Oltre al sonno e alla concentrazione ci sono anche altre cose che non sono state dette a nessuno.
Giornate intere che scompaiono, e brevi attimi che diventano un’eternità.

(Peter Høeg)

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venerdì 10 novembre 2017

"Geco", il nuovo romanzo di Gualberto Alvino

DI FIORELLA SANTONCINI



     «Un tuffo nello ‘stile semplice’. Con qualche impennata». Così l’autore presenta il suo romanzo, quasi a voler apparire rassicurante, ma guai a lasciarsi illudere che semplicità in Alvino coincida con serenità. Senza alcun preambolo propedeutico, il lettore viene aggredito da un essere indefinito, ma certamente repellente, insieme alla protagonista, e scaraventato nel clima tragicamente travagliato della storia, incalzato, senza respiro, fino alla fine. Ma si è rapiti dal linguaggio: l’annunciata semplicità rende più accessibile e decifrabile il pensiero di Alvino, ed è incantevole scoprire come ogni parola sia essa stessa un concetto, un sassolino di una architettura estremamente complessa ma niente affatto equivoca, né irrisolta o, tantomeno, traballante. Sconcertante, questo sì, ma d’acchito, come quando si legge: «La logica è la guazza degli stolti, ricordi? Uno: spezzare le sinapsi; due: crearne di nuove; tre: la via della verità è un filo d’aria cui solo ai folli è dato aggrapparsi. Le più antiche, le più salde e luminose delle nostre idiozie, i fari di sempre»: perché a rifletterci si estrae il nocciolo: «la via della verità è un filo d’aria cui solo ai folli è dato aggrapparsi». Ed è questo uno dei fondamenti dell’edificio alviniano.
     Questo “stile semplice” è in realtà una continua invenzione, stupefacente per la capacità di raccontare il banale o l’assurdo con la stessa efficacia della tanto amata «parola verticale», cosicché alla “parola normale” viene conferita una nobiltà, una forza espressiva e una estrosa originalità, inaudite. Accompagnata dal ritmo. Che in Alvino non ha mai cedimenti, sia che scriva poesie o romanzi; quel ritmo che riecheggia la prosodia dei classici antichi, evoluto a nuovo stile, nuovo e addirittura contenente i germi del futuribile.
     Autofaga, autofaga e masochista è la protagonista di questo romanzo, guidata allo sbaraglio da turbe mentali che sfociano nelle psicosi più impensabili e divoratrici, come un’anoressia tanto ostinata da diventare persecutoria e da aggiungere visioni a quelle generate dalla mente in disfacimento (il cibo come «schegge di granito»), disfacimento che Alvino definisce con una felice espressione «emorragia del senso, riflusso della ragione».
     Confesso che, leggendo, annotavo sul mio taccuino le frasi più significative, più incantatrici, con l’intento di citarle. Ho desistito: ogni pagina me ne forniva una di più, e praticamente, proseguendo su quella strada, riscrivevo l’intero romanzo. È questa ricchezza di sensi, significati, simbolismi, una ininterrotta cuccagna di trofei filosofici, psicologici, antropologici, linguistici, che costituisce il fascino coinvolgente, ipnotico della scrittura di Alvino. Che rischia di prevaricare l’interesse del racconto. Ma vi si reimmerge rapidamente: sotto l’apparente caos dello svolgersi della vicenda, Alvino non perde mai il filo e non lo fa perdere al lettore. Che scopre affacciarsi alla scena, il critico mentre chiosa lo scrittore: «… anche la lingua che uso nell’annotarli è quanto di più alieno dai miei modi: stringatezza da codice a barre, armonie mai sentite, ritmi da fracassare le ossa; sembrano catene di singhiozzi, martelli pneumatici nel silicio» ed enuncia il potere o il limite della parola: «… si splende attraverso il linguaggio, si acquista peso, identità, misura»; oppure: «… la scrittura è impotente a scrollare il giogo, ma perché stende veli di muffa proprio quando sembra toglierli».
