Non ricordo quanti
anni avessi, ero un bambino, e di fronte ai due binari della piccola stazione
ferroviaria domandai a mia madre dove si andava alla nostra destra. Ella mi
rispose che di là si andava ad Avellino. «E di qua?» — domandai curioso
indicando il lato da cui sarebbe partito il treno che avrebbe rapito mio padre.
«In Germania.» — mi rispose lei piena di sconforto. In realtà da quella parte
si andava a Rocchetta, Rocchetta S. Antonio, e di lì a Foggia. Ma per me da
allora in poi quel binario, che dopo il ponte si perdeva dietro una curva ombreggiata
da rubinie e da noccioli, continuò a portare nel posto dove aveva detto mia
madre; dopo quella curva, c’era la Germania.
Il primo libro che
lessi nella microscopica biblioteca di mio zio lo avevo letto in latino: «...omnis
a Gallis Raetisque et Pannoniis Rheno et Danuvio fluminibus», ero un po’ più
grande allora, e sul frontespizio spiccava in grassetto il titolo: “Germania”.
Era quello famoso di Tacito, ma tenere in mano quel libretto fu come andare oltre
quella curva, nella terra che spariva oltre le robinie e i noccioli.
Ora sono molto più
vecchio - beninteso, non vecchissimo - e per tutta la vita ho girato forse con
la segreta intenzione di andare dove andò mio padre. Mi sono avvicinato all’obiettivo
dall’Olanda, dal Belgio, dalla Francia, dalla Svizzera, restando a contemplare la
Mosa, la Mosella, il Reno, ma la Germania è restata sempre un posto oscuro
oltre una curva. Finalmente da un po’ di tempo ci sono arrivato, ho conosciuto una
ragazza, una bella ragazza con una giacca a vento di colore giallo, e sto
guardando il paesaggio da una delle finestre di casa sua. Sono in Germania,
quasi, manca solo una montagna; e guardare da qui l’angusto panorama che si
stringe dentro una gola è come ammirare un binario che gira nell’ombra. Ci sto
da molto tempo a questa finestra, ché andare dall’altra parte, oltre la montagna,
è impresa inutile. La mia Germania è questa: la ragazza con il piumino giallo è
certamente tedesca, almeno nella mia fantasia, nella fantasia dei racconti
ascoltati intorno al fuoco appena mia madre prendeva la via del letto. Sicché:
quandanche costei non si chiami Ursula Greta o Ingrid, pure se non ha un solo
ricciolo biondo né la pelle favolosamente lattea e gli occhi glauchi come le
cameriere dei Biergarten di
cui parlava mio padre, per me lei fa parte di quel mondo inesplorato che si
nascondeva alla vista dietro la svolta della strada ferrata.
«Giuseppe!»
Ecco, mi ha
chiamato. Io sto in una camera con il soffitto in legno: sei travi di pino
sorreggono uno scricchiolante tavolato, gli scuri lucidi sono spalancati sulla
via più trafficata del paese. Di fronte a me vedo un giardino, una cinquantina
di case, e altre lontane che si perdono in una gola.
«Giuseppe non fumare
in camera!»
Ha ragione, non
faccio altro che stare a questa finestra con la sigaretta tra le mani. Ma non
so che fare; non saprei dove andare in questo posto così piccolo, in special
modo quando vado fuori da solo: con venti passi sono nel centro della piazza, e
con altrettanti l’ho attraversata tutta. Se procedo ancora e mi distraggo, in
un baleno sono fuori del paese in mezzo alla campagna, una campagna avara dove
i pochi campi sono stati strappati alla roccia del declivio, castelli di roccia
che impediscono anche di guardare il cielo. Non sarei capace di fare alcunché senza
di lei. E’ meglio non fumare.
