Oltre al sonno e alla concentrazione ci sono anche altre cose che non sono state dette a nessuno.
Giornate intere che scompaiono, e brevi attimi che diventano un’eternità.

(Peter Høeg)

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domenica 9 agosto 2020

Bruno Pompili, Il fratello lontano

 

Bruno Pompili

Il fratello lontano

Manni, Lecce, 2020

di Alfonso Lentini 

 

Sovrapponendo a una scrittura fortemente contemporanea le atmosfere fiabesche e misteriose dei Vangeli (apocrifi o canonici che siano), Bruno Pompili mette in scena una sincopata e sbilenca “vita di Gesù” e ce la racconta laicamente (o, se si vuole, “infantilmente”), attraverso il punto di vista di uno dei fratelli del Cristo, un sosia inconsapevole, che guarda gli eventi da lontano, sbirciando quasi a caso fra i vari episodi che l’iconografia e la fantasia popolare ci hanno tramandato, mostrando di averne vaga o nulla comprensione (o forse, al contrario, segreta consapevolezza):

«Sì, ora sono proprio insicuro quasi su tutto. Vedo figure e temo che si dissolvano; osservo tracce esigue e invece sono corpi».

Fedele e infedele alle narrazioni evangeliche tradizionali, il libro è disseminato di contrasti irrisolti. Gli episodi, a volte semplici accenni, non giungono quasi mai a compimento e si perdono in un viluppo di enigmi mai del tutto chiariti.

«Mi guardò molto, senza parlare, un poco scuotendo il capo. E poi mi disse di non restare a lungo, e poi mi disse di restare fino all’indomani, di incontrare mio fratello, e poi mi disse di andarmene al più presto.

Non avevo nulla da proporre, e obbedii. Non so a quale suo desiderio, poiché mi chiedeva cose in contrasto».

Tuttavia il punto di forza del libro è proprio in questo narrare nebuloso: lucido e onirico, compatto e sfilacciato, realistico e surreale, ha la capacità di inchiodare alla pagina meglio di un semplice thriller. Persino il finale, al quale si giunge col fiato sospeso, non sembra chiarire i fatti, anzi aggiunge mistero al mistero. Questo non-epilogo potrebbe sembrare deludente al lettore avvezzo alle semplificazioni della letteratura di consumo; ma a chi ama la scrittura irrisolta, complessa, interrogativa, non potrà che apparire come un arricchimento. Perché quello che importa non è dipanare la matassa, ma rendere conto di come la matassa si intrica.

Tanto più che il libro, al di là dell’argomento delicato e “difficile” che affronta (e pur rimanendo dentro a un racconto lineare), deraglia dalla tematica principale in cui può sembrare compresso e si apre a ventaglio verso le più diverse diramazioni di contenuto; così, ad esempio, può essere letto come una modernissima scorribanda sul tema del doppio, in quanto i due protagonisti, Gesù (Joshua) e il suo “lontano” fratello, non sono che un’interfaccia, diversi eppure talmente simili da diventare quasi intercambiabili proprio quando il racconto si muove nelle vicinanze dalla croce alla quale uno dei due dovrà essere appeso.

Attraverso questo gioco di specchi fra i due personaggi (a cui si aggiunge, in coda, la figura di un terzo fratello, Belshatzzar, il più enigmatico e inquietante di tutti) si mette in scena una forma di inchiesta, dai risvolti forse più psicanalitici che teologici, su cosa sia l’identità o la non-identità, e di conseguenza sulle costellazioni che tengono insieme le realtà interiori di ciascuno e le rapportano al mondo esterno.

«Potevo essere preso per il gemello opaco di Joshua, ero l’invisibile. Mi é sembrato in alcune circostanze di essere stato l’inesistente: senza dar peso negativo, tanto mi sentivo egualmente me stesso, e mi bastava».

Importa raccontare la matassa percorrendone gli intrichi, dicevamo: ma ancora di più importa la materia di cui è composta la matassa stessa, che in una narrazione non può essere altro se non la lingua: che qui germoglia tagliente, aforistica, esatta al punto che le parole sembrano colare sulla pagina rotonde e calde come gocce di piombo fuso.