     Però la scrittura racconta egregiamente le stazioni attraverso le quali la protagonista trascina il proprio calvario. La paranoia che la induce a spiare tutto e tutti ossessivamente, per lei diventa uno «Spiare» che «dà vita alla vita», e il suo modo naturale di approcciarsi al mondo, attaccandosi dovunque e a chiunque come un geco, che in questo atto assorbe, succhia («Vampiro avreste dovuto chiamarmi, non Geco») l’essenza di ciò a cui si attacca, diventa la somma di tutto. (Noi, dunque, siamo il risultato dei nostri contatti).
     Belli i riferimenti alla natura dell’arte: «non devo far altro che pedinare un’idea nata chissà come e incarnarla in una forma il più possibile organica, compiuta»; «L’arte non può nuocere, neanche quando inneggia alla degenerazione, alla crudeltà, al nulla»; «Modellare una frase è scolpire il pensiero»; «L’arte non ammette falsità».
     Sconcertante è l’abilità di Alvino (probabilmente mutuata dalla sua esperienza di sceneggiatore cinematografico) di incuneare una scena nella successiva, come in una sequenza cinematografica, senza soluzione di continuità, e come in essa appaiano dal nulla figure che si soffermano, recitano la loro parte e cedono il posto ad altri, allo stesso modo in cui in un balletto si succedono sulla scena i componenti dell’insieme. Silenziosi, mimano il loro pensiero, raccontano la loro storia attraverso le azioni che compiono nel lasso di tempo della loro presenza, e spariscono, per ritornare talvolta e di nuovo sparire, allo stesso modo. Ecco, una rappresentazione coreutica, è questa la forma letteraria di Alvino. Alvino che rivela l’umiltà della sua natura quando, professorale, insegna: «Basta poco a far tornare la pace: non credersi il centro del mondo». E l’uso costante dell’indicativo presente sembra suggerire un’ipotesi di illusione: se tutto è solo presente, senza passato cioè senza storia, senza futuro cioè senza speranza, tutto è illusorio, come la “filosofia dei sogni” aveva già preconizzato. E allora si ritorna a quella frase incontrata all’inizio: «la via della verità è un filo d’aria cui solo ai folli è dato aggrapparsi», e ci si chiede se non sia questo il cardine, l’eterno tormento dell’uomo e dell’artista.
     Talmente ipnotica è la lettura che d’improvviso, come in un brusco risveglio, sembra di intravedere la ragione di tanto coinvolgimento: Alvino gioca. Gioca a soggiogare il lettore, a sbalordirlo, in una sfida che è lui a condurre fin dall’inizio. Il lettore, impercettibilmente ma vorticosamente, si lascia avvincere, condurre sempre più nel profondo finché la rete, tesa dal maestro prestigiatore, si chiude senza scampo. L’esame di idoneità, di tenacia, di fiducia cieca. Lo fa dire al suo personaggio, ma potrebbe essere lui, il Maestro, a chiedere: «Sei alla mia altezza»? La partita a poker, come metafora di questo gioco che ha come “piatto” la conoscenza. Forse tutto è un parto fantastico, una cavalcata della fantasia a briglia sciolta, un incrocio di sogni, appunti, schizzi della memoria, lampi di vita vissuta… un pretesto? Per sciorinare la bellezza della forma di quella lingua che è, di Alvino, la religione.
 




