Giornate intere che scompaiono, e brevi attimi che diventano un’eternità.
(Peter Høeg)
sabato 1 agosto 2015
Facardo III
sabato 6 aprile 2013
Poesie reloaded
giovedì 26 agosto 2010
Gualberto Alvino. Parodiando
Se per il vino che avevo bevuto fino a tarda sera barcollavo con le mani
nelle capella e sbattevo contro dei pali della luce, contro delle gomita
dei viandanti che mi contemplavano dalla bottega del uva; se perseguitavo
i miei deliri dentro della gabbia dell’ordine, dentro della prigione squamosa
dei miei diti giovanili col mio sguardo colmo di sequoie; se il carrozziere
della rivoluzione segava e saldava il pane dei poveri molto puzzolente car
il sciovinista ha il tempo da perdere; se casualmente mi ritrovavo a sborsare
più del dovuto contro del mio volere depositando così tanto arrabbiatamente
la pelle sopra del banco dell’ingiustizia; se davo un calcio alla trottola che
giammai si fermava con parole d’imploro accanto al bavero della tua giacca
accusabile ma un poco giallina; se io ero solidale con il grido delle civette
e la platea semi vuota non voleva partire senza prima denudare il corso delle
mie accessioni; se mi ero conquistata per me la gioia dell’apparizione neutrale
per tenere per me le cose tu non facevi per me, tutte le cose tu evitavi gaiamente;
se il leone divorava pezzo dopo pezzo il mio cuore dentro del petto senza ch’io
feci nulla per vietarlo car la tua bocca porosa e imbelle me lo vietava molto
perentoriamente; se per pura misavventura lo stelo dell’archivio protuberava
dissennatamente fuora della cinta urbana e la farfalla subacquea s’abbronzava
severissimamente dentro del fango ribelle a tutti i limoni sinuosi e a tutte le
consacrazioni sprecate e immani; se io mi nascondevo dietro del velo taurino
degli altri e talvolta mi medesimavo dentro del turbamento degli altri sperando
calorosamente vadino in malora con vocabole oscene nascoste di tra le
pennella urbane del tuo franco zittire i carri al pascolo in questa città brutale
dentro delle sue fognature; se dentro delle tue pulchre fognature le mie orride
sognanze scavalcano i pugnali trascendentali dell’orrida impurezza degli orridi
condomini che ristagnano nelle sue nida di correità; se io fischiavo per te e ciò
non è che la bellezza di una sonaglia concorsuale prosciugata dal fruscio della
magnetofona; era solo per instillarti il rancore premuroso dei condomini e delle
urbane pennella.
Da "La poesia e lo spirito", 26 agosto 2010
mercoledì 6 gennaio 2010
Gualberto Alvino. Parodiando
Il 14 luglio 2009 tra le h. 13.52 e le h. 14.01, posso dirlo con sicurezza perché a quell’ora guardo sempre alla tele Medicina 33 rubrica a cura di Luciano Onder mi piace Luciano Onder quando parla fa smorfiette strane con la bocca strizza continuamente l’occhio destro mia nonna dice è un tic perché sarà nato settimino o col forcipe quelli che nascono col forcipe poi da grandi vengono malissimo con gravi difetti guarda per esempio quel Camilleri, Andreotti, Battiato almeno scrive belle canzoni, ma a me piace pensare che Onder mi fa l’occhietto per questo guardo Medicina 33 a cura di Luciano Onder non per quello che dice che sono quasi sempre scemenze molto meglio i Flintstones o, sdraiarsi sul divano e, sentirsi al buio l’ultimo cd di Renato Zero oppure, guardare le foto della Ferilli, nuda.
Per esempio nell’ultima puntata dei Flintstones ho riso tanto che mi è uscita un po’ di pipì, dal coso. Ho chiesto a mia nonna, nonna che cosa significa che mi esce un po’ di pipì, dal coso quando guardo i Flintstones? Lei ha detto non ti preoccupare sono cose che capitano certo a te non dovrebbero più capitare hai 42 anni suonati santa Madonna e sei anche, uno scrittore affermato anche se mi sembra strano che qualcuno, pubblica le cazzate che scrivi e soprattutto che, qualcuno le compra. Comunque meglio, almeno si mangia carne, la domenica.