«Non sappiamo quando arriveremo a Yerushalayim, che teniamo sempre lontana con diversioni di sentieri e sempre la pensiamo senza sapere il futuro e col peso di una previsione di dolore, che non ha solo l’immagine di mio fratello sofferente ma quella di nostra madre e la sorpresa di molti sulla perversa logica dei poteri umani. Io penso anche al silenzio divino.

Xantra dice che nessuno può essere nelle intenzioni del padre, poiché non a tutti i figli viene rivelata la stessa cosa.

E anche a noi è lasciato il compito di dover cercare per conto nostro, con errori ed egoismi, con una stanchezza vaneggiante che spesso decide per tutto il resto». 

 

 

Bruno Pompili - Nato nel 1938 in Romagna, vive a Bari. Ha insegnato Letteratura Francese all'Università di Bari dedicandosi alla ricerca soprattutto nell'ambito delle Avanguardie e della letteratura del Novecento.

Ha pubblicato libri di saggistica, e a partire dagli anni Novanta alcuni volumi di narrativa e teatro.

 


 

domenica 28 giugno 2020

Gaetano Testa, "Al balcone sognando"

 
 

«L’atto di scrivere esige una perfetta innocenza», dice Vladimir Jankélévic. Poi, forse per sottolineare la debolezza della parola di fronte all’imprendibilità del reale, aggiunge: «Non bisognerebbe che le parole stesse si trasformassero in stelle cadenti?» Non so se la scrittura di Gaetano Testa sia composta di stelle cadenti, ma è sicuramente innocente. Lo è perché ignora il principio di non contraddizione o qualsivoglia principio di sistematicità. Lo è perché innocentemente si contraddice, si mostra fedifraga e nel contempo sincera, scivola dalla descrizione ad altissima definizione a improvvisi sussulti in cui senso e non senso si interfacciano con sorprendente naturalezza.  Lo è perché risulta del tutto inaddomesticabile e indefinibile: «do col naso gli occhi i polpacci un nome panciuto alle cose».
Gaetano Testa (Mistretta 1935), protagonista negli anni Sessanta dell’ala palermitana del Gruppo 63, radicalmente anarchico al punto da rinunciare per scelta di vita a ogni mira carrieristica, si è da molti anni auto-confinato in un suo privatissimo spazio di “resistenza esistenziale” dal quale però continua a mostrare i denti e a rappresentare un’importante presenza-assenza nella scena culturale non solo palermitana. Insieme ad un gruppo di autori che lo riconoscono come essenziale punto di riferimento, negli anni ha dato vita a un vivacissimo laboratorio di sperimentazioni aperte, ha creato due riviste (“Fasis”, “Per Approssimazione”) e una casa editrice (“Perap”), ha prodotto opere di arte visiva ed ha pubblicato diversi volumi: da un romanzo che curiosamente ha un titolo non alfabetico ma numerico, “5” (Feltrinelli, 1968), sino a quest’ultimo, “Al balcone sognando” (Perap, 2020). Ed è talmente anarchica e aperta la sua scrittura, che talvolta confluisce nella scrittura di un altro, in particolare in quella di Francesco Gambaro, insieme al quale Testa ha pubblicato diversi libri (“Borno”, “Jallo”, “Quartini”…). Fra Testa e Gambaro (che purtroppo è deceduto nel 2019) vi è stata infatti una intensa frequentazione, e questi libri “a quattro mani” dove la scrittura dell’uno non è distinguibile da quella dell’altro, ne sono un esito quasi naturale; ma fra i due si era creata una sintonia ancora più forte, tanto che solo grazie ad essa e all’azione “aggregante” di Gambaro, è stato possibile dar vita a una straordinaria esperienza di creatività collettiva che ha coinvolto negli anni non solo personaggi come Edoardo Sanguineti, Paolo Volponi, Mario Lunetta, Fulvio Abbate, ma soprattutto autori in gran parte estranei alla letteratura ufficiale, personalità diverse, ma accomunate dall’interesse verso la pratica dell’avanguardia intesa come libera e radicale sperimentazione espressiva. Fra questi, citando alla rinfusa: Giuseppe Zimmardi, Nino Vetri, Carola Susani, Pippo Rizzo, Costantino Chillura, Gaetano Altopiano, Antonio Patti, Mimmo Gerratana, Antonio Pane, Nicola Di Maio, Sergio Toscano, Giancarlo Mirone, Giuseppe Tutone (e fra gli altri – inutile negarlo – anche il sottoscritto). Per non parlare di artisti come Toti Garraffa, fotografi come Letizia Battaglia, uomini di teatro come Nino Gennaro, giornalisti come Guido Valdini, musicisti come Salvatore Sciarrino, musicologi come Aurelio Pes...
Testa non si è posto però come capo carismatico, tanto meno come ideologo, si è limitato a rappresentare niente più che se stesso innescando negli altri un istintivo meccanismo di mimesi. Questo nuovo libro, insieme al corpus delle altre pubblicazioni edite, non è che una minima parte dell’immensa matassa di scrittura che Testa produce quotidianamente quasi in sintonia con la sua respirazione polmonare; un’unica spiazzante matassa di dimensioni “atlantiche”, come ebbe a definirla Francesco Gambaro , aggiungendo che in Testa «l’inconclusione è cercata come bisogno primario, non tanto di spiazzare il lettore ma di spiazzarsi».
L’ ”inconclusione”, appunto:

«ma lei non ha ancora finito (pausa) mi sba­glio?"
"non si sbaglia però (pausa) forse lei non dovrà di­menticare che è molto proba­bile che io non sappia mai quando ho finito (pausa) anche nel senso che posso avere già finito"
"spero che esista un momento in cui le è chiaro se ha finito o no"
"non sempre (pausa) ma questo non è un vero pro­blema"».

Testa è insomma un sismografo che registra ininterrottamente i moti di un corpo e di un cervello, («ho nel corpo e mi si va sviluppando un orientamento senza sì e senza no che dà un senso a tutto quello che vado facendo e che somiglia a un nonsenso») ma anche di uno spazio geografico osservato con occhio da entomologo, gusto e disgusto, complicità e distacco, crudo realismo e guizzi visionari:

«la sicilia è un'isola che in pochissimo tempo è di­ventata una pro­vincia dei sar­gassi basta allontanarsi un metro e già comincia a profumare di ri­noceronti bianchi».

Non che i suoi libri, nel loro essere inconclusi e ramificati, siano intercambiabili, ma certo è difficile riassumerne il contenuto in quanto sono parte di una rete intricatissima di connessioni, ripetizioni, rotazioni a spirale. Sono insomma frammenti di un corpus che in teoria non si potrebbe segmentare in una struttura limitata (come per sua natura sarebbe quella di un volume). In questo libro pertanto si narra una minima sezione dell’atlante, la scorribanda sfilacciata di un gruppo di amici per le vie di una Palermo mutevole e immobile che potrebbe non essere Palermo ma qualsiasi altro luogo del cosmo, se non fosse che qualsiasi luogo del cosmo nelle pagine di Testa somiglia a Palermo. I personaggi si spostano quasi a caso da un punto all’altro dello spazio, con «i coglioni  gonfi di nullaggine» e passo da flâneur, si incontrano, si scontrano, si annoiano, fumano, bevono, telefonano, si annusano (anzi, si “annasano”), maneggiano oggetti, stanno comodamente seduti al balcone (“sognando”); pulsano insomma assecondando i ritmi del battito cardiaco e del paesaggio urbano. Alcuni sono riconoscibili:  ciccio (Francesco Gambaro), costantino (Costantino Chillura), guidoval (Guido Valdini). E quest’ultimo peraltro è l’interlocutore diretto del penultimo libro del nostro autore, “Dialoghi con guidoval” (Il Palindromo, 2017), ulteriore testimonianza di come la scrittura nelle pagine di Testa possa sdoppiarsi in forma dialogica, ma nello stesso tempo fondersi in una linea continua fatta di progressivi spiazzamenti che mandano in frantumi l’idea del dialogo di ascendenza filosofica e richiamano piuttosto un’altra forma di dialogo, quella che rinuncia alla costruttività ed è governata da un moto centrifugo, dalla libido del gironzolare intorno alle parole per il puro piacere di farlo, come Pollock gironzolava attorno alle sue tele godendosi il piacere di lasciare che il colore vi gocciolasse liberamente.
«”Dialoghi con guidoval” – diceva appunto Francesco Gambaro nel suo intervento alla presentazione del libro a Palermo – sembra muoversi nella logica binaria del dialogo, ma il binario è compulsivamente deviato, sembra una cartina geografica che traccia strade intrecciate a colori, le traccia e poi le straccia, con la sfacciataggine del bambino discolo,  impermeabile a ogni rimprovero».
Così come, del resto, compulsive deviazioni segnano anche “Dal balcone sognando” dove ritornano a spaglio spezzoni di dialogo con il detto guidoval ma qui mixate a un sistema ramificato di s/variazioni a girandola:

«non sono ancora riuscito a pensare più di quanto so­litamente mi pare di avere sempre pensato e ancora non so se penso molto o poco e se quello che certe volte individuo come pensiero sia pensiero o no»

«in conclusione so che è difficile individuare cos'è che scompare e cos'è che ri­mane anzi so che scomparire e rimanere sono soltanto il perché del sal­tare».

Alfonso Lentini
 

 

 
 
 
 
 


 
Gaetano Testa

“Al balcone sognando”
Perap, Palermo 2020
 
 
 

 

 

 


martedì 4 aprile 2017

LÀ COMINCIA IL MESSICO DI GUALBERTO ALVINO (di Fiorella Santoncini)



     I libri di Gualberto Alvino dicono molto più di quanto il numero delle loro pagine possa far credere: essi lasciano una scia nella mente e nell’anima, il germe del pensare che egli inietta senza parere nei suoi lettori facendone di fatto, suoi discepoli. In questo Là comincia il Messico tanti e tremendi sono i temi che discute con sé stesso in un lungo incalzante monologo diretto ad un interlocutore muto (e senza nome, un innominato), ricettore passivo dell’opera di plagio che compie subdolamente la voce protagonista insinuando nella mente della vittima il seme della paranoia, trasformandolo inesorabilmente in un mostro bestiale. Come in un percorso che partisse dal personaggio abulico e confuso dei quadri di Francis Bacon, preda indifesa e areattiva, che scivola nel fumo di un torpore in cui penetrano senza ostacoli e forse invocate, allucinazioni, mostri eroditori della coscienza, che si stringono a cerchio attorno alla vittima divorandola fino ad una finale mutazione genetica, creando un nuovo essere, automa amorale, come i mostri di Max Ernst. Ma durante questo percorso, molte sono le domande sui fondamenti dell’esistenza, domande terribili a cui l’autore stesso dà una definitiva risposta, essa sì terribile, più ancora degli incubi con i quali tortura il suo personaggio, più ancora delle terribili domande, perché ha il sapore di una sentenza inappellabile: «Ciascun quesito ha infinite risposte, dunque nessuna.» Eppure questo non ferma il protagonista nella sua vorace ansia di «capire» (il possesso del sapere: bulimica luciferina mania di grandezza o ansia di eternità?), perciò affida alla insinuante voce del tentatore il compito di portarci dentro ai quesiti con una straordinaria forma narrativa che illustra atti, azioni e vicende attraverso lo sciorinare dei sentimenti, delle sensazioni ed emozioni che quegli avvenimenti hanno prodotto nel personaggio senza nome, la vittima, tanto da poterne dedurre che quello che conta non è ciò che avviene, ma come lo si percepisce e come incide sull’essere. E allora emerge il filologo: «[…] la struttura del linguaggio riflette l’ordine della realtà, dimenticando che lo stato delle cose è inconoscibile, dunque immotivato, pertanto indicibile». E qui la filologia si gemella con la filosofia e con l’antropologia, per esempio nella straordinaria descrizione dell’uomo attraverso i motivi dell’odio, elencati in un ritmo incalzante che toglie il respiro. E sempre restando sul confine filosofico, vale la pena citare alcune definizioni. Sull’arte: 1) «In arte lo sguardo conta assai più del guardato» (dunque la percezione individuale?). 2) «L’arte scaturisce non dalla qualità dei dati contenutistici, ma dalla struttura formale, unica e sola depositaria del senso… In arte il diluvio universale non ha maggiori diritti del belato d’un capretto, o del flettersi d’un filo d’erba. L’errore è credere che lo stile stia da una parte e la materia dall’altra, quando si tratta di un binomio inestricabile. Di un’equazione. La sostanza dell’opera sta nella sua sagacia costruttiva». Sull’indipendenza della critica: «[…] contro quanti pretendono ridurla a scrittura di secondo grado, utilitaria, ancillare, perdutamente infeudata al genio altrui, argomentando che al presunto interprete-eunuco non è dato fecondare la