lunedì 17 settembre 2012

UN GIOIOSO NUBIFRAGIO: i “Racconti Abissali” di Ángel Olgoso

UN GIOIOSO NUBIFRAGIO: i “Racconti Abissali” di  Ángel Olgoso
recensione di Alfonso Lentini

Impalpabili in quanto privi di supporto cartaceo (ma non per ciò sminuiti, anzi semmai arricchiti dall’essere usciti in forma di e-book), questi “Racconti Abissali” di Ángel Olgoso, sono raccolti nel breve girotondo di 58 impalpabili pagine.
Libro privo di peso, si direbbe. Che basa però la sua forza sull’energia straniante che le singole parole possono sprigionare quando sono usate con la precisione e la compiutezza di un colpo di scalpello e nel contempo navigano perigliosamente nel mare della massima libertà inventiva.
Racconti brevi o brevissimi, frastagliati e filanti come la coda di un microscopico asteroide, scarabocchi albali, incursioni stralunanti, micrologie fuori luogo e fuori tempo, ci accompagnano in un viaggio esplorativo di un piccolo mondo improbabile e incongruo, quello che marca questo autore spagnolo (Granada, 1961), considerato – come afferma Paolo Remorini nella prefazione – “tra i maestri più illustri e acclamati del racconto breve fantastico” (ma in Italia di fatto quasi sconosciuto), la cui scrittura sembra provenire – ma fatta più esile, compressa, tagliente – dal solco della letteratura visionaria di origine ispano-americana ed oscilla fra le sontuose fantasticherie di Borges, le amarezze ironiche di Cortazar o di Ocampo, sino a lambire le irsute inquietudini di certe pagine kafkiane. Ma la cifra che caratterizza Olgoso rispetto ai celeberrimi nomi che abbiamo citato è quel pizzico di giocosità irridente che lo pone piuttosto in comunicazione con lo spirito della “scienza delle soluzioni immaginarie”, la ‘Patafisica fondata da Alfred Jarry. L’orizzonte sembra essere dunque una sorta di neodadaismo congelato e asciutto, elegantissimo nella sua algida essenzialità.
Sono però gli scatti finali che nei racconti di Olgoso rovesciano improvvisamente le situazioni proiettando le storie ai bordi del paradossale puro. Si veda ad esempio la vicenda, appena accennata, di qualcuno che sta scavando un tunnel: sembra che voglia fuggire da una situazione di prigionia, invece le righe finali ci rivelano che la sua meta è rientrare fra le “gioie” di una cella “in salvo dalla frastornante, grama e spaventosa libertà”. In un'altra storiella si racconta di un bimbo che per sei giorni gioca con una palla di argilla che a poco a poco si trasforma diventando un pianeta brulicante di vita. Ma alla fine si stufa e lo spappola. Folgorante la frase finale: “Si sarebbe riposato il settimo giorno e avrebbe ricominciato da capo”. Un gioioso nubifragio di segni e di sensi si riversa allora nella mente del lettore al quale non restano che due alternative: o compiere l’inutile sforzo di colmare con un proprio apporto inventivo le falle che l’autore lascia appositamente in evidenza, oppure accettare la sfida dell’incongruo. Siamo sul ring delle eventualità più improbabili e ad un certo punto è naturale che arrivi un knock-out finale dal quale ci si può riavere solo a patto che si accetti di godere sino in fondo, come una grazia concessa dal cielo, il capogiro dello smarrimento.
Tanto asciutte sono le pagine di Olgoso quanto ridondanti, eccessive, turgide, affollate, appaiono le tavole ipervisionarie di Vanessa Cazzagon che accompagnano la pubblicazione. Eppure un filo evidente lega i due piani della scrittura e delle immagini, complici gli inserti musicali (sì, perché un e-book, diversamente dalle pubblicazioni cartacee, può contenere persino un “commento musicale”) suggeriti con mano esperta da Daniela Meloni. Questo filo è la caoticità delle forme, il groviglio. Anche le tavole di Cazzgon sono infatti prive di centro e di sensi definiti, le linee e i colori sembrano galleggiare nel vuoto di un universo in cui il dis-orientamento è sempre in agguato. Anarchia allo stato puro? Surrealismo senza freni? Forse, ma siamo sicuri che i racconti e le immagini di questo gioiellino in forma di e-book siano veramente antirealistici, ci parlino davvero di universi alieni?
Del resto, il mondo che ci ostiniamo a considerare “reale” e che con mille sforzi cerchiamo di ingabbiare nelle griglie della logica umana, non sempre risponde alla nostra domanda di comprensione. Leggere in queste impalpabili pagine di “altri mondi” possibili (o impossibili) può costituire quantomeno una salutare “educazione sentimentale”, un esercizio della mente verso un atteggiamento più elastico, più smaliziato e dubbioso. Di cui, in tempi di omologazione sempre più massiccia, si sente urgentissimo bisogno.


Ángel Olgoso
Racconti Abissali
Traduzione e introduzione di Paolo Remorini,
Postfazione di Stefano Brugnolo,
Tavole di Vanessa Cazzagon,
Soundtrack a cura di Daniela Meloni
E-book, Siska editore, 2012
Prezzo: E. 4,90







mercoledì 8 agosto 2012

Quinta dimensione, scrittura e fruizione nella realtà parallela.



Fresco di stampa il volume "Scritture per il futuro ai tempi delle nuvole informatiche" che raccoglie gli interventi della kermesse tenutasi alla fine di maggio a Fonte Avellana, organizzata da Alessandro Ramberti e Fara Editore.

