Oltre al sonno e alla concentrazione ci sono anche altre cose che non sono state dette a nessuno.
Giornate intere che scompaiono, e brevi attimi che diventano un’eternità.

(Peter Høeg)

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domenica 6 novembre 2016

Memorie. Nella Taverna di Auerbach, di Patrizio Minnucci



     Nell’autunno del 1987 uscì ad Alatri il primo numero di una rivista culturale che avrebbe fatto storia: «La Taverna di Auerbach. Rivista internazionale di poetiche intermediali». Alcuni giovani intellettuali e artisti di tutto il mondo si riunivano, sotto la direzione di Giovanni Fontana, nelle pagine di una proposta culturale eterogenea ma legata dal filo portante delle poetiche intermediali. Si ebbe la possibilità di leggere in un solo numero testi di autori quali Stefano Docimo, Paul Zumthor, Eugenio Miccini, Elmerildo Fiore, Raffaele Manica, Tarcisio Tarquini, Franca Zoccoli, Gianni Toti, Franco Cavallo, Mario Lunetta, il grande Adriano Spatola, e molti altri. Artisti che avevano e avrebbero dato molto alla cultura italiana e non solo. Ai citati del primo storico numero v’è da aggiungere quello di Gualberto Alvino, che nel numero seguente illuminò Alatri tutta con un inimmaginabile numero monografico sul narratore palermitano Antonio Pizzuto.
     L’avventura della «Taverna» ebbe vita breve ma intensa, e i suoi effetti si ritrovano anche oggi: basti pensare che Gianni Fontana, i suoi amici della rivista e altri collaboratori sono tra i migliori poeti, scrittori e saggisti della letteratura contemporanea, letti e studiati in tutto il mondo con un successo che va accrescendosi col tempo.