Su una delle tre
porte dell’angusto vestibolo ci sbatto contro, lo faccio con regolarità, e sono
in cucina. Le mani! La prima cosa che attira la mia attenzione sono le mani in
perenne movimento, ma lente, docili, così torte nelle articolazioni delle
nocche che mi commuovono ogni volte che le guardo. Quando sarà più vecchia avrà
l’artrosi, ne sono certo, e deformerà ancora di più quelle mani oneste che
continueranno a lavorare. Lei ama quando lavora, quando prepara la colazione
per il figlio, quando mette a posto la mia roba, quando mi accarezza per procurami
piacere. Ma perché ho dovuto trovare un amore proprio in queste gole? Proprio
qui dove un toponimo su due porta il nome della pietra, «pria» nel duro
dialetto di questa gente, una lingua tanto povera che per aumentarne l’eloquenza
è stata arricchita di monosillabi e grugniti solo un po’ cantilenati? Non lo so...
Ho l’impressione d’essere stato spinto da qualcosa d’inevitabile che chilometro
dopo l’altro mi ha schiacciato ai piedi di questo monte.
Le tendine alle
finestre sono d’un bianco abbagliante, tutto l’ambiente è chiaro: d’un lucore
persistente come se fuori fosse bianco di neve e i riflessi dì bambagia
attraversassero per intera la cucina. Non ha nevicato, ma il silenzio che c’è
in questa casa e nei vicoli attorno è pari a quello delle giornate in cui le
auto sono ferme sotto un palmo di fiocchi e gli unici rumori sono quelli degli
scarponi sbattuti sull’impiantito dell’ingresso. Lei ha fatto sfuggire dai suoi
grandi occhi da capriolo uno sguardo morbido e fugace e ha continuato a lavorare
trattenendo su una guancia un sorriso amorevole e discreto. Ha la mascella robusta,
lei, una più dell’altra, forse - mi sono divertito a misurarle durante le mie interminabili
carezze; ma la leggera asimmetria non le viene dall’abitudine a masticare i
crauti da un solo lato, no, le viene da un incidente: questo me l’ha spiegato. Tutto
il suo corpo reca il segno di un coraggio quotidiano passato attraverso la
fragilità di membra tenere e nivee. E quelle membra, quando è la buona stagione,
si caricano di uno zaino appesantito da tutto ciò che serve in alta quota, anche
dalle cose che sarebbe compito mio portare, e passo dopo l’altro ascendono i
pendii di queste montagne fin dove non cresce più nemmeno il pino mugo. E non si
parla quando si sale. Si parla poco anche quando si sta su, al centro di avari
pianori, distesi a guardare il cielo sopra le guglie di fango cristallìno. «Giuseppe
vuoi ancora un panino?» — «...vuoi dell’acqua?» — «…vuoi...». Anch’io ho preso
l’abitudine a non parlare. Guardo, ci guardiamo, e anche con una certa
parsimonia. Il più delle volte ci si muove, si bada alle cose da fare. Ma se io
non le discuto, le cose, mi pare di non averle fatte! Sono sicuro di essere un
tipo strano per loro. E’ inutile pensare. Ero già sicuro di dovermi trovare un
giorno in un posto così, un posto silenzioso dove la gente parla poco, e sempre
sottovoce: il posto di cui mi raccontava mio padre: favoloso, luminoso e pieno
di silenzi lunghi quanto le pause dei suoi racconti interrotte solo dal crepitio
del fuoco.
Ma guardatela,
come è svelta a rigare e ad attorcigliare i pezzetti di farina e di patata su
una tavoletta di legno scanalata. Mi preparerà l’arrosto questa sera, e
polenta, e radicchio grigliato. Io l’ammiro quasi divertito, lei non si
scompone: si fermerà e mi guarderà fisso negli occhi solo quando tutto sarà
pronto. Pare ieri, il giorno in cui ho preparato il primo pranzo per tutta la
sua famiglia: cose di mare, quasi a voler mostrare la mia provenienza da un
mondo diverso, un mondo litoraneo d’acqua salmastra, invece che da altre
montagne tanto somiglianti a queste anche nella vegetazione. E cosi alla fine
mi hanno accettato. Fanno quasi finta di non sapere che io sono uno di fuori,
che io non sono per niente quella specie di miracolo che pareva piombato in
mezzo a loro, che non ho mai rubato questa ragazza a suo marito. Mi sento una
specie di Barry lindon, mi sono sempre sentito così - uno che gira per trovare
un posto dove stare inevitabilmente si appropria della roba altrui. Ma non ho
guadagnato alcuna eredità, e poi - certo non per il fatto che questa sia povera
gente - io non lotto per restare; al contrario! Suo figlio è enorme, e mi
guarda sospettoso.