Scrivere per il futuro in questi tempi di repentino cambiamento delle stesse modalità di lettura è certo una sfida per tutti coloro che desiderano condividere e lasciare una qualche traccia del loro pensiero, del loro vissuto. Le nuvole informatiche in cui depositiamo i nostri archivi e applicazioni sono una estensione potenzialmente ubiqua della nostra memoria. I contributi – seminali, a tratti sorprendenti, spesso provocanti o spiazzanti, senz’altro interessati a creare ponti arditi fra discipline diverse, a confrontarsi con attenzione e verità con le domande che sorgono da una fase particolarmente critica della temperie sociale e culturale che stiamo vivendo – appartengono a:
Alessandro Ramberti • Alessandro Rivali • Alessio Casalicchio • Alex Celli • Andrea Ponso • Caterina Camporesi • Claudio Fraticelli • Daniela Terrile • Dante Zamperini • Davide Valecchi • Elvis Spadoni • Franca Oberti • Francesco Randazzo • Gianni Criveller • Gianni Giacomelli • Giorgia Bascucci Giuseppe Carracchia • Guido Passini • Laura Borghesi • Laura Corraducci Leonardo Caffo • Luca Artioli • Matteo Bianchi • Natascia Ancarani • Paolo Calabrò • Roberta Leone • Roberto Battestini • Serse Cardellini

La scheda del libro, qui.


Di seguito il mio intervento, quale assaggio d'invito alla lettura del libro.

(immagine di Jennifer Khoshbin)


Quinta dimensione, scrittura e fruizione nella realtà parallela

I due più bei twitt che io conosca sono stati scritti decenni prima l'avvento di Internet e di Twitter. "Mi illumino di immenso." E anche: "Ognuno sta solo sul cuore della terra, trafitto da un raggio di sole. Ed è subito sera." Naturalmente né Ungaretti né Quasimodo avrebbero mai sospettato di far parte dei cinguettanti comunicatori contemporanei. Possiamo immaginare, con un sorriso sulle labbra, il vecchio Ungaretti seduto sulla sua sedia mentre Pasolini lo intervista, interrompere per un attimo il collega, estrarre uno smartphone e cinguettare una delle sue brevissime ma profondissime poesie, condividendole con migliaia di followers e subito dopo riprendere la conversazione. Oppure, immaginare Quasimodo amministratore di un gruppo su Facebook dedicato alla città di Tindari. Il gioco potrebbe continuare. Leopardi, per esempio, sarebbe morto su Second Life, nello scandaloso postribolo "La Ginestra" dove realizzava ben altre fantasie da quelle poetiche: probabilmente ce lo saremmo perso come poeta. Dante, avrebbe vissuto il suo esilio nella Silicon Valley, realizzando il più impattante e avvincente videogame di tutti i tempi: "Hell vs Paradise"! E così via.
Si tratta naturalmente di boutades, ma i paradossi possono essere usati per rendere chiara la determinazione di una realtà attuale che si avvale di una (o più) dimensione nuova. La quinta dimensione del web, che amplifica, si irradia, permea e viene agita come un'estensione del mondo, nel mondo. Il web, come esattamente scrive Antonio Spadaro, non è una tecnologia, ma un ambiente. Assolutamente vero, e da qui bisogna partire per qualsiasi ragionamento, anche critico su di esso. Qualunque ambiente è buono o cattivo, a seconda di chi lo abita e di come vi agisce. Siamo noi a determinarlo.

La critica maggiore (e il rifiuto conseguente) al web è quella che lo vorrebbe opposto e in contraddizione con la realtà. Oppure lo si riduce ad una opposizione tra tecnologia, vista come un mostro freddo e alienante, e l'umanità del mondo reale. Il web fa paura. Ci si dimentica che è l'umanità ad abitarlo.

Bisognerebbe piuttosto interrogarsi e ricercare, non soltanto in modo passivo, come e cosa possiamo produrre, sperimentare, creare, comunicare grazie e attraverso il web.

Cosa può significare l'esperienza del multitasking, la ricettività reticolare, la sinestesia continua che ormai è comune, anche se ci ostiniamo a negarla, ma ne siamo comunque coinvolti? Non è forse una amplificazione delle nostre possibilità, qualcosa che scardina l'orizzontalità monotematica del pensiero strutturato? Certo, spiazzante, ma guardiamo come per i giovani sia invece semplice, persino naturale. Non è che, come spesso si sente dire, anche qui, che i giovani sono distratti e la tecnologia li rende ancor più tali. È forse più vero e giusto dire che tutti i giovani, di tutti i tempi, sono distratti e, come in ogni tempo accade, sono gli adulti che devono aiutarli a concentrarsi e dare contenuti stimolanti a questa richiesta di concentrazione. Ma per farlo oggi, dobbiamo far nostri  linguaggi e strutture che non sono più quelli con i quali, noi, nativi non digitali, siamo cresciuti e ci siamo strutturati. Mentre i giovani ne sono naturali fruitori. Ed è quindi a noi richiesta non una negazione ma uno sforzo e la presa di coscienza di una responsabilità, che non possiamo ignorare, a rischio di lasciare vuoto ciò che può e deve essere riempito di valori ed azioni positive.

