Oltre al sonno e alla concentrazione ci sono anche altre cose che non sono state dette a nessuno.
Giornate intere che scompaiono, e brevi attimi che diventano un’eternità.

(Peter Høeg)

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venerdì 6 novembre 2020


 

Sergio Sozi

Giovedì. Romanzo tra cielo e terra

Edizioni Ensemble

(Collana Officina)

Roma 2020

di Alfonso Lentini


Sagrestano e sacerdote: due ruoli ben distinti nelle strutture ecclesiali. Ma il protagonista di questo bizzarro romanzo di Sergio Sozi li svolge entrambi e, come se non bastasse, li svolge in periodi storici diversi, con uno scarto temporale di molti secoli: sacerdote pagano nella Hispellum dell’antichità e stralunato sagrestano nella Spello contemporanea. Come è possibile? Si sa che niente è impossibile all’invenzione narrativa. Zhuangzi sognò di essere una farfalla – insegna il Taoismo – ma al suo risveglio pensò che forse era la farfalla ad aver sognato di essere Zhuangzi. E molti altri potrebbero essere gli esempi di opere in cui un personaggio si fa interfaccia e vive vite parallele o piomba in un universo a lui sconosciuto. Ad esempio, ne “I fiori blu" di Queneau si parla di un tale che vive contemporaneamente in due periodi storici diversi. E tanti sono i viaggi nel tempo che sono stati immaginati e raccontati.

Nella storia inventata da Sergio Sozi, però, il sacerdote pagano Aulo, non si sposta spazialmente, rimane nel territorio in cui ha sempre vissuto, quello dove sorgeva la sua antica Hispellum, ma viene scaraventato all’improvviso nel mondo contemporaneo e compare davanti a una chiesa cattolica moderna nulla sapendo di quello che è accaduto nel frattempo. Scopre con stupore che una setta ai suoi tempi considerata marginale ha dato vita a una religione così importante al punto che gli anni vengono ormai contati a partire dalla nascita del suo fondatore. Giunto a destinazione, perciò, si guarda intorno con occhi straniati e del tutto vergini. E inevitabilmente, dovendo confrontarsi e adattarsi al nuovo mondo, in lui avviene una sorta di graduale metamorfosi.

Questa idea di fondo funziona egregiamente per arpionare il lettore coinvolgendolo subito. Ma andando avanti nella lettura assistiamo a un vero e proprio fuoco d'artificio di colpi di scena e spiazzamenti. La metamorfosi non è solo quella del personaggio che via via diventa "altro", ma anche dei generi narrativi: si va dal romanzo fantastico a quello d'azione (se non addirittura picaresco), dal dialogo filosofico al racconto fantascientifico, sino a pagine scompigliate e scompiglianti che richiamano l'idea di meta-romanzo. Anche i contenuti scorrono liquidi, in un flusso cangiante; per cui il lettore (anche se sapientemente guidato da una voce narrante chiarissima, perentoria, quasi "geometrica") è portato a intendere la verità come un gioco di slittamenti progressivi.

È dunque la metamorfosi la vera protagonista di questo libro, il desiderio di sperimentare l'alterità e di interrogarsi su di essa. Nella lunga matassa concettuale che scorre via via, appare centrale la riflessione sul "doppio" di cui sono intessute non solo le personalità umane, ma anche le civiltà. Molto interessante è ad esempio la parte in cui la modernità, attraverso le parole di Aulo, si scopre essere problematicamente figlia di due fondamentali componenti storiche (e culturali): quella pagana e quella cristiana.

Da questa situazione scaturisce non solo un confronto (dai tratti amarognoli) sui due mondi (o piani culturali) del presente e del passato, ma anche una riflessione sulle immense e diversificate stratificazioni di cui ogni essere vivente è figlio.

