Oltre al sonno e alla concentrazione ci sono anche altre cose che non sono state dette a nessuno.
Giornate intere che scompaiono, e brevi attimi che diventano un’eternità.

(Peter Høeg)

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venerdì 10 novembre 2017

"Geco", il nuovo romanzo di Gualberto Alvino

DI FIORELLA SANTONCINI



     «Un tuffo nello ‘stile semplice’. Con qualche impennata». Così l’autore presenta il suo romanzo, quasi a voler apparire rassicurante, ma guai a lasciarsi illudere che semplicità in Alvino coincida con serenità. Senza alcun preambolo propedeutico, il lettore viene aggredito da un essere indefinito, ma certamente repellente, insieme alla protagonista, e scaraventato nel clima tragicamente travagliato della storia, incalzato, senza respiro, fino alla fine. Ma si è rapiti dal linguaggio: l’annunciata semplicità rende più accessibile e decifrabile il pensiero di Alvino, ed è incantevole scoprire come ogni parola sia essa stessa un concetto, un sassolino di una architettura estremamente complessa ma niente affatto equivoca, né irrisolta o, tantomeno, traballante. Sconcertante, questo sì, ma d’acchito, come quando si legge: «La logica è la guazza degli stolti, ricordi? Uno: spezzare le sinapsi; due: crearne di nuove; tre: la via della verità è un filo d’aria cui solo ai folli è dato aggrapparsi. Le più antiche, le più salde e luminose delle nostre idiozie, i fari di sempre»: perché a rifletterci si estrae il nocciolo: «la via della verità è un filo d’aria cui solo ai folli è dato aggrapparsi». Ed è questo uno dei fondamenti dell’edificio alviniano.
     Questo “stile semplice” è in realtà una continua invenzione, stupefacente per la capacità di raccontare il banale o l’assurdo con la stessa efficacia della tanto amata «parola verticale», cosicché alla “parola normale” viene conferita una nobiltà, una forza espressiva e una estrosa originalità, inaudite. Accompagnata dal ritmo. Che in Alvino non ha mai cedimenti, sia che scriva poesie o romanzi; quel ritmo che riecheggia la prosodia dei classici antichi, evoluto a nuovo stile, nuovo e addirittura contenente i germi del futuribile.
     Autofaga, autofaga e masochista è la protagonista di questo romanzo, guidata allo sbaraglio da turbe mentali che sfociano nelle psicosi più impensabili e divoratrici, come un’anoressia tanto ostinata da diventare persecutoria e da aggiungere visioni a quelle generate dalla mente in disfacimento (il cibo come «schegge di granito»), disfacimento che Alvino definisce con una felice espressione «emorragia del senso, riflusso della ragione».
     Confesso che, leggendo, annotavo sul mio taccuino le frasi più significative, più incantatrici, con l’intento di citarle. Ho desistito: ogni pagina me ne forniva una di più, e praticamente, proseguendo su quella strada, riscrivevo l’intero romanzo. È questa ricchezza di sensi, significati, simbolismi, una ininterrotta cuccagna di trofei filosofici, psicologici, antropologici, linguistici, che costituisce il fascino coinvolgente, ipnotico della scrittura di Alvino. Che rischia di prevaricare l’interesse del racconto. Ma vi si reimmerge rapidamente: sotto l’apparente caos dello svolgersi della vicenda, Alvino non perde mai il filo e non lo fa perdere al lettore. Che scopre affacciarsi alla scena, il critico mentre chiosa lo scrittore: «… anche la lingua che uso nell’annotarli è quanto di più alieno dai miei modi: stringatezza da codice a barre, armonie mai sentite, ritmi da fracassare le ossa; sembrano catene di singhiozzi, martelli pneumatici nel silicio» ed enuncia il potere o il limite della parola: «… si splende attraverso il linguaggio, si acquista peso, identità, misura»; oppure: «… la scrittura è impotente a scrollare il giogo, ma perché stende veli di muffa proprio quando sembra toglierli».
     Però la scrittura racconta egregiamente le stazioni attraverso le quali la protagonista trascina il proprio calvario. La paranoia che la induce a spiare tutto e tutti ossessivamente, per lei diventa uno «Spiare» che «dà vita alla vita», e il suo modo naturale di approcciarsi al mondo, attaccandosi dovunque e a chiunque come un geco, che in questo atto assorbe, succhia («Vampiro avreste dovuto chiamarmi, non Geco») l’essenza di ciò a cui si attacca, diventa la somma di tutto. (Noi, dunque, siamo il risultato dei nostri contatti).
     Belli i riferimenti alla natura dell’arte: «non devo far altro che pedinare un’idea nata chissà come e incarnarla in una forma il più possibile organica, compiuta»; «L’arte non può nuocere, neanche quando inneggia alla degenerazione, alla crudeltà, al nulla»; «Modellare una frase è scolpire il pensiero»; «L’arte non ammette falsità».
     Sconcertante è l’abilità di Alvino (probabilmente mutuata dalla sua esperienza di sceneggiatore cinematografico) di incuneare una scena nella successiva, come in una sequenza cinematografica, senza soluzione di continuità, e come in essa appaiano dal nulla figure che si soffermano, recitano la loro parte e cedono il posto ad altri, allo stesso modo in cui in un balletto si succedono sulla scena i componenti dell’insieme. Silenziosi, mimano il loro pensiero, raccontano la loro storia attraverso le azioni che compiono nel lasso di tempo della loro presenza, e spariscono, per ritornare talvolta e di nuovo sparire, allo stesso modo. Ecco, una rappresentazione coreutica, è questa la forma letteraria di Alvino. Alvino che rivela l’umiltà della sua natura quando, professorale, insegna: «Basta poco a far tornare la pace: non credersi il centro del mondo». E l’uso costante dell’indicativo presente sembra suggerire un’ipotesi di illusione: se tutto è solo presente, senza passato cioè senza storia, senza futuro cioè senza speranza, tutto è illusorio, come la “filosofia dei sogni” aveva già preconizzato. E allora si ritorna a quella frase incontrata all’inizio: «la via della verità è un filo d’aria cui solo ai folli è dato aggrapparsi», e ci si chiede se non sia questo il cardine, l’eterno tormento dell’uomo e dell’artista.
     Talmente ipnotica è la lettura che d’improvviso, come in un brusco risveglio, sembra di intravedere la ragione di tanto coinvolgimento: Alvino gioca. Gioca a soggiogare il lettore, a sbalordirlo, in una sfida che è lui a condurre fin dall’inizio. Il lettore, impercettibilmente ma vorticosamente, si lascia avvincere, condurre sempre più nel profondo finché la rete, tesa dal maestro prestigiatore, si chiude senza scampo. L’esame di idoneità, di tenacia, di fiducia cieca. Lo fa dire al suo personaggio, ma potrebbe essere lui, il Maestro, a chiedere: «Sei alla mia altezza»? La partita a poker, come metafora di questo gioco che ha come “piatto” la conoscenza. Forse tutto è un parto fantastico, una cavalcata della fantasia a briglia sciolta, un incrocio di sogni, appunti, schizzi della memoria, lampi di vita vissuta… un pretesto? Per sciorinare la bellezza della forma di quella lingua che è, di Alvino, la religione.
 