Le possibilità educative che il web offre sono immense. Quelle creative, straordinarie. Ed è sciocco, persino malfidato, dire che se ne può fare a meno. Ci sono, continueranno ad esserci, fino a qualche altra rivoluzione tecno-antropologica. Possiamo chiudere gli occhi e restare pietre inerti, tronfi della nostra dura sostanza o impegnarci a dare sostanza e valore al fluire, apparentemente indistinto e caotico del web. Sforzarci quantomeno di farlo. Questo secondo me è un valore etico e morale imprescindibile al giorno d'oggi.

Bisogna apprendere per insegnare. Essere mobili e modificabili per muovere e modificare.


Il sommo bene è come l'acqua:
l'acqua ben giova alle creature e non contende...
...
Nulla al mondo è più molle e più debole dell'acqua
eppur nell'abradere ciò che è duro e forte
nessuno riesce a superarla,
nell'uso nulla può cambiarla.
La debolezza vince la forza,
la mollezza vince la durezza:
al mondo non v'è nessuno che non lo sappia,
ma nessuno v'è che sia capace di attuarlo.
Per questo il santo dice:
chi prende su di sé le sozzure del regno
è signore dell'altare della terra e dei grani,
chi prende su di sé i mali del regno
è sovrano del mondo.
Un detto esatto che appare contraddittorio
(Tao-te-ching)



Ed è infatti il mare del web fluido e mobile. Le nuvole che ne nascono sono gravide di quel che l'acqua contiene, sta a noi immettere ciò che di buono ce ne tornerà.


Chi scrive (e chi legge), trova nel web una serie di opportunità e offerte d'espressione, creatività e condivisione, che se di per sé non sono risolutive, in quanto devono necessariamente essere riempite di contenuti e presuppongono una continua formazione che le modificazioni d'uso che il web propone continuamente, ma sono oramai imprescindibili.

Per concludere, nel web si scoprono nuovi linguaggi, ne muoiono altri, ma, per esempio vorrei notare che la tanto bistrattata concisione richiesta dal tempo medio di lettura di un utente nel web, ha portato ad un benefico proliferare ed un crescente interesse verso la poesia. Se rimane pur vero che il lettore accorto dovrà separare il grano dal loglio (come sempre d'altronde), al di là di un certo velleitarismo poetico nazionale, nel web si trovano le migliori opportunità di lettura  per chi vuol fruirne o di proposta poetica per gli autori. Di fronte al fatto che la poesia editorialmente non vende, nel web (gratuitamente) è fruita in numeri inimmaginabili nel cartaceo (certo in proporzioni di numeri sempre piccoli in assoluto ma esponenziali nello specifico).

Da questo proliferare si sono venute sviluppando, per esempio, modalità poetiche, quali la video poesia, che pur giungendo dagli anni "70, hanno trovato nel web possibilità ed esiti sempre più interessanti e di qualità.

Abitare lo spazio virtuale, rendersi conto che ci si muove e ci si esprime, si comunica e condivide, attraverso qualcosa che se pur impalpabile, ha una sua corrispondenza e una connessione continua con l'umano, agire di uomini per altri uomini, attraverso una dimensione sterminata di compresenza spaziale, temporale e persino ontologica, inimmaginabile fino a trent'anni fa. Ma che oggi esiste quale normalità con la quale dobbiamo volenti o nolenti confrontarci. Astenersene o rifiutarla sarebbe inutile, ostinatamente sciocco ma soprattutto renderebbe certo che proprio ciò che di negativo giustamente critichiamo prevalga. Dobbiamo esserci. Il resto - come diceva Amleto - è silenzio.