Ma il gioco degli spiazzamenti e delle continue digressioni, andando avanti nella lettura, conduce a eventi e pensieri sempre più labirintici dove il lettore potrà perdersi piacevolmente (o forse, ancor più piacevolmente, ritrovarsi). Anche se, come sostiene lo stesso Sozi in una recente intervista, Il sovrannaturale è il basso continuo, assieme alla poesia e all’amore, di quest’opera”.

Benvenuti nella girandola, dunque!

 

 

Sergio Sozi (1965) è nato a Roma e vive e in Slovenia, dove lavora come critico letterario e traduttore. Ha pubblicato le raccolte di racconti Il maniaco e altri racconti (2006) e Diorama (2015), i romanzi Il menù (2009) e Adesso a Roma piove (2019), e i saggi Ginnastica d’epoca fredda (2010), Intervista a Claudio Magris (2011) e Il filosofo e il giullare. Intervista a Umberto Galimberti (2012).

https://www.ibs.it/giovedi-romanzo-tra-cielo-terra-libro-sergio-sozi/e/97888688169

 

 


 

domenica 9 agosto 2020

Bruno Pompili, Il fratello lontano

 

Bruno Pompili

Il fratello lontano

Manni, Lecce, 2020

di Alfonso Lentini 

 

Sovrapponendo a una scrittura fortemente contemporanea le atmosfere fiabesche e misteriose dei Vangeli (apocrifi o canonici che siano), Bruno Pompili mette in scena una sincopata e sbilenca “vita di Gesù” e ce la racconta laicamente (o, se si vuole, “infantilmente”), attraverso il punto di vista di uno dei fratelli del Cristo, un sosia inconsapevole, che guarda gli eventi da lontano, sbirciando quasi a caso fra i vari episodi che l’iconografia e la fantasia popolare ci hanno tramandato, mostrando di averne vaga o nulla comprensione (o forse, al contrario, segreta consapevolezza):

«Sì, ora sono proprio insicuro quasi su tutto. Vedo figure e temo che si dissolvano; osservo tracce esigue e invece sono corpi».

Fedele e infedele alle narrazioni evangeliche tradizionali, il libro è disseminato di contrasti irrisolti. Gli episodi, a volte semplici accenni, non giungono quasi mai a compimento e si perdono in un viluppo di enigmi mai del tutto chiariti.

«Mi guardò molto, senza parlare, un poco scuotendo il capo. E poi mi disse di non restare a lungo, e poi mi disse di restare fino all’indomani, di incontrare mio fratello, e poi mi disse di andarmene al più presto.

Non avevo nulla da proporre, e obbedii. Non so a quale suo desiderio, poiché mi chiedeva cose in contrasto».

Tuttavia il punto di forza del libro è proprio in questo narrare nebuloso: lucido e onirico, compatto e sfilacciato, realistico e surreale, ha la capacità di inchiodare alla pagina meglio di un semplice thriller. Persino il finale, al quale si giunge col fiato sospeso, non sembra chiarire i fatti, anzi aggiunge mistero al mistero. Questo non-epilogo potrebbe sembrare deludente al lettore avvezzo alle semplificazioni della letteratura di consumo; ma a chi ama la scrittura irrisolta, complessa, interrogativa, non potrà che apparire come un arricchimento. Perché quello che importa non è dipanare la matassa, ma rendere conto di come la matassa si intrica.

Tanto più che il libro, al di là dell’argomento delicato e “difficile” che affronta (e pur rimanendo dentro a un racconto lineare), deraglia dalla tematica principale in cui può sembrare compresso e si apre a ventaglio verso le più diverse diramazioni di contenuto; così, ad esempio, può essere letto come una modernissima scorribanda sul tema del doppio, in quanto i due protagonisti, Gesù (Joshua) e il suo “lontano” fratello, non sono che un’interfaccia, diversi eppure talmente simili da diventare quasi intercambiabili proprio quando il racconto si muove nelle vicinanze dalla croce alla quale uno dei due dovrà essere appeso.