Insomma per farla breve mentre guardavo Medicina 33 e mi credevo che Luciano Onder mi faceva l’occhietto e mi veniva voglia di farglielo anch’io anche se so che non serve a niente perché tanto quelli mica se ne accorgono dell’occhietto che gli fai in quanto non sono lì in carne ed ossa ci sono solo in qualità di immagini e anche se tocchi il vetro tocchi solo vetro non carne, e nemmeno ossa, suona il campanello di casa, mia.
La mia casa è situata a Viggiù nelle immediate vicinanze della famosa caserma, dei pompieri.
Quelli della famosa canzone che fa, testualmente così:
Viva qua, viva là, viva su e viva giù
viva i pompieri di Viggiù
che quando passano i cuori infiammano
viva i pennacchi rossi e blu
viva le pompe dei pompieri di Viggiù.
Non la trascrivo tutta perché, è una delle canzoni più lunghe e noiose, della storia della canzone italiana.
E, non solo italiana.
E, non solo della canzone.
Via Cavour angolo corso Stazzi. Precisamente.
Vicino al bar Vittoria dove ogni mattina vado a comprare Chicle The Chewing Gum of the Americas non si attacca al lavoro del tuo dentista.
La mia casa contiene molte stanze. Ma, siamo solo in due mia nonna, e, io.
Mi ci sono trasferito da poco prima abitavo fuori ma non c’era campo ed inoltre prendevo male La7 adesso La7 la prendo bene ma non la guardo preferisco Allmusic e Televiggiù ma la maggior parte del tempo la passo guardando i film porno i film porno sono l’invenzione più bella che Dio ha fatto, insieme a Mina e Mal dei Primitives, a essi aggiungo senz’altro il Vieri di verso fine anni Novanta perché adesso fa cagare poiché non segna più, ma anche Orzoro è un’invenzione dovuta allo stesso Dio, insieme alle figurine, dei calciatori. Un tempo le Panini, adesso non so come si chiamano e se ci sono, ancora.
Anzi sì ci sono. Ma non mi piacciono più da quando mia nonna me ne ha fatte ingoiare 16 una dopo l’altra il giorno che spaccai il lucchetto della credenza e mi sono ingozzato di quanto segue nell’ordine:
una scatola di biscotti ai semi di finocchio
una scatola di biscotti al burro di princeton
una scatola di biscotti al latte di cavallo Equilac finalmente liberi dalla psoriasi.
Dopo che suonò il campanello di casa mia spengo la tele mi tiro su i calzoni perché me li ero abbassati per menarmi un po’ il coso scendo le scale di corsa come se ero in Ferrari vado al portone e chiedo chi è. Mi risponde la voce da donna ma non è gay di Mocassino uno scrittore basso del Milan mio amico io invece sono, della Juve. Con nessun capello, in testa, come Kojak. Io, comunque sono più basso, di lui. Però di capelli ne ho tanti. In testa.
Ora, bianchi. Quasi tutti.
Il resto sale, e pepe. Sembrano sporchi ma giuro che mia nonna me li lava abbastanza, spesso con Johnson’s baby Shampoo Delicato è da sempre il suo Shampoo preferito.
Va per la maggiore.
Ha anche vinto un premio importante non ricordo la marca del liquore, comunque mi sembra che è giallo, e adesso tutti i giornali lo pagano per fargli dire qualcosa su qualsiasi cosa anche se è una cosa stupida lo chiamano e gli danno un tot a riga. O, a cartella non so. I giornali fanno così, non chiamano mica quelli che sanno scrivere e hanno un cervello che fuma, no aspettano che uno vince un premio importante e chiamano lui. Magari quello ha vinto perché i giurati sono dei coglioni o perché non capiscono un cazzo di letteratura o chissà per quale imbroglio ma i giornali lo chiamano e lo fanno scrivere.
Perché quello che conta è il nome, che si sono fatto.
Il nome, tira.
Comunque Mocassino con quel premio del liquore giallo ha risolto la vita prima non aveva un soldo neanche per comprarsi i giornalini glieli prestavo io me li ridava tutti spiegazzati. Se me li ridava. Quelli porno con certe macchie, io almeno me lo fascio con i kleenex prima dell’eiaculazione per non sporcare certe attenzioni le ho sempre avute lui no mai.