Francesco Randazzo

domenica 14 agosto 2011

L’impavida eroina eccetera

L’impavida eroina eccetera, racconti di Mauro Mirci,
pagg 142, € 13,50, Nulla Die, ISBN 978-88-97364-34-4


La misteriosa scomparsa di due donne nella Sicilia del luglio 1943. E, negli stessi giorni e negli stessi luoghi, l’assistente di un impresario di pompe funebri s’innamora di una defunta bellissima. Lo strano legame tra un uomo solo e coltissimo e un bambino che sogna di possedere una moto Ape. E ancora: un cortile sul quale incombe una tragedia inevitabile; le fisime artistiche di uno scultore improvvisato; una partita a calcio che non è solamente una partita di calcio; un’impavida eroina ubiqua, inconsapevolmente sospesa tra verità e menzogna, che salva la vita di un uomo prossimo a perdersi. La Sicilia interna, quella che non vede il mare, raccontata in maniera ironica e spietata. Sette racconti da leggere d’un fiato.

Se fosse belga di lingua francese, puttaniere e giramondo, sarebbe Simenon. C'è quella stessa scrittura apparentemente lieve e disintiressata, scevra da compiacimenti, lo stesso occhio sulla vita e sulle persone, le loro storie minime, personali, intime che divengono grandi storie, assumono il respiro grande della narrazione, catturano il lettore e aprono sguardi profondi sull'umanità.

Le storie di questo libro, "L'impavida eroina, eccetera...", edito da Nulla die, sono così, ma sono scritte da Mauro Mirci, scrittore siciliano di lingua italiana, felicemente out dal giro dei TQ, che dalla sua posizione appartata ma attivissima nell'umbilicus Siciliae, ha il pregio di essere un narratore dalla penna agile e incisiva, ma ha anche tutte le difficoltà di chi è bravo e basta, nel pantano editoriale e dei vari circoli di autori rampanti o d'antan di questo Bel Paese stantio, che ormai "fete" più di un formaggio.

È grazie ad una piccola ma motivatissima casa editrice, Nulladie (nasce dal web con gli ebook e approda sulla carta), che possiamo gustarci i racconti del nostro, nell'augurio che presto venga alla luce un romanzo di questo autore, il quale già adesso, in queste storie brevi che scorrono lievi e meravigliano per tanta pulizia e incisività, lascia presagire un respiro e una maestria, tanto umile, quanto grande.

Da leggere, assolutamente. Cercatelo, compratelo e smettete di dire che il vostro libraio non ce l'ha. Su internet, oltre a cazzeggiare e spiare cosa fanno gli amici su facebook, si possono fare un sacco di belle cose, tipo comprare libri.

Francesco Randazzo







Mauro Mirci, L’impavida eroina eccetera, racconti, pagg 142, € 13,50, Nulla Die, ISBN 978-88-97364-34-4

Mauro Mirci è nato a Piazza Armerina nel 1968. Geologo, ha pubblicato racconti in antologie, fanzine e siti internet. Il suo sito internet è www.paroledisicilia.it


Dove acquistarlo:


martedì 26 ottobre 2010

Una nuova edizione di Si riparano bambole


ANTONIO PIZZUTO

SI RIPARANO BAMBOLE

A cura di Gualberto Alvino
Con una nota di Gianfranco Contini

Bompiani, ottobre 2010

lunedì 26 luglio 2010

A cura di Gualberto Alvino una nuova edizione (critica e commentata) di Pagelle di Antonio Pizzuto


Le Pagelle di Antonio Pizzuto furono pubblicate dal Saggiatore di Alberto Mondadori, con versione francese e note della svizzera Madeleine Santschi, in due distinti volumi di venti componimenti ciascuno: Pagelle I (1973) e Pagelle II (1975). Le stampe, licenziate ma non sorvegliate dall’autore, erano gremite a tal punto di mende tipografiche, sviste, errori da risultare a tratti indecifrabili. Pagelle rappresenta un momento capitale nell’evoluzione stilistica del prosatore più sperimentale dell’altro secolo: il passaggio dal regime delle lasse («episodi» iscritti in un unico disegno narrativo, ancorché fruibili nella loro essenza di blocchi compatti, e dominati dall’imperfetto, tempo della duratività e dell’indeterminazione) a quello appunto delle pagelle (brevi componimenti in sé conclusi, caratterizzati dalla soppressione del verbo ai modi finiti con relativa, inevitabile disgregazione di personaggi e vicende). Per Gualberto Alvino, meticoloso curatore di questa edizione critica commentata, «Pagelle costituisce principalmente l’atto di nascita della cosiddetta ‘sintassi narrativa’, spina dorsale del narrare opposto al raccontare: questo consistendo nella registrazione d’un dipanarsi d’eventi cristallizzati nella loro impartecipabile compiutezza, quello componendo l’aporia di tradurre l’azione in rappresentazioni col sancire la riduzione del fatto a pura astrazione».