venerdì 15 novembre 2013

Luigi Matt. La parola verticale di Gualberto Alvino

Gualberto Alvino, La parola verticale. Pizzuto, Consolo, Bufalino, prefazione di Pietro Trifone, Napoli, Loffredo-University Press, 2012. Da "Stilistica e metrica italiana", 12, 2012, pp. 361-364
Nel volume vengono raccolti studi già editi in rivista (tutti sottoposti a revisione e aggiornamento) sulla lingua e lo stile di tre scrittori siciliani certamente molto diversi tra loro, ma accomunati dalla volontà di tenere la propria prosa lontana dalla semplicità e dalla immediata comunicatività prevalenti – pur con molte e significative eccezioni – nella narrativa italiana degli ultimi decenni. I testi di Pizzuto, Consolo e Bufalino vengono sottoposti ad analisi di vario tipo, che trovano il comune denominatore nella volontà di indagare il livello formale delle opere, visto come chiave privilegiata per aprire le porte dell’interpretazione; metodo valido in generale, e tanto più opportuno nei casi, come quelli in questione, di scritture che a causa della voluta complessità possono sembrare a tratti, al lettore ingenuo (categoria nella quale vanno compresi invero non pochi critici letterari, soprattutto tra quelli che imperversano nei giornali), come esperimenti fini a sé stessi e addirittura privi di un reale potenziale semantico. Ma difficile e incomprensibile sono, evidentemente, due concetti assai diversi; il compito principale assuntosi da Alvino sembra proprio quello di mostrare attraverso una puntuale ricognizione linguistico-stilistica che anche le pagine più impervie degli autori studiati si rivelano, a chi le sappia leggere, tutt’altro che imperscrutabili. Non è un caso che il prosatore di gran lunga più propenso ad allontanarsi dalla lingua d’uso, Pizzuto, abbia bisogno di una serrata indagine lessicale (nei due saggi intitolati Onomaturgia pizzutiana, pp. 17-76), attraverso la quale vengano illustrate, sia dal punto di vista semantico sia da quello etimologico, le numerosissime coniazioni originali. Spesso, infatti, chi affronta le opere pizzutiane, soprattutto quelle appartenenti all’ultima fase (aperta da Paginette), si trova dinanzi a parole sconosciute e non immediatamente interpretabili; l’autore del resto era fermamente convinto che allo scrittore moderno sia lecito, e anzi consigliabile, richiedere al lettore «una compartecipazione attiva, direbbe un tomista in cointuizione» (come suona una sua definizione, cit. a p. 18; il riferimento qui è in realtà alle tecniche narrative, ma lo spunto appare estensibile alle componenti linguistiche). L’uso frequente di vocaboli inusitati non risponde certo, come a volte s’è detto, ad una pura e semplice volontà di ricercatezza se non di gratuita oscurità; come nota Alvino, è lontano dal vero chi vede nella prosa di Pizzuto «culto dell’ineffabile, malia simbolistica, o, peggio, secentismo, sfarzo estetizzante» (p. 20). L’effetto di spiazzamento che l’autore senza dubbio persegue in tutti i suoi testi è funzionale, nelle sue intenzioni, ad un arricchimento del potenziale conoscitivo insito nella parola letteraria (come d’altronde aveva dimostrato da par suo il primo ammiratore ed esegeta pizzutiano: Gianfranco Contini). Frustrare le attese del lettore è un modo di tenerne desta l’attenzione; è ciò che Pizzuto sembra voler ottenere in particolare quando risemantizza parole comunissime: ardue ‘luminose’ o ‘ardenti’ (da ardere), colpi ‘seni’ (dal gr. κολπός), giordano ‘vaso da notte’ (dall’ingl. jordan, voce presente nello shakespeariano Enrico IV), ecc. A proposito dell’ultimo esempio, va detto che la derivazione di parole da lingue straniere è piuttosto frequente: si vedano ad esempio camminferriere ‘di ferrovia’ (dal fr. chemin de fer), glùclica ‘felice’ (dal ted. glücklich), tanchisgìvimi ‘festa del ringraziamento’ (dall’ingl. thanksgiving). Scorrendo il ricco glossario allestito da Alvino si nota a prima vista come tra i numerosissimi neologismi ottenuti attraverso i principali meccanismi formativi dell’italiano accanto a termini semanticamente trasparenti (etruscoide ‘di aspetto etrusco’, monellume ‘gruppo di monelli’, sfazzolettio ‘l’agitare il fazzoletto’, ecc.), siano abbastanza frequenti invenzioni che richiedono un notevole sforzo interpretativo per essere decifrate; per far solo un esempio si può citare magdeburgismo ‘intensa emozione’, forma così spiegabile: «Da (emisferi di) Magdeburgo ‘cavi per rilevare l’effetto della pressione atmosferica’, col suff. -ismo» (p. 42). Non c’è dubbio che le glosse di Alvino, che di fatto costituiscono la prima ricognizione formale a largo raggio delle opere di Pizzuto, servano ad un duplice scopo: una migliore intelligenza della lettera di testi finora molto più citati che letti, e una prima incursione non superficiale nel laboratorio dello scrittore, da cui emerge, come elemento forse più rilevante, l’importanza capitale che aveva per lui la cultura greca. Se la vicenda letteraria di Pizzuto appare del tutto irrelata nel panorama novecentesco italiano, lo stesso non si può dire per la scrittura di Consolo, per la quale da tempo è stato autorevolmente proposto l’accostamento con la prosa di Gadda, della quale condivide la propensione per il plurilinguismo e la plurivocità (peraltro, è stato lo stesso Cesare Segre, nel momento in cui metteva in luce gli aspetti comuni ai due autori, ad operare gli opportuni distinguo). Nel saggio La lingua di Vincenzo Consolo (pp. 95-127) vengono affrontate in sequenza le principali opere del narratore; ne emerge, con la parziale eccezione del romanzo d’esordio, La ferita dell’aprile – in cui, «conformemente alle estetiche della verisimiglianza espressiva in voga negli anni Sessanta» (p. 97), si persegue una riproduzione del parlato orientata verso i registri più popolari –, una sostanziale fedeltà ad un tipo di prosa orientata contemporaneamente alla ripresa di elementi di forte letterarietà e all’evocazione insistita della sicilianità linguistica. Entrambi i serbatoi servono bene ad allontanare la scrittura di Consolo da quell’italiano medio da lui notoriamente disprezzato come veicolo di banalizzazione, volgarità e acquiescenza verso le idee