Dopo avere parcheggiato sul prato la sua nuova moto dotata di ben 48 cilindri, per un ammontare complessivo di 4.200 cc. circa che se lo sapeva mia nonna come minimo tipo lo strozzava lo aveva appena tosato molto meglio dei nostri vicini di casa i Cardelli che lasciano i ciuffi, entra e la prima cosa che dice è devo fare la cacca dove posso farla?
Non la faceva da tre giorni ma quella volta, sì. A casa mia.
Come la cacca?
La cacca. Devo farla non la faccio da tre giorni.
E devi farla proprio a casa mia?
Se mi scappa mi scappa tu quando ti scappa che fai non la fai la fai no?
La faccio sì la cacca mica si può trattenere per più di un certo periodo di tempo altrimenti anneghi, nella cacca.
E allora?
Ma non la faccio in casa tua la cacca la faccio in casa, mia.
Si vede che quando vieni a casa, mia non ti scappa, la cacca.
Va bene falla.
Dove?
Al cesso se no dove in cucina? In cucina c’è, mia nonna non vorrai fare la cacca davanti a mia nonna no?
Ti ho chiesto solo dove posso farla mica ti ho detto voglio farla in cucina per forza lo so che in cucina la cacca non si fa e infatti non l’ho mai fatta, lì, l’ho fatta sempre nei cessi o, al massimo nei campi se nessuno passa, cioè, al buio, o, nei cespugli.
Si è recato al cesso facendo una serie di scoregge a tempo di hip hop e quando ha finito si è recato al salone dove lo aspettavo, secondo me senza nemmeno farsi il bidè perché ci ha messo troppo poco dal momento dello sciacquone al momento dell’uscita dal bagno, io, stavo mangiando un Vitasnella e oltre di esso mi stavo succhiando con la cannuccia una bibita al cocco che sembrava sborra l’ho sputata a terra e lui mi ha detto con quella faccia da palla che aveva un’idea pazzesca te la dico?
Io, ci pensavo.
Un gusto che hanno gli scrittori è, dire che hanno un’idea.
Un altro gusto che hanno gli scrittori è, dire che te la vogliono dire.
Un terzo gusto che hanno gli scrittori è, pretendere la tua opinione dopo, che te l’hanno detta, l’idea.
Io invece anche se sono uno scrittore, no.
Poi per finire presto la faccenda ho detto dimmela dai. Se no non me lo toglievo di torno tre ore a andare bene lo conosco.
Ma che è la puzza che sento non la senti è pazzesca!
È mia nonna che fa il soffritto, di pesce per il sugo.
A proposito ho un certo appetito.
In effetti è ora di pranzo non vai a pranzo?
Non ho ancora incassato i cinquemila del premio non è che hai qualcosa da mettere sotto, i denti?
Sì parecchie.
Tipo?
Tipo 11 biscotti secchi è il massimo, che posso darti.
Grazie. Ma non è che mi prendi in giro mi sembra impossibile che tu sei il tipo che offre, non l’hai mai fatto, forse ci hai messo dentro qualcosa, magari ci hai pisciato, sopra? Ne ho abbastanza di essere scherzato da te, fin da piccolissimi.
Ho aperto il buffet.
Il primo sportello conteneva, bicchieri.
Il secondo sportello conteneva, piatti.
Il terzo sportello conteneva, posate.
Il quarto sportello conteneva, tovaglie e tovagliolini.
Il quinto sportello conteneva, bottiglie di liquore.
Il sesto sportello conteneva, servizi da tè e da caffè.
L’ottavo sportello era vuoto c’era solo uno stuzzicadenti e alcuni granelli, di polvere.
Il nono sportello conteneva, una scatola contenente circa, 11 biscotti secchi e Mocassino li ha fatti fuori in mezzo minuto aveva proprio fame altro che appetito l’avevo capito fin da subito.
Sbrigati che fanno Zorro gli ho detto. Ancora vedi Zorro? ha detto, poi ha detto tu fai ciò perché ancora non sei cresciuto. Saranno pure cazzi miei gli ho detto e cominciò a dire che mentre era in terrazzo come ogni pomeriggio a guardare col cannocchiale per avvistare un oggetto non identificato un oggetto non identificato lo aveva rapito e gli extraterrestri contenuti all’interno di esso gli avevano rivelato una marea di verità e adesso voleva raccontarle a me per scriverci su dei racconti, a quattro mani. Cioè io e lui. Insieme.