lingua, che il cosiddetto brivido della creazione pertiene in fatto e in diritto a un ordine radicalmente superiore, che il critico è un cencioso scudiero dannato a splendere di luce riflessa perché chiamato a scrivere su qualcosa: qualcosa di preesistente alla sua venuta, in mancanza del quale la sua voce sarebbe fatalmente destinata a tacere… postulando l’assurdo di un’arte priva d’utenti, sganciata dagli ormeggi della fruizione e indifferente agli acidi dell’azione ermeneutica. Che al contrario ne rappresenta la necessaria catalisi, il vero atto di nascita, essendo non solo in grado di rivelarne intima struttura e segrete ragioni, inafferrabili ai più (non di rado allo stesso autore), ma di tramutarli in edificio di pensiero, stile: ossia in un’opera a sua volta autonoma e originale che, no, non sarebbe sorta senza il suo referente, ma nemmeno questo avrebbe potuto compiutamente costituirsi, posto che la realtà estetica si determina nel preciso istante in cui lo sguardo dell’osservatore si spiega sulla cosa osservata.… Uno scrittore è solo uno scrittore, ma un grande critico può far brillare l’universo nel palmo della mano.» A proposito di questa sua appassionata e incontestabile difesa della critica, vorrei citare come opera autonoma e originale (anzi, essa rimasta nella storia della letteratura mentre del suo oggetto si è persa memoria), il Trattato sulle donne di Denis Diderot, nato come critica ad un libro dello scrittore suo contemporaneo, Antoine-Léonard Thomas, e divenuto invece esso stesso un libro di sorprendente attualità nel nostro tempo. Mentre a dimostrazione di come un grande critico possa «far brillare l’universo nel palmo della mano», vorrei ricordare la mirabile opera di riscoperta di Piero della Francesca da parte di Roberto Longhi e il riscatto artistico-storico di Mario Sironi ad opera di Lionello Venturi. La tormentata serie di domande sulla crudeltà di Dio, che ho ritrovato anche in Pelle di tamburo, terzo romanzo di Alvino, è un’angoscia destinata a non vedere schiarite e, nonostante ci si soffermi su questo tema a lungo, in fondo Alvino sa che non otterrà risposta perché il cielo è muto. Motivo che va ad aggiungersi alle cause della follia. Che procede inesorabilmente verso l’ultimo capitolo… verso il sesso femminile! Non si salva, il povero protagonista silenzioso e senza nome, dall’ossessione del sesso femminile, da questa donna dalla quale proviene e nella quale vuole ritornare. È un vero amore-odio il rapporto con l’altro sesso per il personaggio, da quando sente la frustrazione del confronto con la prima donna, più intelligente, brillante e colta di lui, fino al duello sessuale con il quale egli vuole esorcizzare la tentazione di guardare all’amore come tenerezza, sentimento, salvezza. Amore e salvezza intuiti nell’amplesso con quel: «si fa me», bellissima piccola frase che contiene l’universo dell’amore. Ho trovato in un passo, una figura nella quale ho creduto di riconoscere il ritratto del critico (non oso pensare autoritratto): «l’impassibilità, il distacco, la calma del nibbio che abbranca la preda a cuore fermo e a cuore fermo macchinalmente la sbrana, con innocenza, tenerezza, ponendo fine al suo orgasmo inessenziale: mai premuto da collera, né sfiorato da odio, da rancore.» Su tutto, trionfa ammaliatrice la mirabile ricchezza nella forma linguistica, nuova, riconoscibile come sua, originale. E sono deliziose le lezioni di sintassi che con naturalezza inserisce qua e là nel testo. Pone questa domanda: quale sarebbe il contrario di mediocrità? E fra le parole che prende in esame per la risposta non ne ho vista una che mi permetto di proporti: eccellenza. E, chiedo, c’è forse una puntina, ma piccola piccola, di maschilismo nel suo definire il “dotto scindere” effeminato? Peccato, il libro è finito. Ma so che ne arriverà un prossimo laddove io sarò ad aspettarlo.