dominanti. Gli arcaismi, è bene notare, non pertengono solo al livello lessicale, ma spesso riguardano la morfologia (soleano, diè, conquisi, ecc.). Quanto ai sicilianismi (di cui alle pp. 119-27 è offerto un regesto), è interessante notare la tendenza all’adattamento, in alcuni casi solo parziale, alla fonetica e alla morfologia dell’italiano, come in blundo ‘biondo’ (da bblunnu), intinagliare ‘attanagliare’ (da ntinagghiari), tomazzo ‘formaggio’ (da tumazzu); a presentarsi nella forma originale sono quasi solo quelle parole che non divergono dalle consuetudini fonomorfologiche della lingua, come accianza ‘occasione’, mafàra ‘tappo’, zotta ‘sferza’. I numerosissimi ibridi siculo-italiani sono una spia evidente della apertura di Consolo per la contaminazione linguistica, vista come fonte di arricchimento e quindi, implicitamente, come possibile strategia di resistenza di fronte alla decadenza che nella sua visione delle cose sconta l’italiano contemporaneo. Fenomeno estremo di deflessione dalla medietà linguistica è la propensione di Consolo per la ricerca di particolari effetti ritmico-prosodici, di cui l’esito più notevole è la presenza tutt’altro che sporadica di precise misure metriche (ecco ad esempio un paio di endecasillabi presi tra quelli censiti da Alvino in Retablo: «E gli occhi tenea bassi per vergogna»; «fuga notturna in circolo e infinita»). I passi appena citati sono spie anche di un fenomeno più generale: il fatto che il periodare di Consolo è caratterizzato dalla «strabordante congerie delle manovre topologiche» (p. 102). Attingendo alle possibilità offerte dall’italiano della tradizione letteraria, ad esempio, vengono realizzati tutti i possibili tipi di iperbato e di anastrofe. In un romanzo come Il sorriso dell’ignoto marinaio, vista l’ambientazione ottocentesca, i continui ammiccamenti all’italiano del passato varranno anche ad evocare almeno parzialmente un’atmosfera d’epoca; ma vanno anche rilevate spinte diverse, tra cui particolarmente notevole è la fortissima insistenza su un procedimento tipicamente novecentesco come l’enumerazione caotica, il cui effetto è spesso enfatizzato da due accorgimenti opposti: «l’eliminazione della punteggiatura – o il suo esasperato impiego» (p. 103). Il risultato più rilevante dell’ultimo saggio (Artificio e pietà. Contributo allo studio di Gesualdo Bufalino, pp. 131-58) è l’adduzione di molte prove utili a contraddire una lettura semplificante, e largamente corrente nella critica, secondo la quale la prosa del narratore comisano sarebbe pacificamente inscritta sotto il segno della fedeltà alla tradizione letteraria. Rispetto ad altri narratori che hanno esordito negli anni Ottanta, per i quali lo sguardo verso il passato sembra carattarizzato da un passivo e acritico desiderio di recupero di uno stile d’antan, Bufalino gioca consapevolmente a mescolare piani diversi. In un testo scritto poco prima della morte, l’autore indica tra gli obiettivi della sua scrittura il «combinare il visibilio del lessico alto e melismi dell’ineffabile con il sentimento di una ironica disperazione» (cit. a p. 141). È proprio l’ironia una delle chiavi di lettura per capire il senso di opere come Diceria dell’untore, in cui l’impiego, peraltro larghissimo, di moduli sintattico-retorici iperletterari (di cui Alvino offre un ampio e meditato catalogo) non va affatto interpretato come puro omaggio ai classici, ma risponde semmai all’esigenza di sfruttare a fondo le illimitate possibilità della prosa italiana, cercando di dar vita ad una vasta gamma di soluzioni, «in un perpetuo tentativo di convertire ogni emozione in peculiarità dello stile e viceversa» (come dichiara l’autore nell’autodiagnosi già citata). Colpisce peraltro che sia sfuggito a tanti critici il fatto, evidente a prima vista, che nelle pagine di Bufalino la componente arcaizzante sia tutt’altro che esclusiva, ma anzi conviva con materiali di opposta natura. Per bilanciare gli elementi per così dire nobilitanti della prosa vengono impiegati soprattutto accorgimenti lessicali, in particolare l’impiego di sicilianismi, per la verità non frequentissimi, e di neoformazioni, che viceversa spesseggiano nei testi di Bufalino. Si tratta per lo più di parole dotate di un alto tasso di espressività, spesso di significato trasparente: criptocretino, egofobia, isolitudine, madreterna, mafiocentrico, teratofilia, ecc. Per alcune conazioni meno immediate, si possono leggere le chiose dello stesso Bufalino, contenute in una lettera ad Alvino pubblicata in appendice al saggio; è il caso ad esempio di similsudista («Allude [...] a quel tipo di architettura neoclassicheggiante frequente nelle ville dei sudisti americani, al tempo di Via col vento»), o sonnogrembo («Il sonno come regressione nel ventre materno»). Vale la pena di segnalare anche che la prosa di Bufalino accoglie altre due categorie di parole estranee alla tradizione (su cui Alvino non si sofferma): i forestierismi e i tecnicismi. Interessanti in particolare i secondi, appartenenti per lo più al linguaggio medico, e adoperati volentieri in contesti metaforici insieme originali e pregnanti. Resta da dire di un saggio di impianto teorico, il brillante Dialogo dello Scettico e del Fautore (pp. 77-91), in cui Alvino appassionatamente difende l’opera di Pizzuto dalle facili accuse di oscurità, complicazione formale fine a sé stessa e «assoluto vuoto di esperienze umane» (p. 79), proponendo riflessioni che si possono estendere a molti altri autori appartenenti ad un’area che si può definire genericamente sperimentale. Anche chi non condividesse le valutazioni sullo scrittore in questione non mancherà di apprezzare la risoluta difesa delle ragioni dello stile, che solo un modo molto semplicistico di affrontare la letteratura può tenere totalmente distinte dalla sfera dei contenuti, «quando si tratta d’un binomio inscindibile. Di un’equazione. Lo stile è la materia» (p. 81; non per caso questo passo è sottolineato anche da Trifone nella Prefazione). Può sembrare un’affermazione ovvia, ma troppa parte della critica di oggi, piattamente contenutistica e totalmente sorda alle istanze della forma, dimostra che non è così.