Dividendo in parti uguali il ricavato, delle vendite e tutto.
Subito mi si sono rizzate le antenne perché la fantascienza mi fa venire i brividi gli ho chiesto ma che cosa t’hanno detto quegli extraterrestri? Lui mi ha guardato un po’ con quegli occhi da pescemorto poi ha parlato con un tono basso, meno da donna del solito e ha detto allora, la cosa più importante che mi hanno detto è che gli scrittori di oggi i poeti di oggi i critici di oggi gli editor di oggi sono quasi tutti extraterrestri gli extraterrestri tempo fa hanno rapito quelli veri li hanno chiusi in una specie di magazzino e ogni tanto gli portano da mangiare, intanto fuori ci sono loro che hanno preso il loro posto.
Ah, adesso mi spiego perché sono tutti meno istruiti di mia nonna, ho detto.
Sì me lo spiego anch’io ha detto lui per esempio quello che anni fa ha scritto quel libretto su una balena morta in quel libretto ci sono più errori che cose giuste. A pagina 30 c’è scritto ha girare, a pagina 62 un’aspirapolvere appoggiato, a pagina 150 rimaneva accese ma questo sarà un errore di stampa, a pagina 159 dalle parte delle femmine ma anche questo sarà un errore di stampa però le bozze le potrebbero correggere con più attenzione, a pagina 163 non ero ancora pronto per le cose che degli adulti, che solo lui sa cosa cazzo significa, a pagina 167 glielo detto, a pagina 171 la madri ma anche questo sarà un errore di stampa, però alla pagina dopo c’è scritto lo visto e questo non è un errore di stampa è lui che la fatto.
Sì penso proprio che è vero questa faccenda del rapimento ho detto io, pensa a quel Calasanzio, Cagnasanta o Santiddio o come cazzo si chiama, chi può averlo fatto diventare condirettore di quella rivista fondata da Moravia se non si capisce un’acca quando scrive e quando si capisce qualcosa quel qualcosa è una cosa assurda o, sbagliata? Adesso l’hanno fatto diventare presentatore di Raiuno e non si capisce che dice quando parla, non solo perché ha la esse moscia e gli mancano tante consonanti peggio che a Luciano Onder di Medicina 33 però almeno lui è simpatico, ma perché parla tanto per parlare senza pensarci su prima e poi anche se ci pensasse su prima non cambierebbe molto perché è proprio il suo cervello a essere così uno col cervello così ci nasce, io lo nominerei subito.
Invece io lo caccerei proprio, dalla casa ha detto.
Sì sì anch’io ho detto eliminazione diretta.
Poi mi ha guardato un’altra volta e mi ha detto sempre con gli stessi occhi da pescemorto ora devo andare devo accompagnare mia madre al discount dopo devo scrivere per il Corriere che ne penso di un certo Gatti, o Goddo, uno scrittore che scrive in romanesco, o in toscano, o in milanese, o tutto insieme, una specie di pasticcio, un pasticciaccio, per dire Svizzera dice Sguizzara, pensa te la pazzia che ti porta a fare, comunque devo studiare mica posso improvvisare, pagano.
Va bene vai se devi andare vai ho detto.
Poi ha mollato un’altra scoreggia e è andato via.
E dopo basta.
sabato 5 dicembre 2009
Gualberto Alvino. Parodiando
— Sai una cosa stellina? — le chiedo osservando la frattale complessità del suo viso ovale e regolare.
— Cosa? — chiede lei mentre frotte di turisti giapponesi carichi di macchine fotografiche di ultima generazione accapano sotto gli archi con gran rumori: boing, sclomp, stu-tun, bumbumbum.
— Hanno appena rifatto il manto stradale e già c’è un’infinità di buche. Se non stiamo attenti ci rompiamo una gamba, se non peggio — dico io con atteggiamento particolarmente preoccupato.
— Solo una gamba dici? Qui si rischia di brutto, te lo dico io! — fa lei togliendosi un sassolino dalla scarpa, non solo metaforicamente.