Attraverso questo gioco di specchi fra i due personaggi (a cui si aggiunge, in coda, la figura di un terzo fratello, Belshatzzar, il più enigmatico e inquietante di tutti) si mette in scena una forma di inchiesta, dai risvolti forse più psicanalitici che teologici, su cosa sia l’identità o la non-identità, e di conseguenza sulle costellazioni che tengono insieme le realtà interiori di ciascuno e le rapportano al mondo esterno.

«Potevo essere preso per il gemello opaco di Joshua, ero l’invisibile. Mi é sembrato in alcune circostanze di essere stato l’inesistente: senza dar peso negativo, tanto mi sentivo egualmente me stesso, e mi bastava».

Importa raccontare la matassa percorrendone gli intrichi, dicevamo: ma ancora di più importa la materia di cui è composta la matassa stessa, che in una narrazione non può essere altro se non la lingua: che qui germoglia tagliente, aforistica, esatta al punto che le parole sembrano colare sulla pagina rotonde e calde come gocce di piombo fuso.

«Non sappiamo quando arriveremo a Yerushalayim, che teniamo sempre lontana con diversioni di sentieri e sempre la pensiamo senza sapere il futuro e col peso di una previsione di dolore, che non ha solo l’immagine di mio fratello sofferente ma quella di nostra madre e la sorpresa di molti sulla perversa logica dei poteri umani. Io penso anche al silenzio divino.

Xantra dice che nessuno può essere nelle intenzioni del padre, poiché non a tutti i figli viene rivelata la stessa cosa.

E anche a noi è lasciato il compito di dover cercare per conto nostro, con errori ed egoismi, con una stanchezza vaneggiante che spesso decide per tutto il resto». 

 

 

Bruno Pompili - Nato nel 1938 in Romagna, vive a Bari. Ha insegnato Letteratura Francese all'Università di Bari dedicandosi alla ricerca soprattutto nell'ambito delle Avanguardie e della letteratura del Novecento.

Ha pubblicato libri di saggistica, e a partire dagli anni Novanta alcuni volumi di narrativa e teatro.

 


 

domenica 28 giugno 2020

Gaetano Testa, "Al balcone sognando"

 
 