domenica 2 dicembre 2012

Comunicare Pizzuto

Antonio Pizzuto è uno degli scrittori più originali del Novecento italiano, sperimentatore apprezzato da Gianfranco Contini in Italia e all'estero da intellettuali e scrittori come Michel Butor. “Comunicare Pizzuto” è un saggio di Salvo Butera che prova ad analizzare il "sistema comunicazione" dello scrittore, evidenziando come egli abbia operato una rivoluzione nei vari aspetti della forma particolare di comunicazione che è il testo letterario. Una scrittura, quella pizzutiana, fortemente multimediale che in certi casi (sebbene lo scrittore sia scomparso nel 1976) sembra presagire l'avvento del web e dei social network: lo si evince dal modo in cui Pizzuto coinvolge il lettore definendolo “coautore” del testo, ma anche dalla forma ipertestuale che hanno i suoi scritti, capaci sia di richiamare altri testi letterari che altre forme d’arte. Il tutto permeato da una musica intrinseca alla scrittura tanto che Butera prova a effettuare un parallelismo (neanche troppo azzardato) tra Pizzuto e compositori come Stravinskij e Schönberg. Una chiave di lettura originale per avvicinarsi a questo scrittore diverso da tutti gli altri. Il saggio si può leggere in formato ebook su Amazon.it.

sabato 27 ottobre 2012

La parola verticale di Gualberto Alvino


Recentemente per Loffredo Editore, nella collana Studi di Italianistica, è uscito “La parola verticale – Pizzuto, Consolo, Bufalino” di Gualberto Alvino.
Il volume è una ricognizione sull’opera dei tre autori virtuosi della forma che si fa sostanza, completa di glossari, indici morfologici, segnalazione di dialettismi, hapax e coniazioni originali fondamentali per entrare in profondità nella comprensione disvelatrice dei loro testi. Potremmo definirlo una sorta di istruzioni per l’uso.
Quello che però colpisce di più –almeno ha colpito il sottoscritto- è certamente l’impagabile dialogo su Pizzuto tra lo Scettico ed il Fautore.
Si tratta di una conversazione tolta dallo spazio e dal tempo, quasi gli interlocutori fossero a bordo di un’astronave, poggiati ad un ipotetico bancone di bar sorbendo un caffè ed approfittassero dell’occasione per scambiare opinioni. Il livello è alto, ma riesce a rimanere sempre colloquiale e a mantenere quindi una trasparenza, una intelligibilità che lo studio critico-filologico non può (e non deve) permettersi, liberandosi oltretutto dell’aura di impenetrabilità accademica che rende quegli studi normalmente riservati ad un pubblico di specialisti o specializzandi.

giovedì 21 giugno 2012

Gualberto Alvino: *La parola verticale*, Loffredo editore 2012

Dalla quarta di copertina:
Con ricognizioni linguistico-stilistiche a largo spettro, Gualberto Alvino affronta l’opera di outsider d’eccezionale competenza linguistica come Antonio Pizzuto, Vincenzo Consolo e Gesualdo Bufalino, «i quali – spiega l’Autore nella Premessa – non penne brandendo ma acutissimi specilli (donde il titolo di questa silloge), lavorano al trivio fra prosa, poesia e speculazione lato sensu filosofica, mirando alla rifondazione dell’arte narrativa in direzione antagonistica e di ricerca, ergo trasformando in capitale questione stilistica ogni minimo dettaglio del loro operare». «Colpiti a vario titolo e in diversa misura da imputazioni di ermetismo o di artificiosità, i tre scrittori sono strenuamente difesi dal critico per mezzo del più affilato strumento di investigazione, argomentazione e prova di cui si possa disporre: l’ermeneutica testuale, ossia la spiegazione dei significati e dei valori nascosti sotto il velame di ambigue o anomale opzioni linguistiche, interpretate quindi come stimolanti sfide all’intelligenza e alla sensibilità del lettore» (dalla Prefazione di Pietro Trifone). Filologo e critico letterario, Gualberto Alvino si è dedicato con particolare attenzione agli ‘irregolari’ della letteratura italiana contemporanea: oltre a Consolo e Bufalino, Nanni Balestrini (di cui nel 2008 ha curato la raccolta poetica Sconnessioni), Sandro Sinigaglia (Peccati di lingua, 2009) e Antonio Pizzuto, del quale ha pubblicato in edizione critica Giunte e virgole, Spegnere le caldaie, Ultime e Penultime, Si riparano bambole, Pagelle e i carteggi con Giovanni Nencioni, Margaret e Gianfranco Contini.