domenica 20 novembre 2016

Dino Villatico - La lingua degli esclusi. Un romanzo inedito di Gualberto Alvino



     Gualberto Alvino, Pelle di tamburo.
     Perché non parlare anche di un pdf? A volte, per aspettare un editore, si aspetta invano. E non è detto che ciò che si può vedere in una vetrina di libraio sia sempre migliore di ciò che aspetta di fare mostra di sé stesso là dentro. Vero, anche, che gli inediti, spesso, meritano di restare tali. Ma vero, d’altra parte, anche, che troppi editi non meritavano di diventarlo. E questo Pelle di tamburo di Gualberto Alvino?
     Mi chiedo quanti libri siano stati scritti sui diseredati della terra. Ma soprattutto: quanti scritti per raccontare la testa dei diseredati, la loro vita, diciamo così, interiore, ammesso che sia possibile distinguere un interno e un esterno della vita. Nella nostra letteratura spiccano due titoli: I Malavoglia e I promessi sposi. Qualcuno mi obietterà: e Ragazzi di vita? Una vita violenta? o La Storia? Forse, perché no? Il gioco delle inclusioni e delle esclusioni è un gioco perennemente giocato e rigiocato ma in fondo inutile. Perché non si tratta d’includere o di escludere, bensì di fornire esempi. Con la distanza della prospettiva di lettura, oggi, questi ultimi, Pasolini e Morante, appaiono più un esercizio da parte dello scrittore, che un tentativo di pensare con la testa del diseredato. Ci sarebbe Gadda: l’unico, dopo Verga, che abbia inventato una scrittura polifonica del racconto, quasi un madrigale drammatico senza musica che non sia quella delle parole. Ma all’obiezione a mia volta obietto che in ogni caso Gadda non entra nella testa del diseredato, o se di diseredato si tratta, è la borghesia, anzi la piccola borghesia, diseredata del suo ruolo di interprete della realtà sociale del proprio paese, anzi della realtà, e basta. In tal senso il capolavoro non è il Pasticciaccio, ma la Cognizione del Dolore. Preparata dal miracolo dell’Adalgisa.
     Gualberto Alvino si colloca su un’altra visuale. Nella confusione attuale dei ruoli sociali, sceglie un emarginato, anzi un’emarginata vera, totale. Una “malata di mente”, dopo la chiusura dei manicomi. Le toglie anche la specificazione di un nome, è una vocale, e minuscola: e. E decide di non scrivere la storia in una lingua impersonale, come Verga, o Pasolini, per quanto Pasolini possa rientrare in questo schema di racconto del diseredato. La mia idea, infatti, è che Pasolini non racconta il diseredato — nemmeno al cinema, nemmeno in Accattone, il suo primo film, e il più bello — ma racconta il proprio disagio di fronte all’esistenza dei diseredati, e la propria impotenza a raccontare non i diseredati, ma il proprio disagio nel raccontare i diseredati. Alvino compie, invece, il passo che Verga si rifiuta di compiere: facile raccontare la vita degli esclusi, dei vinti, con la lingua degl’inseriti, dei vincitori, ma con quale lingua ’Ntoni e gli altri avrebbero raccontato la propria vita, loro che una lingua non ce l’hanno? o piuttosto: ce l’hanno, ma la capiscono solo loro, è una lingua autoreferenziale, come tutte le lingue di tutti gli esclusi. Verga sperimenta di scandire la lingua degli italiani, dopo Manzoni, con la sintassi e la logica della lingua dei diseredati. Ma resta, comunque, la lingua dei vincitori, non dei vinti. Questa lingua dei vinti, ci prova a farla riemergere Luchino Visconti in La terra trema. Ma ha bisogno poi dei sottotitoli perché il pubblico, che parla la lingua