«L’atto di scrivere esige una perfetta innocenza», dice Vladimir Jankélévic. Poi, forse per sottolineare la debolezza della parola di fronte all’imprendibilità del reale, aggiunge: «Non bisognerebbe che le parole stesse si trasformassero in stelle cadenti?» Non so se la scrittura di Gaetano Testa sia composta di stelle cadenti, ma è sicuramente innocente. Lo è perché ignora il principio di non contraddizione o qualsivoglia principio di sistematicità. Lo è perché innocentemente si contraddice, si mostra fedifraga e nel contempo sincera, scivola dalla descrizione ad altissima definizione a improvvisi sussulti in cui senso e non senso si interfacciano con sorprendente naturalezza.  Lo è perché risulta del tutto inaddomesticabile e indefinibile: «do col naso gli occhi i polpacci un nome panciuto alle cose».
Gaetano Testa (Mistretta 1935), protagonista negli anni Sessanta dell’ala palermitana del Gruppo 63, radicalmente anarchico al punto da rinunciare per scelta di vita a ogni mira carrieristica, si è da molti anni auto-confinato in un suo privatissimo spazio di “resistenza esistenziale” dal quale però continua a mostrare i denti e a rappresentare un’importante presenza-assenza nella scena culturale non solo palermitana. Insieme ad un gruppo di autori che lo riconoscono come essenziale punto di riferimento, negli anni ha dato vita a un vivacissimo laboratorio di sperimentazioni aperte, ha creato due riviste (“Fasis”, “Per Approssimazione”) e una casa editrice (“Perap”), ha prodotto opere di arte visiva ed ha pubblicato diversi volumi: da un romanzo che curiosamente ha un titolo non alfabetico ma numerico, “5” (Feltrinelli, 1968), sino a quest’ultimo, “Al balcone sognando” (Perap, 2020). Ed è talmente anarchica e aperta la sua scrittura, che talvolta confluisce nella scrittura di un altro, in particolare in quella di Francesco Gambaro, insieme al quale Testa ha pubblicato diversi libri (“Borno”, “Jallo”, “Quartini”…). Fra Testa e Gambaro (che purtroppo è deceduto nel 2019) vi è stata infatti una intensa frequentazione, e questi libri “a quattro mani” dove la scrittura dell’uno non è distinguibile da quella dell’altro, ne sono un esito quasi naturale; ma fra i due si era creata una sintonia ancora più forte, tanto che solo grazie ad essa e all’azione “aggregante” di Gambaro, è stato possibile dar vita a una straordinaria esperienza di creatività collettiva che ha coinvolto negli anni non solo personaggi come Edoardo Sanguineti, Paolo Volponi, Mario Lunetta, Fulvio Abbate, ma soprattutto autori in gran parte estranei alla letteratura ufficiale, personalità diverse, ma accomunate dall’interesse verso la pratica dell’avanguardia intesa come libera e radicale sperimentazione espressiva. Fra questi, citando alla rinfusa: Giuseppe Zimmardi, Nino Vetri, Carola Susani, Pippo Rizzo, Costantino Chillura, Gaetano Altopiano, Antonio Patti, Mimmo Gerratana, Antonio Pane, Nicola Di Maio, Sergio Toscano, Giancarlo Mirone, Giuseppe Tutone (e fra gli altri – inutile negarlo – anche il sottoscritto). Per non parlare di artisti come Toti Garraffa, fotografi come Letizia Battaglia, uomini di teatro come Nino Gennaro, giornalisti come Guido Valdini, musicisti come Salvatore Sciarrino, musicologi come Aurelio Pes...
Testa non si è posto però come capo carismatico, tanto meno come ideologo, si è limitato a rappresentare niente più che se stesso innescando negli altri un istintivo meccanismo di mimesi. Questo nuovo libro, insieme al corpus delle altre pubblicazioni edite, non è che una minima parte dell’immensa matassa di scrittura che Testa produce quotidianamente quasi in sintonia con la sua respirazione polmonare; un’unica spiazzante matassa di dimensioni “atlantiche”, come ebbe a definirla Francesco Gambaro , aggiungendo che in Testa «l’inconclusione è cercata come bisogno primario, non tanto di spiazzare il lettore ma di spiazzarsi».
L’ ”inconclusione”, appunto:

«ma lei non ha ancora finito (pausa) mi sba­glio?"
"non si sbaglia però (pausa) forse lei non dovrà di­menticare che è molto proba­bile che io non sappia mai quando ho finito (pausa) anche nel senso che posso avere già finito"
"spero che esista un momento in cui le è chiaro se ha finito o no"
"non sempre (pausa) ma questo non è un vero pro­blema"».

Testa è insomma un sismografo che registra ininterrottamente i moti di un corpo e di un cervello, («ho nel corpo e mi si va sviluppando un orientamento senza sì e senza no che dà un senso a tutto quello che vado facendo e che somiglia a un nonsenso») ma anche di uno spazio geografico osservato con occhio da entomologo, gusto e disgusto, complicità e distacco, crudo realismo e guizzi visionari:

«la sicilia è un'isola che in pochissimo tempo è di­ventata una pro­vincia dei sar­gassi basta allontanarsi un metro e già comincia a profumare di ri­noceronti bianchi».