martedì 5 giugno 2012

Pizzuto e l'entropia narrativa


L’oggettivo è percezione, e di conseguenza il soggetto percipiente non può essere centro. Non più di qualunque altro soggetto percipiente.
Nello scrivere (e nel teorizzare) di Pizzuto rimbombano gli echi delle moderne teorie delle reti, dei sistemi complessi, dell’ordine caotico dell’universo, dell’invarianza di scala, si scorgono nitide le strutturazioni frattali e quelle isotropiche.
La narrazione di Pizzuto è entropica, <<è la seconda vista che sa scorgere il “vero”, ossia il poetico, al di là del reale, alla cui molteplicità il narrare –sfornito di centro e disperso in mille rivoli, ciascuno dei quali insieme marginale e centralissimo- non solo è perfettamente omologo, ma incessante adequatio>> come sostiene Gualberto Alvino, che dice poi anche <<una cosa (per Pizzuto, ndr) non è ciò che è, ma la costellazione delle cose che sembra>>. Come non riconoscere in queste espressioni le logiche di funzionamento dei moderni autofocus di videocamere e macchine fotografiche, basate su quella che viene definita logica fuzzy (logica sfumata)?
La logica sfumata è applicabile anche alla percezione dell’Io, che però non è sopprimibile. Nel suo pagellare, persino le distanze siderali che Pizzuto frappone fra sé e l’espressione del sé nella narrazione, persino l’indeterminazione del fatto vengono in qualche modo annullate nella reductio ad unum (unum in questo caso è da intendersi come flusso di percezione a forma di imbuto, il quale imbuto ha alla fine della parte stretta il soggetto) che il percipiente impone al percepito nello stesso istante in cui percepisce. E senza percezione non può esserci trasferimento a terzi –diciamo così- del percepito, neanche se il percepito è indeterminato e caotico.