L’altro giorno la
mia passeggiata l’ho protratta fino all’ingresso della gola; sono settimane che
passo dopo passo mi allontano sempre più dal paese. L’ultima volta lei, la
ragazza, mi aspettava in macchina nello spiazzo della pompa di benzina appena fuori
dal centro abitato. «Ho avuto paura che ti fossi perso.» — ecco cosa mi ha
detto. Io ho disegnato col dito il cerchio alto dello steccato di rocce che ci
stava intorno e le ho mimato con afflizione qualcosa che assomigliava a: «Dove
vuoi che mi perda». Ho l’impressione a volte che mi tenga d’occhio. Una cattiva
impressione, ingiustificata: non mi allontanerei mai dal suo letto, dalle sue
mani, dalla sua bocca, dalle sue gambe che mi attorciglia dietro la schiena,
dal suo petto... «Le tedesche sono belle ma sono fredde.» — diceva mio padre.
Niente di più sbagliato! Non mi allontanerei mai dal suo piumone caldo con cui
qui ci si copre quasi fin dentro la buona stagione. Stasera dopo cena, però,
andrò a digerire l’arrosto su per la strada a nord: potrò fumare indisturbato una
sigaretta, lei non mi seguirà - se non mette sulle spalle uno zaino ella non s’allontana.
Una bella cena.
Siamo restati spesso con le posate inattive o con i bicchieri levati a
guardarci fisso negli occhi: suo figlio era al piano di sopra davanti alla tv,
non ci ha importunato. Alla fine sono uscito. Ma quando mi sono trovato in
strada invece che continuare a piedi ho preso l’auto quasi di soppiatto e ho
puntato verso l’imbocco della gola. Li ho fatti quasi tutti i tornanti che portano
alla sommità, sulla forca del passo. Purtroppo a questa quota e in questa
stagione c’è ancora ghiaccio e le ruote hanno cominciato a slittare
trascinandomi più volte sul ciglio del dirupo. Allora ho continuato a piedi.
Sto salendo,
cercando di poggiare i piedi sul fermo del ghiaino. Se scivolo e sbatto col
muso a terra, se mi sbuccio un ginocchio, che cosa racconterò quando sarò
tornato in paese? Devo stare attento, non mancherà molto. Per fortuna è una
sera di luna piena. Me ne ricorda un’altra... Mio padre non c’era, e io insieme
ad un mio coetaneo ero andato ad acquistare pastori di terracotta per il
presepe proprio la notte di Natale. Che matti! E poveracce, mia madre e la sua
- un’altra che aveva il marito costretto ad emigrare - ci avevano cercato per
tutti i pozzi e i boschetti di quercia che fiancheggiavano un sentiero di
campagna lungo il quale presumibilmente avremmo tentato l’impresa. La luna era bella
tonda quella sera, e si vedevano nitidi tutti i paesi della valle. Anche
stasera è così, ma qui c’è poco da vedere: alberi senza foglie, questa strada
così stretta e ghiacciata su cui riverbera il chiarore della luna, nient’altro.
Dall’altra parte, invece... Cosa ci potrà stare dall’altra parte se non le
stesse cose che ci sono qui? E la luna, cambierà forse la luna? Io mi domando
chi me lo fa fare ad andare avanti come uno scemo per una strada ripida ed
infida a quest’ora di notte: se cado e mi rompo una gamba come farò a tornare
indietro? Era meglio restare al caldo, in cucina, con lei seduta a cavalcioni
sulle mie ginocchia: mi avrebbe riempito di baci appena avesse messo a posto i
piatti, la colazione per il figlio; finché non avesse fatto la sua doccia nella
piccola cabina fumante e, slacciata la cinta dell’accappatoio, nuda e morbida,
avrebbe incollato il suo corpo affettuoso contro il mio.