martedì 4 aprile 2017

LÀ COMINCIA IL MESSICO DI GUALBERTO ALVINO (di Fiorella Santoncini)



     I libri di Gualberto Alvino dicono molto più di quanto il numero delle loro pagine possa far credere: essi lasciano una scia nella mente e nell’anima, il germe del pensare che egli inietta senza parere nei suoi lettori facendone di fatto, suoi discepoli. In questo Là comincia il Messico tanti e tremendi sono i temi che discute con sé stesso in un lungo incalzante monologo diretto ad un interlocutore muto (e senza nome, un innominato), ricettore passivo dell’opera di plagio che compie subdolamente la voce protagonista insinuando nella mente della vittima il seme della paranoia, trasformandolo inesorabilmente in un mostro bestiale. Come in un percorso che partisse dal personaggio abulico e confuso dei quadri di Francis Bacon, preda indifesa e areattiva, che scivola nel fumo di un torpore in cui penetrano senza ostacoli e forse invocate, allucinazioni, mostri eroditori della coscienza, che si stringono a cerchio attorno alla vittima divorandola fino ad una finale mutazione genetica, creando un nuovo essere, automa amorale, come i mostri di Max Ernst. Ma durante questo percorso, molte sono le domande sui fondamenti dell’esistenza, domande terribili a cui l’autore stesso dà una definitiva risposta, essa sì terribile, più ancora degli incubi con i quali tortura il suo personaggio, più ancora delle terribili domande, perché ha il sapore di una sentenza inappellabile: «Ciascun quesito ha infinite risposte, dunque nessuna.» Eppure questo non ferma il protagonista nella sua vorace ansia di «capire» (il possesso del sapere: bulimica luciferina mania di grandezza o ansia di eternità?), perciò affida alla insinuante voce del tentatore il compito di portarci dentro ai quesiti con una straordinaria forma narrativa che illustra atti, azioni e vicende attraverso lo sciorinare dei sentimenti, delle sensazioni ed emozioni che quegli avvenimenti hanno prodotto nel personaggio senza nome, la vittima, tanto da poterne dedurre che quello che conta non è ciò che avviene, ma come lo si percepisce e come incide sull’essere. E allora emerge il filologo: «[…] la struttura del linguaggio riflette l’ordine della realtà, dimenticando che lo stato delle cose è inconoscibile, dunque immotivato, pertanto indicibile». E qui la filologia si gemella con la filosofia e con l’antropologia, per esempio nella straordinaria descrizione dell’uomo attraverso i motivi dell’odio, elencati in un ritmo incalzante che toglie il respiro. E sempre restando sul confine filosofico, vale la pena citare alcune definizioni. Sull’arte: 1) «In arte lo sguardo conta assai più del guardato» (dunque la percezione individuale?). 2) «L’arte scaturisce non dalla qualità dei dati contenutistici, ma dalla struttura formale, unica e sola depositaria del senso… In arte il diluvio universale non ha maggiori diritti del belato d’un capretto, o del flettersi d’un filo d’erba. L’errore è credere che lo stile stia da una parte e la materia dall’altra, quando si tratta di un binomio inestricabile. Di un’equazione. La sostanza dell’opera sta nella sua sagacia costruttiva». Sull’indipendenza della critica: «[…] contro quanti pretendono ridurla a scrittura di secondo grado, utilitaria, ancillare, perdutamente infeudata al genio altrui, argomentando che al presunto interprete-eunuco non è dato fecondare la lingua, che il cosiddetto brivido della creazione pertiene in fatto e in diritto a un ordine radicalmente superiore, che il critico è un cencioso scudiero dannato a splendere di luce riflessa perché chiamato a scrivere su qualcosa: qualcosa