sabato 9 aprile 2011

"Pagelle" di Antonio Pizzuto, a cura di Gualberto Alvino


di Filippo Secchieri



All’impresa di leggere Pizzuto — ché tale perlopiù si configura l’accesso alla sua pagina letteraria — Alvino ha dedicato, nel corso di un ventennio abbondante, notevoli sussidi filologici ed esegetici. Parzialmente anticipata in varie sedi periodiche, la munitissima edizione di Pagelle che vede ora la luce parrebbe possedere i crismi per togliere il bando che impedisce la circolazione attiva dell’opera pizzutiana tra un pubblico meno ristretto di quello rappresentato dai soli addetti ai lavori: sia concesso, quantomeno, formulare questo auspicio, incoraggiati anche dalla di poco successiva riproposta nella collana dei «Tascabili Bompiani» di Si riparano bambole, un romanzo del 1960 che torna in commercio nell’edizione approntata sempre da Alvino per Sellerio nel 2001. Pagelle appartiene alla fase della «sintassi nominale» o tout court «narrativa», se possibile ancor più catafratta delle precedenti, che informa la produzione estrema dell’ex-questore palermitano; così, tra i brani meno impegnativi, càpita ad esempio di leggere nelle battute finali di Idrovolante (una pagella di neppure trenta righe, che richiese circa un mese di lavoro): «Mestieri, unico passeggero, ricoverarti digiuno e squattrinato in locanda contrabbandiera là presso. Uno stambugio a abbaini, fornirlo branda, sedia, pila minima da acqua santa, decalogo; nel ricetto, niente giordano» (p. 119). Colpo di coda o di teatro – il sostantivo di cui si asserisce la mancanza – che non può non lasciare interdetti e sul quale torneremo. In origine le Pagelle apparvero in due volumi, ognuno contenente 20 pezzi, per i tipi de Il Saggiatore tra il 1973 e il 1975 con, a fronte, la versione francese (qui non riprodotta ma fruita al bisogno) e le note di Madeleine Santschi (in realtà ispirate da Pizzuto, quindi tenute in maggior considerazione nell’apparato). Già l’intromissione, nelle rispettive principes, di un’assortita serqua di refusi, di cui viene data opportuna collazione, sarebbe di per sé bastevole a salutare con favore la nuova stampa, riscontrata sui manoscritti autografi conservati presso la Fondazione Pizzuto di Roma nonché su parecchi altri documenti (dagli apografi autoriali di 37 Pagelle inviati in lettura a Contini, attualmente alla Fondazione Ezio Franceschini di Firenze, ai dattiloscritti della versione francese annotata, per giungere sino alle pre-pubblicazioni in rivista di alcuni gruppi di pagelle). Ma, naturalmente, c’è di più. L’esame degli autografi, spesso tormentati al limite dell’indecifrabilità, non ha soltanto consentito di ripristinare l’esatta lezione dei quaranta componimenti: ha altresì fornito un importante spaccato del laboratorio pizzutiano attraverso la ricostruzione, minuziosamente espletata nel folto apparato, del processo variantistico (comprendente anche le varianti alternative e cassate) da cui originano le singole pagelle. Non meno rilevanti sono le molte glosse marginali (scolî, annotazioni testuali ed extratestuali) che costellano il manoscritto ovvero rinvenute in un paio di missive a corrispondenti, utili a realizzare la seconda finalità (l’esegetica, in effetti inscindibile dalla prima) di questa edizione. Dopo un ampio saggio introduttivo (Fragments à réassembler) e la Nota al testo che con qualche coatta acrobazia dà conto dei criteri adottati, Alvino offre per ciascuna pagella un apparato costituto da una sintetica introduzione, da una fascia devoluta al commento (che a giusto titolo si avvale anche di riscontri intertestuali e di suggerimenti epitestuali) e da un’altra cospicua fascia riservata alla puntuale registrazione della frastagliata fenomenologia genetica. A seguire viene ristampato, come dalla princeps del ‘73, il breve saggio teorico pizzutiano Sintassi nominale e pagelle, mentre concludono il volume quindici lodevoli pagine di Glossario e alcune tavole che riproducono una campionatura dello stato degli autografi.
Simile profusione di energie si serba a conveniente distanza dalle superfetazioni e dagli idoleggiamenti feticistici che in più di un caso accompagnano, o addirittura motivano, operazioni così concepite; a richiederla è infatti l’oggetto stesso nella sua prismatica, reale ma non per ciò insondabile densità. Leggere Pizzuto è indubbiamente difficile, ma è altrettanto indubbio che non si danno letture davvero semplici, dal momento che, lo ricordava Borges nel Prologo a Il manoscritto di Brodie, «non c’è sulla terra una sola pagina, una sola parola che lo sia, poiché tutte quante postulano l’universo». Ed è una presupposizione di complessità che ritroviamo anche nella prassi pizzutiana, la cui oltranza agisce, secondo Alvino, «allargando sino alle estreme conseguenze le virtualità del sistema linguistico non – o non solo – a scopi comunicativi, bensì d’instaurazione di mondi» (Fragments, p. 9), all’incirca sostituendo alla realtà finita la potenzialità infinita della coscienza. La complessione dei mondi linguistici pizzutiani non è d’altronde priva di punti d’appoggio per un lettore partecipe e intraprendente. All’auspicio della sua esistenza l’autore fa esplicito appello nella pagella proemiale – Lettura – come a una desiderata controparte verso la quale «protendere ancor poco la mano» (p. 71) affinché abbia a verificarsi, con termine della filosofia tomista e rosminiana caro a Pizzuto, quella contuizione che gli permetterà di riconoscere le tracce del processo di elaborazione compositiva e di realizzarne il senso possibile. Allo stabilirsi di questa cooperante sintonia, il contributo del curatore è obiettivamente essenziale: grazie al suo commento (e al riassuntivo glossario) si apprenderà che l’altrimenti enigmatico «giordano» in explicit a Idrovolante è un neologismo coniato sul «jordan» dell’Henry IV di Shakespeare, dove se ne hanno due occorrenze; vulgus: che l’equivoca e disadorna stanza di fortuna è sprovvista anche di pitale. Siffatte integrazioni, atte a conferire perspicuità non soltanto alla sfera semantica, interessano ogni pagella, derivando sia dallo scandaglio della falda intertestuale (esterna e interna, come nel caso appena menzionato, visto il reimpiego della medesima fonte shakesperiana nel debutto della pagella successiva) sia dalla vigile interpretazione di un lavoro correttorio che dalla distillazione del dato realistico e talora aneddotico trae forza per ambire all’assoluto. Si ha in tal modo la riprova che «l’ultimo Pizzuto stampato nudo è un Pizzuto monco, dimidiato», poiché il suo scrivere costituisce «uno dei rari casi letterari, forse l’unico, in cui il percorso conti quanto la meta» (Fragments, p. 28; corsivo nel testo). Ne discende che l’edizione critica di Alvino, debitamente abbinata alle istanze del commento, non ha alcuna parvenza del vezzo amatoriale né dell’esercizio tecnico-culturale auto-ostensivo, al contrario ponendosi decisamente nel segno di una necessità concreta alla stregua di uno strumento di bordo indispensabile per avanzare lungo le rotte creative tracciate da Pizzuto e, soprattutto, per meglio apprezzare gli approdi raggiunti nella sua insistita, plenaria sperimentazione.