— Sono d’accordo — rispondo facendomi largo tra i turisti giapponesi, uno dei quali ha un polso fasciato e ogni tanto se lo guarda come se fosse sorpreso o incuriosito; un altro, invece, sbircia di continuo l’orologio, come se avesse un appuntamento importantissimo al quale non può mancare. Noto che ha i tacchi alti ed è molto basso di statura: forse ha i tacchi alti proprio per compensare la bassa statura, mi sorprendo a pensare. Ma senza darlo a vedere, perché lei si infuria se si accorge che mi metto a pensare cose cazzutissime come questa. Le chiama contorsioni mentali, e forse ha ragione.
— Meno male — fa lei con gli occhi rimbombanti di dolcezza e di austerità al tempo stesso — che una volta, almeno una volta ti dichiari d’accordo con me. Cos’è, è morto il papa? È la prima volta, la prima volta in assoluto che ti sento dire che sei d’accordo con qualcosa che dico o penso. Dimmi la verità, lo dici solo per farmi contenta, non è così? Non ti conoscessi…
— Come sei abbronzata! L’abbronzatura ti dona moltissimo. Sei bellissima. Sbaglio o hai messo l’abbronzante che t’ho regalato io a Pasqua? Posso offrirti un caffè? — dico io come se niente fosse, con un sorriso incistato di nonchalance, facendo cadere il discorso da lei intrapreso, perché so che è molto pericoloso. Ormai la conosco come le mie tasche, e certi suoi discorsi so benissimo che tasso di pericolosità hanno e dove portano.
— Sì, ho messo il tuo abbronzante, è buonissimo sai? Dici un caffè? — fa lei abbastanza stralunata, mettendosi a riflettere molto a lungo, mentre il raglio di un clacson mi scuote da capo a piedi. Quando riflette sembra miope. È questo che mi è sempre piaciuto di lei, fin da subito.
— Non fare complimenti d’accordo? Ma se hai da fare non fa niente — dico.
— No non ho niente da fare. È che detesto il caffè. Magari un tè mi andrebbe di più — dichiara sinceramente lei. E questa sincerità la apprezzo molto.
— Va bene andiamo, c’è un bar proprio dall’altra parte della piazza — e glielo indico con il mento, zac, ma mi esce fuori un movimento goffo, simile a un tic, e una fitta di autocommiserazione mi trapassa dolorosamente il viso. Dovrò stare attento a quello che dico e soprattutto a come lo dico, altrimenti il tè con lei posso scordarmelo. Mi schiarisco la voce, tanto per fare qualcosa.
— Sì andiamo — dice lei ignorando il mio movimento. Non mi si fila nemmeno un po’, ma poi mi prende sottobraccio con un’allegria che mi sconcerta. Mi chiedo cos’abbia in mente.
— Sai mi sono sempre chiesta come fanno a trasformare la polvere in liquido. Sono cose così diverse tra di loro. Per me è e rimane un mistero indecifrabile — dice poi riflessiva e lievemente agitata, come ogni volta che tocca argomenti seri e scottanti.
— In effetti è una faccenda molto complicata. Tempo fa, quando facevo il consulente finanziario a Manhattan, un barman pakistano mi disse che fanno pressappoco così: mettono un po’ d’acqua a bollire, poi ci infilano dentro una bustina di tè, l’acqua penetra nella bustina, scioglie il tè e il tè è pronto. Però t’avverto che non so se crederci completamente: quel pakistano non era molto affidabile, anzi non lo era affatto, né come persona né tanto meno come barman.
— Straordinario! Chi l’avrebbe mai detto? Certo che la chimica è una cosa fantastica al giorno d’oggi!
— Fantastica? Diciamo pure meravigliosa — la correggo io stringendole forte un gomito e parte dell’avambraccio fino a farle male. Ma non tanto da farla gridare.
— Guarda, — le dico subito dopo — stanno arrivando altri giapponesi. È una vera e propria invasione. Sembrano pilotati da un’entità invisibile. Non sembra anche a te stellina?