dei vincitori, capisca. Resta comunque il film più bello di tutto il neorealismo italiano, il più veramente neorealista, più perfino di Ladri di biciclette, perché non prende alla lettera il racconto, ma adotta come proprio stile lo stile del racconto. Il neorealismo, insomma, nella macchina da presa di Visconti, non è uno strumento per raccontare la realtà, ma lo stile per conoscerla. Mi spiego. Con un esempio altissimo. Quando Dante incontra Francesca, non è la storia d’amore a commuoverlo (anche!), ma è la concezione ideologica di un amore che salva raccontata da una dannata a sconvolgerlo, a togliergli, alla lettera, la terra sotto i piedi. Francesca si rivolge a lui con il linguaggio del Dolce Stil Novo, «Amor che a cor gentil ratto s’apprende», ma non è la beatitudine salvifica di Beatrice, è la passione che sprofonda nella «bufera infernal che mai non resta». E Dante perde i sensi: già, i sensi, quelli che assecondano la passione. Il racconto di Francesca ha funzionato da catarsi. L’amore salva, ma un altro amore, non quello. Lo capirà alla fine del viaggio, quando incontrerà «l’amor che muove il sole e l’altre stelle». Questa digressione dantesca per capire una legge fondamentale di qualsiasi racconto: il racconto risulta efficace solo se trova lo stile giusto del raccontare, e raccontare quell’unico racconto, non qualsiasi racconto. Ovvio che lo scrittore debba già avere una storia da raccontare. Ma dal momento che ha trovato la storia, non conta più la storia, bensì il modo di raccontarla. Altrimenti la storia non troverà nessun racconto, resterà materia bruta, ancora da raccontare. Mi direte: ma allora, anche uno scrittore che non ha niente da dire può raccontare una storia, perché inventa un modo di raccontarla. Eh no! chi non ha niente da raccontare racconta il niente, quand’anche trovasse, ma ne dubito, uno stile. A meno che non racconti appunto questo suo niente: lo ha fatto, in maniera splendida, Pirandello, nei Sei personaggi in cerca d’autore. O Unamuno in Niebla, Nebbia.
     Ma torniamo al romanzo di Alvino. Le avventure picaresche della “malata di mente”, tra stupri, furti, furbate per beccarsi un tozzo di pane, o per sfuggire alla polizia, intrigano il lettore, che non sempre capisce i confini tra ciò che si racconta e la verità dei fatti. Ma che conta? È un mondo senza logica guardato con la logica di chi ha capito che è il mondo a non possedere una logica. Grammatica e sintassi inseguono così questa logica sotterranea che cerca di raccontare un mondo senza senso. E una volta dentro, ci si perde. L’unica a non perdersi è proprio la raccontatrice, che «mette in fila le cose». Ma quali file in un mondo senza file, senza un ordine, senza un senso, che non siano le file del raccontare? L’episodio nodale potrebbe essere quello dell’autobus (Ancora pietà), in cui un gruppo di bulletti prende in giro due «checchemerdose», e la raccontatrice li mette in riga, li fa scappare. Ma poi presenta «il dito medio a quell’achille dell’autista». «Sempre sulla pietà. / Per dire». Il gioco linguistico rivela alla fine ciò che rivela ogni gioco linguistico quando a giocare è uno scrittore vero: una visione disperata della vita, un’assoluta consapevolezza dell’inconoscibilità del reale, al di fuori del tentativo di raccontarlo. Il reale può allora anche apparire sfuggente. Ciò che non sfugge è questa inossidabile coscienza dello scrittore, che sa che l’unico modo che si abbia per non lasciarselo sfuggire è raccontarlo.