Qui fa freddo,
invece. Se non fosse per lo sforzo esagerato che impiego per ascendere, la
mancanza di fiato che mi viene da queste maledette sigarette, invece che sudare
per la fronte e per la schiena, potrei morire assiderato e nessuno sarebbe qui
ad aiutarmi. Ma non dovrebbe mancare molto: la strada mi pare si sia
leggermente addolcita, anche se continuo a vedere il costo ancora alto sotto il
cielo pieno di stelle. Ecco, lo temevo: puntualmente è successo... Per Dio, com’è
duro il ghiaccio! Speriamo che non mi sia fatto niente. Si è asciugato il
sudore e dentro di me sono secco e disperato. Mi sento abbandonato... Quella
volta alla stazione mio padre aveva baciato tutti i parenti, aveva baciato mia
madre e mi aveva sollevato tra le braccia. «Tornerò presto.» — aveva detto. Io
lo pregavo di non andare via, di non lasciarmi. Ma quando il treno sparì e
sparirono le mani che si sporgevano dai finestrini per salutare, io non ebbi
dubbi: lo stavo odiando, e non piangevo. Lo odiai ancora di più perché nei mesi
che seguirono fui preda delle grida isteriche di mia madre, intervallate da
peggiori e più paurose ore di carezze e pianti schiacciato sul suo seno. Ore
asfittiche, ore con le gote rosse di vergogna.
Devo andare avanti.
E devo stare attento. Questa volta non è successo niente ma il pericolo non è
passato: sono uno che cade facilmente sul ghiaccio, e anche sulla ghiaia. Beh!
scivolo bene anche sul fango e sono capace di storcermi le caviglie su una strada
piana e asciutta. Non sono saldo, ho una salute cagionevole. Mi vanto d’essere
una creatura dei boschi, ma starei a mio agio solo sul lattice di un morbido
divano. Ho passato l’infanzia a fare il giro dei medici: con me c’era mia madre
con gli occhi pieni di lacrime, e mio padre, lui, non c’era mai.
Sono sicuro di
andare verso nord? Ma certo, questa è l’unica strada. E poi in una notte come
questa trovare l’orsa maggiore è uno scherzo: prendo le ultime due stelle del
carro, traccio una linea immaginaria, e la prima stella che incontro alla
destra è la stella polare. Ho letto un libro da ragazzo su un contrabbandiere la
cui salvezza nella notte era il grande carro dell’orsa. Stanotte il cielo è
straordinariamente limpido. Chissà che ora sarà! Ormai quella in paese sarà
preoccupata, allarmata, potrebbe anche avere avvisato i parenti. E va bene,
aspetteranno... Quando mio padre tornò dalla Germania, noi stavamo sulla
banchina della stazione a battere i piedi dal freddo. C’era molta gente. C’erano
donne con lunghi vestiti e larghi scialli che mi chiedevano se fossi contento
di rivedere ‘papà’: io rispondevo di sì, ma non avevo nella testa alcuna
immagine, nel petto alcuna emozione. Poi arrivò. Mi risollevò tra le braccia,
mi baciò, e mi regalò un Santa Klaus di cioccolato completo di barba e vestito
rosso alto quanto me. Lo tenni per giorni nel cellofan, e mi dispiacque infine di
doverlo mangiare. Sarà stato tre chili! E pensai che il posto da cui era
arrivato mio padre fosse interamente fatto di cioccolato.
Ormai lo vedo il
valico. La luna l’illumina tutto. Vedere quello che sta dall’altra parte sarà
anche più facile. Potrebbero esserci dei centri abitati e... che idiozia! Mi è
sorta l’idea che i tetti delle case potessero essere di cioccolato. In fin dei
conti sto sognando, i miei pensieri non hanno niente di logico: sarà per la
stanchezza, per il freddo - è forse logico stare qui, a questa altezza, di
notte, sul ghiaccio, col rischio di rompermi una gamba? No, non c’è niente di
logico, se non la determinazione a forzare la mia natura casalinga e
intraprendere una specie d’avventura, l’unica che mi è possibile da queste parti.
Ci sono quasi.
Alle mie spalle c’è sicuramente un fosso, una buca orlata da tre montagne che
chiudono la valle, non ho bisogno di guardare. Non ne ho voglia. Sono
inebriato, conquistato dalla trepidazione per ciò che vedrò da un momento all’altro.
