Oltre al sonno e alla concentrazione ci sono anche altre cose che non sono state dette a nessuno.
Giornate intere che scompaiono, e brevi attimi che diventano un’eternità.

(Peter Høeg)

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lunedì 15 luglio 2019

Mariella Giammarini


   

Su Dinosauri e formiche di Gualberto Alvino




 Questa singolare silloge di schede e saggi critici di Gualberto Alvino, raccolti sotto l’emblematico titolo Dinosauri e formiche. Schegge di critica militante (Roma, Novecento, 2018), sfida e mette alla prova le categorie con le quali valutiamo i libri: dai grandi autori del Novecento alla lettura di consumo che rincorre i premi e cerca l’alloro delle vendite.
Non c’è una parola di troppo nelle analisi affilate dell’autore. Soprattutto, non c’è parola che non sia fondata su una prova testuale, una citazione mirata e accuratissima dei testi. E sono davvero tanti i testi sacri esplorati in queste pagine, primi fra tutti quelli dell’ingegnere in blu.
     Inutile tentare di riassumere le linee guida del metodo critico di Alvino: cito direttamente quella che mi pare un’efficace sintesi della sua poetica:

«a) come dovrebbe esser noto, la letterarietà costituisce il proprium dell’arte della parola, ergo non è né evitabile né vitanda, ma buona o cattiva (qui si pare la nobiltà dell’artefice); b) la coincidenza più o meno plenaria della voce narrante con la persona fisica dell’autore non muta il rapporto lettore-testo, essendo il patto che ne è all’origine sempre e comunque di natura finzionale; c) non esiste conato o furore antiletterario che non si grammaticalizzi in letterarietà; d) fino a nuovo ordine verità, immediatezza e sincerità non si ottengono per grazia celeste o di genere: si conquistano tramite calcoli e artifici tra sofisticati e sofisticatissimi, in difetto dei quali — autofiction o non autofiction — la pagina perde non solo verità, immediatezza e sincerità, ma spessore e ragion d’essere» ( pag. 148).

     Non è un caso che si tratti di un capitolo di stroncature ( dovrei dire autostroncature tanto le citazioni prodotte sono ampie e mirate) di autori noti, acclamati dal pubblico e dalla critica da rotocalco. Un tetrafarmaco che dovrebbe essere adottato da tutti quelli che aspirano a farsi scrittori, ma anche dagli insegnanti di Lettere chiamati a offrire ai giovani punti di riferimento, prospettive di lettura critica e di scrittura consapevole.
Un libro di critica da leggere con gusto (anche quando mette alla prova le nostre limitate conoscenze specifiche) e da tenere a portata di mano per accompagnare e confrontare letture e riletture.

giovedì 1 novembre 2018

"Pelle di tamburo", un romanzo inedito di Gualberto Alvino

di Mariella Giammarini



e non è solo il nome della protagonista, ma potrebbe essere il titolo stesso del romanzo: ne condensa l’essenza. La congiunzione e è quella che imbastisce cose e pensieri in un mondo che non ha più ordito e può essere narrato solo come elenco paratattico; con un montaggio analogico dove nessi logici e coordinate spazio-temporali si avvolgono in un ininterrotto flusso di coscienza. Come il suo nome la lucida follia di e è paratattica; come il mondo ha smarrito ogni ipotassi, ogni gerarchia di senso e di valori. Così e e il suo dire sono una cosa, l’una non esisterebbe senza l’altro.
All’inizio ho avuto paura di trovarmi nell’imbarazzo di fronte a un testo narrativo gravato da un eccesso di consapevolezza. Capita, quando a scrivere è un filologo, un linguista, un semiologo, un critico. Quel timore mi ha accompagnata lungo le prime pagine, il tempo necessario per essere trascinata, e non solo dal ritmo del racconto. Una jam session per strumento solista. Come poi ci conferma il cap. X, la lingua, la sintassi del testo sono il testo.
Si sarebbe tentati di indulgere all’inutile gioco dei rimandi, delle citazioni (Gadda, Céline, Sterne, Joyce? soprattutto Rabelais…), ma basta sapere che chi legge fa sempre suoi gli autori che ama per non assecondare questa tentazione. Ci vorrebbe un Bachtin per esplorare il labirinto semantico, straripante di fisicità, permeato di umori corporei, dove tra lotta e amplesso non c’è soluzione di continuità e l’insaziabile bulimia pantagruelica non placa la fame esistenziale. Un Carnevale che è già Quaresima, una festa dei folli senza catarsi. Nell’iperrealismo sessuale non c’è traccia di eros, ma non è mai pornografia, solo triste anatomia. In un mondo che cancella i sogni, dove gli uomini sono bui rintanati nelle viscere della città, nel sesso si manifesta l’ultima delusa speranza di ritrovarsi umani. Un’umanità ridotta a corpi che non conoscono abbraccio, solo cavità, tumescenze, secrezioni.
Pelle di tamburo è la pelle di e; il contrario di una bambola di gomma, su di lei i colpi della vita rimbalzano in suoni, si fanno parole di rivolta, sfida nichilista e tuttavia preghiera. e è un angelo ribelle, la sua bestemmia è una preghiera inascoltata. Come Giobbe si chiede ragione, ma trova solo la sorda disattenzione di Dio. È stata maestra e, ha appreso la lezione ingiusta della vita. Nel degrado dei tuguri, nel carcere, nel manicomio e conserva una pudica nostalgia della bellezza, mentre la sfregia e si vergogna di provare pietà.
Pelle di tamburo non cerca di compiacere il lettore, ma lo incalza, riesce a farlo uscire dall’ipocrisia almeno per fargli capire che quel mondo è anche il suo, gli appartiene.
Assassina seriale, pazza, e è una cassandra che riesce a farsi ascoltare. E la sua requisitoria cosmica culmina in un maledizione biblica, inghiottita dall’alluvione del Biondo Tevere che la riconsegna al silenzio primordiale, dal quale tutto può ricominciare?