[Da «Oblio (Osservatorio Bibliografico della Letteratura Italiana Otto-novecentesca)», a. I (2011), n. 1, pp. 304-305]

sabato 15 gennaio 2011

Si riparano bambole


di Lorenzo Pezzato



Una mattina ti alzi, accendi il pc a riposo sulla scrivania, connessione automatica e sei online.
Un fatto banale, alla stregua di lavarsi i denti.
Un fatto che segna l’ingresso in un flusso di avvenimenti che mai si sono fermati, una marea in movimento perpetuo all’inseguimento del fuso orario, l’esistenza umana che si snoda lungo un percorso casuale senza capo né coda, un’evoluzione continua, un processo simile alla lievitazione in cui ognuno versa i propri grammi di farina rendendolo potenzialmente infinito.
Da questa massa mobile ed eterea è possibile sezionare dei tratti, ad esempio il periodo di tempo in cui si sta davanti al monitor, una semiretta di accadimenti che è una storia finita in sé, un estratto secondo l’invarianza di scala del complesso degli avvenimenti globali. Della corrente calda oceanica non è possibile determinare inizio e fine, è un ciclo (un sistema) aperto, così il complesso delle informazioni circolanti nella rete (sociale, non solo elettronica).
Si riparano bambole di Antonio Pizzuto è una di quelle semirette.
Nulla c’entra lo stream of consciuousness di Joyce, lontano più che mai dall’occhio osservatore pizzutiano, un occhio soggettivo spogliato di soggettività anche quando il riferimento è autobiografico, quasi a ripescare la proprie memorie dopo che queste si sono spogliate di qualunque personalizzazione mescolandosi alla massa dell’oggettivo.
È impressionante l’aderenza dello scrivere di Pizzuto con la nostra contemporaneità e le sue architetture evolutive nel senso della comunicazione, della narrazione e non del racconto, e questo la dice lunghissima sui passi avanti che il genio siciliano aveva fatto rispetto al suo tempo.
Si riparano bambole è un ingresso qualunque seguito da un’uscita qualunque, come se ci si fosse imbattuti in un viral-video di trenta secondi sulla vita di un qualcuno nel bel mezzo di nove ore di navigazione web ininterrotta.
Si riparano bambole è un evento indeterminato, un non-evento, un ossimoro biografico di straordinaria raffinatezza, una sorta di letteratura in codice binario elementare come solo i fenomeni ad alta complessità sanno essere, una storia rigida nel suo essere fermata in parola ma che si consegna al continuo rinnovamento proprio attraverso l’indeterminatezza.
È un’opera d’arte che non spiega sé stessa, si espone — è il caso di dire — alla compenetrazione col fruitore e il suo bagaglio emotivo, è materia inerte psicoreattiva (altro ossimoro) come la gelatina che scorreva nelle fogne di New York nel celebre film dei Ghostbusters, tanto per mescolare a questa riflessione qualche reminescenza generazionale cultpop.
Certo non è banale o popolare confrontarsi con Pizzuto, al contrario è un fatto drammatico e antidemocratico perché obbliga a proseguire nel confronto senza che la propria volontà possa qualcosa per contrastare la dispotica grandezza dell’autore. Ma è il primo impatto, la prima lettura, come il primo accesso ad internet, che lascia sbalorditi per l’immensità cui ci si affaccia e spaventa per la mancanza di punti di riferimento, di percorsi chiaramente segnalati, per il rischio di perdersi in una inconcludenza ectoplasmica. Poi si inizia a navigare e si impara a riconoscere la stella polare.
Coloro che hanno scritto che la letteratura di Pizzuto non è necessaria hanno perfettamente ragione, ma è da quella letteratura non necessaria che la necessità della letteratura è esaltata.

Antonio Pizzuto
Si riparano bambole
a cura di Gualberto Alvino
Milano, Bompiani, 2010

sabato 8 gennaio 2011

Alfonso Lentini su "Pagelle" di Antonio Pizzuto


Sintassi narrativa
"L'Indice dei libri del mese", dicembre 2010, n. 12, p. 15




Antonio Pizzuto
Pagelle
Edizione critica commentata di Gualberto Alvino
pp. 340, € 24,00
Polistampa, Firenze 2010