Ma, per la miseria! Lo so bene che cosa c’è dall’altra parte... C’è il Trentino,
ecco cosa c’è. Come è potuta venirmi in mente questa storia della Germania… Tra
qualche centinaio di metri passerò la linea dello spartiacque che ha fatto sì
da frontiera, ma quasi cent’anni fa, e semmai con l’Austria! Fa troppo freddo,
e il cappotto il maglione i guanti cominciano a non bastare; quel poco di saggezza
che dovrebbe gridarmi: «Che diavolo fai qui?» — s’è completamente ghiacciata.
Continuo a
camminare. Il cielo davanti a me s’è aperto, e tira un po’ di vento. Nel fondo
di un’amplissima valle mi è parso di vedere delle luci. Lontano, le vette di
alcune montagne si tingono di rosa, un quarto di cielo ha perso le sue stelle:
tra poco sparirà anche l’orsa maggiore. Pure le luci al fondo della valle
cominciano a sfocare. Ormai l’intero paesaggio è di turchino chiaro, e le
piramidi alpine illuminate dal primo chiarore si perdono in ogni direzione. Mi
fermo. Il freddo è lancinante, ma non m’importa. E’ bello qui, mi sento addosso
un moto crescente di libertà che pare addirittura riscaldarmi. Faccio ancora
alcuni passi. La valle è limpidissima, la luce si confonde con la luce: in alto
il blu pulito, in basso i verdi tenui di una primavera gentile, tra i due la maestà
di una terra irta e scintillante sotto i primi bagliori del sole.
Giro lo sguardo in
ogni direzione, il petto mi prude di felicità. Mi sento leggero. Respiro: l’aria
mi riempie tutto fin dentro la testa. Si vede ogni cosa da qui: i boschi d’abete
e di faggio, gli estesi riquadri di meleti e vigneti, due specchi d’acqua lontani,
le rocce che brillano alte di svariati colori. Ce l’ho fatta! I pensieri
torbidi della notte sembrano svaniti. Ho la chiara sensazione di sapere perché
sono giunto fin quassù, anche se forse non saprei proprio spiegarla. Sono troppo
occupato a sentirmi felice.
E’ da un bel po’
che sto fermo e i piedi si sono infreddoliti. Li batto sull’asfalto ghiacciato
e mi accorgo che le scarpe sono rovinate dal fango; anche il lungo capotto
beige è lacerato su un lembo. Forse dovrei ritornare: quella mi aspetta, i suoi
parenti potrebbero anche essere partiti a cercarmi. Sono sporco: di certo non
avrò un bell’aspetto. Mi giro e vedo la strada da cui sono venuto: è bianca di
gelo e stretta da due sponde di roccia scavate. E’ sopraggiunta una leggera
inquietudine. Non avrei voglia di muovermi. Ancora uno sguardo dall’altra
parte: sorrido. Il ghigno di soddisfazione mi resta incollato sulla faccia
anche quando con smisurata lentezza ho intrapreso la via del ritorno.
Il paesaggio ora
si restringe e i boschi fitti incupiscono nuovamente il cammino. Cerco di
tenere a mente la visione dell’alba sull’altro versante: non è stato un sogno.
Come non era un sogno la scalata di una collina assieme a mio padre in un
mattino pieno di luce. Già, solo ora me ne sono ricordato!
Appena arriverò a
casa farò un bagno, mangerò, e mi metterò a dormire sotto il morbido piumone. E
quando mi sveglierò lei mi colmerà di carezze, e baci per tutto il corpo al
caldo del letto. E’così comprensiva lei, mi farà poche domande, mi proteggerà
anche da quelle dei suoi parenti, così come ha fatto quando mi ha portato in
mezzo a loro - i suoi hanno dovuto soffocare la rustica schiettezza e accettare
questa unione inconsueta.
Comincio ad essere
stanco. Una nuvola densa di nebbia è attaccata ad un fianco del monte un
centinaio di metri più in basso - quando il sole spunterà da una delle creste
di roccia che stringono questa valle in una morsa anche la nebbia sparirà: con
il sole ormai alto io avrò raggiunto la macchina e infine... a casa! Mi sembra
quasi di udire delle voci. Sarà solo un’impressione: chi vuoi che stia di primo
mattino quassù? Ebbene no! Ci potrebbero essere dei boscaioli, lo sono un po’
tutti da queste parti, ed è ancora il periodo buono per far legna da ardere. Mi
fermo un istante per non coprire col mio calpestìo un eventuale rumore; trattengo
il respiro e apro bene le orecchie... Niente! Ora proseguo spedito e m’infilo
nel chiarore soffuso della nebbia. Gli alberi spogli mi sfilano di fianco come
due ali di un corteo che procedono verso l’alto, verso la forca del passo.