di preesistente alla sua venuta, in mancanza del quale la sua voce sarebbe fatalmente destinata a tacere… postulando l’assurdo di un’arte priva d’utenti, sganciata dagli ormeggi della fruizione e indifferente agli acidi dell’azione ermeneutica. Che al contrario ne rappresenta la necessaria catalisi, il vero atto di nascita, essendo non solo in grado di rivelarne intima struttura e segrete ragioni, inafferrabili ai più (non di rado allo stesso autore), ma di tramutarli in edificio di pensiero, stile: ossia in un’opera a sua volta autonoma e originale che, no, non sarebbe sorta senza il suo referente, ma nemmeno questo avrebbe potuto compiutamente costituirsi, posto che la realtà estetica si determina nel preciso istante in cui lo sguardo dell’osservatore si spiega sulla cosa osservata.… Uno scrittore è solo uno scrittore, ma un grande critico può far brillare l’universo nel palmo della mano.» A proposito di questa sua appassionata e incontestabile difesa della critica, vorrei citare come opera autonoma e originale (anzi, essa rimasta nella storia della letteratura mentre del suo oggetto si è persa memoria), il Trattato sulle donne di Denis Diderot, nato come critica ad un libro dello scrittore suo contemporaneo, Antoine-Léonard Thomas, e divenuto invece esso stesso un libro di sorprendente attualità nel nostro tempo. Mentre a dimostrazione di come un grande critico possa «far brillare l’universo nel palmo della mano», vorrei ricordare la mirabile opera di riscoperta di Piero della Francesca da parte di Roberto Longhi e il riscatto artistico-storico di Mario Sironi ad opera di Lionello Venturi. La tormentata serie di domande sulla crudeltà di Dio, che ho ritrovato anche in Pelle di tamburo, terzo romanzo di Alvino, è un’angoscia destinata a non vedere schiarite e, nonostante ci si soffermi su questo tema a lungo, in fondo Alvino sa che non otterrà risposta perché il cielo è muto. Motivo che va ad aggiungersi alle cause della follia. Che procede inesorabilmente verso l’ultimo capitolo… verso il sesso femminile! Non si salva, il povero protagonista silenzioso e senza nome, dall’ossessione del sesso femminile, da questa donna dalla quale proviene e nella quale vuole ritornare. È un vero amore-odio il rapporto con l’altro sesso per il personaggio, da quando sente la frustrazione del confronto con la prima donna, più intelligente, brillante e colta di lui, fino al duello sessuale con il quale egli vuole esorcizzare la tentazione di guardare all’amore come tenerezza, sentimento, salvezza. Amore e salvezza intuiti nell’amplesso con quel: «si fa me», bellissima piccola frase che contiene l’universo dell’amore. Ho trovato in un passo, una figura nella quale ho creduto di riconoscere il ritratto del critico (non oso pensare autoritratto): «l’impassibilità, il distacco, la calma del nibbio che abbranca la preda a cuore fermo e a cuore fermo macchinalmente la sbrana, con innocenza, tenerezza, ponendo fine al suo orgasmo inessenziale: mai premuto da collera, né sfiorato da odio, da rancore.» Su tutto, trionfa ammaliatrice la mirabile ricchezza nella forma linguistica, nuova, riconoscibile come sua, originale. E sono deliziose le lezioni di sintassi che con naturalezza inserisce qua e là nel testo. Pone questa domanda: quale sarebbe il contrario di mediocrità? E fra le parole che prende in esame per la risposta non ne ho vista una che mi permetto di proporti: eccellenza. E, chiedo, c’è forse una puntina, ma piccola piccola, di maschilismo nel suo definire il “dotto scindere” effeminato? Peccato, il libro è finito. Ma so che ne arriverà un prossimo laddove io sarò ad aspettarlo.