. Formano una piccola ma motivatissima milizia anti immigrati, ronde notturne a guardia della riva del fiume che fa da confine. Determinati a non fare passare nessuno. Ma uno di loro riuscirà a passare e sarà catturato. Che fare? Tutti i nodi dovranno venire al pettine e tutti, al di là dei ruoli normali e per bene delle loro piccole vite protette dagli schermi quotidiani, dovranno rivelare l’aspetto più oscuro, le ragioni vere del loro animo e delle loro azioni, affermando l’assolutezza di un principio sbagliato, con buone, sane ragioni: per proteggersi, per non soccombere, per il bene di tutti. Una storia preoccupante, che ci pone di fronte alle nostre piccole colpevoli omissioni di ogni giorno, alle nostre piccole connivenze silenziose, ai discorsi agghiaccianti della cosiddetta gente per bene...».

Il progetto RadioTeatro:
A Radio Onda Rossa (87.900 F.M., via dei Volsci 56 – 00185, Roma. I

IN STREAMING su
http://http://www.ondarossa.info/, cliccando su “in diretta”
O IN PODCAST (dopo la diretta) al link: http://www.scarphrec.org/visionari/perilbeneditutti.mp3