Non che i suoi libri, nel loro essere inconclusi e ramificati, siano intercambiabili, ma certo è difficile riassumerne il contenuto in quanto sono parte di una rete intricatissima di connessioni, ripetizioni, rotazioni a spirale. Sono insomma frammenti di un corpus che in teoria non si potrebbe segmentare in una struttura limitata (come per sua natura sarebbe quella di un volume). In questo libro pertanto si narra una minima sezione dell’atlante, la scorribanda sfilacciata di un gruppo di amici per le vie di una Palermo mutevole e immobile che potrebbe non essere Palermo ma qualsiasi altro luogo del cosmo, se non fosse che qualsiasi luogo del cosmo nelle pagine di Testa somiglia a Palermo. I personaggi si spostano quasi a caso da un punto all’altro dello spazio, con «i coglioni  gonfi di nullaggine» e passo da flâneur, si incontrano, si scontrano, si annoiano, fumano, bevono, telefonano, si annusano (anzi, si “annasano”), maneggiano oggetti, stanno comodamente seduti al balcone (“sognando”); pulsano insomma assecondando i ritmi del battito cardiaco e del paesaggio urbano. Alcuni sono riconoscibili:  ciccio (Francesco Gambaro), costantino (Costantino Chillura), guidoval (Guido Valdini). E quest’ultimo peraltro è l’interlocutore diretto del penultimo libro del nostro autore, “Dialoghi con guidoval” (Il Palindromo, 2017), ulteriore testimonianza di come la scrittura nelle pagine di Testa possa sdoppiarsi in forma dialogica, ma nello stesso tempo fondersi in una linea continua fatta di progressivi spiazzamenti che mandano in frantumi l’idea del dialogo di ascendenza filosofica e richiamano piuttosto un’altra forma di dialogo, quella che rinuncia alla costruttività ed è governata da un moto centrifugo, dalla libido del gironzolare intorno alle parole per il puro piacere di farlo, come Pollock gironzolava attorno alle sue tele godendosi il piacere di lasciare che il colore vi gocciolasse liberamente.
«”Dialoghi con guidoval” – diceva appunto Francesco Gambaro nel suo intervento alla presentazione del libro a Palermo – sembra muoversi nella logica binaria del dialogo, ma il binario è compulsivamente deviato, sembra una cartina geografica che traccia strade intrecciate a colori, le traccia e poi le straccia, con la sfacciataggine del bambino discolo,  impermeabile a ogni rimprovero».
Così come, del resto, compulsive deviazioni segnano anche “Dal balcone sognando” dove ritornano a spaglio spezzoni di dialogo con il detto guidoval ma qui mixate a un sistema ramificato di s/variazioni a girandola:

«non sono ancora riuscito a pensare più di quanto so­litamente mi pare di avere sempre pensato e ancora non so se penso molto o poco e se quello che certe volte individuo come pensiero sia pensiero o no»

«in conclusione so che è difficile individuare cos'è che scompare e cos'è che ri­mane anzi so che scomparire e rimanere sono soltanto il perché del sal­tare».

Alfonso Lentini
 

 

 
 
 
 
 


 
Gaetano Testa

“Al balcone sognando”
Perap, Palermo 2020
 
 
 

 

 

 


mercoledì 25 settembre 2019

Le professoresse meccaniche e altre storie di scuola







Avete mai provato, in qualche periodo della vostra vita, un sentimento simile a una solitudine concava? A riprova della geometria strana dei sentimenti, che a volte può manifestarsi su piani inclinati, ma anche no. Siete mai stati in una scuola dove le professoresse sono degli automi con parrucche e mettono in scena movimenti meccanici? Una scuola che ha, fra i vari insegnamenti ministeriali, uno importantissimo, fondamentale: l’insegnamento del Silenzio, che si auspica obbligatorio per il futuro? Una scuola che impartisce lezioni di Buio, e tante altre materie stuzzicanti e non convenzionali?
È di storie simili, ambientate in una scuola immaginaria, che ci racconta Alfonso Lentini con garbo stilistico e morbidezza buzzatiana, storie così improbabili e visionarie da sembrare verosimili, strampalate e paradossali nella misura giusta, una misura tanto non colma da indurci a riflettere, in modo amaramente comico, sulla nostra incerta precarietà esistenziale.


Paolo Albani