Se la scrittura di qualità non risulta conciliabile con la facile vendibilità, oggi sembra quasi impossibile che possa trovare spazio presso la grande editoria e addirittura, come ha giustamente notato anche Silvia Ballestra sulla nuova serie di "Alfabeta", la qualità può diventare una sorta di imbarazzante ingombro, un ostacolo alla pubblicazione.
In un quadro così desolante appare perfino temeraria l’azione della fiorentina Polistampa, da anni impegnata a promuovere e rilanciare l’opera di un autore, Antonio Pizzuto, che gode fama di essere tra i meno commerciali fra i classici del secolo scorso. E se ultimamente anche una casa editrice “gigante” come la Bompiani si è fatta avanti per offrire il suo decisivo contributo per la valorizzazione di questo autore, lo si deve senz’altro al lavoro caparbio, periglioso e prolungato che la Polistampa, con mezzi certamente più precari, ha avuto la forza di condurre finora, svolgendo per anni la funzione di audace battistrada.
Pagelle (edito in due volumi dal Saggiatore nel 1973 e nel 1975) è dunque la nuova ri/pubblicazione pizzutiana che l’editore fiorentino manda ora in libreria, dopo aver fondato nel 1998 una specifica collana che si propone di mettere in circolazione la produzione edita e inedita del grande scrittore siciliano (scomparso nel 1976, dopo aver conquistato, sia pure in età matura, gli entusiastici consensi della critica più sensibile ed in particolare quelli di Gianfranco Contini).
Pagelle appartiene alla produzione tarda di Pizzuto, cioè a quella considerata più oscura e involuta. Solo dopo il poderoso lavoro condotto con rigore filologico da studiosi come Gualberto Alvino e Antonio Pane dagli anni ottanta in poi, si è trovata una diversa chiave interpretativa di quegli scritti: l’apparente “oscurità” di Pizzuto non deriva dall’essere asemantica (né da “poetiche dell’indefinito”), bensì dal suo essere fortemente semantizzata, anzi talmente densa di significati compressi da presentarsi come una sorta di “buco nero” di materia linguistica altamente concentrata.
L’apparato critico che Alvino offre ora in questa pubblicazione si rivela dunque prezioso, anzi indispensabile per lo scioglimento dei nodi enigmatici che costellano le pagine (o pagelle, «sinonimo latineggiante di paginette», come ebbe a dire Pizzuto), dove l’opera non è più scandita in lasse (cioè episodi di un continuum narrativo), ma si snoda ad arcipelago, attraverso brevi componimenti in sé conchiusi: piccoli iceberg dove la scrittura prende le vie più impervie e rarefatte. Bandito ogni verbo dai modi finiti, si crea un effetto di sospensione sintattica che tende alla cristallizzazione nel vuoto di azioni, situazioni e personaggi. Le parole si fanno stranianti e quasi indecifrabili. La sintassi, pur rigida come filo spinato, tiene insieme un intrico di frasi che in effetti, senza un adeguato apparato critico e di note, potrebbe far pensare a una scrittura polisemica o astratta. L’effetto è raggelante, ma il lettore è posto di fronte a una prosa segmentata che, per quanto in apparenza impenetrabile, risulta pervasa da una strana e misteriosa armonia: «Come nei boschi cedui albero segnato, consimile per estinguendavi carica la residua vitalità al pendolo verso inanizione: baldo sempre infra urna contro parete».
La prima edizione di Pagelle uscì con note della scrittrice e traduttrice svizzera Madeleine Santschi, che si rivelarono però approssimative e piene di inesattezze. E le varie edizioni “nude” (cioè prive di note e di apparato critico) dell’“ultimo Pizzuto”, uscite quando l’autore era ancora in vita, non hanno certo contribuito a far chiarezza.
Va dunque riconosciuto che solo grazie al lavoro scientifico e instancabile di critici e filologi seri come Alvino, grazie alla loro ricerca quasi “da detective” volta a indagare nelle pieghe più riposte della caotica documentazione cartacea (oggi conservata nella sede della Fondazione Pizzuto) e negli episodi, anche minimi, della vicenda umana, le pagine di questo Autore cominciano adesso a illuminarsi di luce nuova e intorno vi si scopre una costellazione di riferimenti, fatti, citazioni, episodi biografici che danno a esse corpo più concreto, diremmo quasi un “fondamento materiale”. Riprendono insomma a camminare “con i piedi per terra” scritture che altrimenti sembravano sospese fra le nuvole dell’indeterminazione, diventando finalmente fruibili perfino da un lettore non specializzato che vi si può accostare anche solo per il piacere di seguire il percorso delle note con la curiosità con la quale si segue lo sviluppo di un giallo.
Ma per quanto rese ora decifrabili e più “leggibili”, bisogna tuttavia considerare che le Pagelle vanno distinte dal “racconto” tout court. Come scrive Alvino, Pagelle costituisce «l’atto di nascita della cosiddetta “sintassi narrativa”, spina dorsale del narrare opposto al raccontare». E infatti «narrare» per Pizzuto equivale a una scrittura “unicellulare”, volta ad abolire la stessa idea di scansione temporale. Di qui la scelta di una sintassi nominale e la trasformazione dei personaggi da «documenti» in «testimoni». Di qui il carattere puntiforme, franto, disarticolato, ma insieme potentemente espressivo (e sperimentale) di quest’opera, tra le più compiute della produzione di Pizzuto e certamente fra le più rappresentative di un’idea della scrittura che, piaccia o non piaccia, il Novecento ci ha lasciato in eredità.

martedì 26 ottobre 2010

Una nuova edizione di Si riparano bambole


ANTONIO PIZZUTO

SI RIPARANO BAMBOLE

A cura di Gualberto Alvino
Con una nota di Gianfranco Contini

Bompiani, ottobre 2010