«Oooh, oh!». Mi
pare di aver sentito un richiamo che sale dal fondo. Anzi non… mi pare, ho
sentito davvero: saranno proprio boscaioli. Non ci mancherà molto e giungerò a
destinazione. «Eeeeh, eh!» Un richiamo più acuto rintrona nella nebbia dei tornanti
più in basso. Sembra una voce di donna, una voce stridula - niente a che vedere
con la melodia sussurrata della mia: nei toni più alti ha un timbro semmai
argentino, lei. E come la sua voce canora, morbide sono le sue carezze. Tutto
il suo corpo è un abbraccio, caldo, rovente, le braccia sono incredibilmente forti,
tanto forti che se volesse potrebbero strozzarmi. Scendo veloce giù per la
strada ghiacciata cercando di poggiare i piedi sulle foglie marcite: sono
sicuro che da un momento all’altro in uno dei tornanti comparirà la mia
macchina. «Oooh, oh!» — «Eeeh, ehi». Voci roche, voci fonde s’inseguono. Voci
terribili e acute.
Sono
incredibilmente stanco. Chissà se avrò ancora la forza di essere stretto tra le
braccia della mia ragazza, che si spoglia ogni volta che può, che mi spinge sul
suo petto con la perentorietà del suo impeto giovanile, che contorce nel letto
le sue membra chiare, che apre le gambe come una delle evanescenti figure di
Bosch dei vizi capitali: la lussuria, di certo! E poi il caldo, il sudore, il
dolore d’essere compresso dal suo amore selvaggio. «Eeeeh, eh! Giu-se-ppeee!»
Mi fermo di scatto. Ho visto qualcosa muoversi sul costone di fronte: appena
dopo la svolta c’è uno con un bastone tra le mani, zaino e scarponi. Dal numero
dei richiami altri ancora ci saranno. Resto immobile finché non vedo
chiaramente salire su per la strada un manipolo di persone. Qualcuno a volte si
stacca dal gruppo per guardare giù dal dirupo.
Che sia stato una
specie dì scherzo? Un assurdo timore? O chissacché: mi dileguo veloce
scivolando giù dal pendio. Resto nascosto tra i fusti di faggio. Sopra di me si
ripetono le voci gridate: i richiami di tre parenti seguiti da quelli della mia
ragazza. E infine passano. Li vedo distintamente: lei ha un cipiglio feroce; i suoi,
gente silenziosa. Tutto questo un po’ mi diverte: sto già pensando che da un
momento all’altro spunterò dal mio nascondiglio di foglie e di nebbia e li
chiamerò. Ma il tempo passa e quelli arrancano su per gli altri tornanti che io
ho scalato durante la notte.
Ormai sono
lontani. Mi inerpico fino alla strada e continuo spedito il cammino verso il
basso. Non c’è un vero pensiero nella mia testa, ma solo la volontà di fare
quello che faccio. La macchina! adesso la vedo. Ce ne sono di fianco altre due.
Chissà quante ricerche e supposizioni, certamente litigi, prima di riuscire a
trovarla. Mi metto prontamente alla guida, inverto il muso e corro per la
strada in discesa fino al fondo della valle, sulla strada veloce che la
fiancheggia, fino a che il paesaggio perde le sue mura di roccia e s’appiana.
Sono fuori. Libero! La pianura è davanti a me sfolgorante, verde del primo
tepore e frenetica del lavoro degli uomini. Mi ritorna la leggerezza piacevole
che ho provato di primo mattino alla forca del passo, e di nuovo sorrido. Se mi
domando perché, non so darmi una vera risposta. Ma in fin dei conti anche mio
padre, dopo qualche anno passato assieme a me e mia madre, ripartì per la sua
Germania e non è ritornato mai più.