— Sono d’accordissimo. Ho anch’io la tua stessa medesima sensazione — risponde lei incollandomi gli occhi addosso mentre una giapponese si soffia il naso minuscolo, talmente minuscolo che pare invisibile. Mi domando tra me cosa ci sia da soffiare e inoltre come faccia a produrre quel rombo assordante che fa voltare tutti i passanti.
— Ecco il bar. Entriamo? O hai cambiato idea? Se vuoi ci sediamo su una panchina a chiacchierare del più e del meno — dico poi distrattamente.
— Perché? — fa lei allarmata.
— Non lo so. Lo dico per te. Mi è sembrato che l’entusiasmo per il tè ti fosse improvvisamente passato — rispondo laconico sperando intensamente che lei insista per il tè.
— Oh no, grazie della premura ma un tè lo berrei molto volentieri. Magari prenderei anche un pasticcino piuttosto che un maritozzo con panna, ho qualcosa qui nello stomaco che… — dice mettendosi una mano sullo stomaco e massaggiandoselo con dei rapidi movimenti circolari. Noto che ha un’unghia senza smalto, cosa straordinaria per una persona attenta e precisa come lei. Che cosa le starà succedendo?
— D’altra parte, come potrebbe essere altrimenti? Ieri sera ti sei rimpinzata di nespole e rum della peggiore qualità. C’era da aspettarselo! — sentenzio io con tono cupo e paterno, sentendo montare uno strano magone che quasi mi soffoca.
— Sai cosa stavo pensando? — chiede lei all’improvviso, e il magone mi si scioglie come neve al sole. Respiro.
— Cosa? — dico io.
— Secondo me quel pakistano t’ha detto una cazzata. Deve esserci qualcosa di più complicato e misterioso che non ha voluto, o non ha potuto dirti! — conclude calcando molto la voce su o non ha potuto e contemporaneamente sbarrando gli occhi, come se avesse di fronte un morto vivente o comunque qualcosa di terribilmente spaventoso.
— Lo credo anch’io — rispondo guardando un vecchio giapponese che s’infila il dito mignolo in un orecchio e comincia a rotearlo furiosamente mostrando il bianco degli occhi per l’intensissimo piacere che prova. Sarà pieno zeppo di cerume, penso. Magari finora è stato sordo e all’improvviso comincia a sentirci. Un autentico miracolo. Ma bando ai pensieri cazzuti.
— E se invece del tè prendessimo una birretta chiara? — propone lei entusiasta.
— Perché no? — azzardo io. Sono sempre stato affascinato dal suo spirito d’avventura, fin dal primo momento che l’ho vista. Ricordo che la prima volta la invitai a un cinema e lei propose invece un’amatriciana all’aglio calabrese nella trattoriola sotto casa sua. Per me fu un momento magico. Quasi una rivelazione.
— Che poi anche qui c’è un mistero che non mi quadra mica sai? — dice seria di colpo.
— Tipo?
— Tipo che anche fare la birra deve essere una faccenda molto molto complicata. Mi sono sempre chiesta com’è possibile che…
— Complicatissima — la interrompo io con cautela, per non indispettirla. — Pare che venga dall’orzo, ma non posso dire di esserne sicuro al mille per mille, te lo dico subito.
— Cos’è, mi prendi in giro? Eh? Ti prendi gioco di me? Io l’orzo lo bevevo col latte da piccola ogni mattina prima di scuola in quantità industriali e non mi sono mai ubriacata, mai. Invece se prendo un goccio di birra, un solo goccio, comincio a dare i numeri e ci metto tre giorni a rimettermi in sesto. Tu ne sai qualcosa — esclama lei con tono inarrivabilmente perentorio squadrandomi dalla cima dei capelli alla punta dei piedi col suo solito sguardo indagatore. Di cui ormai non riesco a fare a meno.
— Infatti, sembra impossibile anche a me stellina. È un mistero. Un vero mistero — dico io mentre un altro gruppo di giapponesi cala sinistramente dalla china.
venerdì 20 novembre 2009
Gualberto Alvino. Parodiando
Quello fu l’autunno più ventoso che la storia di Trieste rammenti, ma nessuno, che mi consti, ne ha mai scritto né parlato, e a distanza di tanti anni non ne ho ancora compreso il motivo. Forse perché quest’epoca cinica e brutale ci costringe a dimenticare in fretta, tutto, anche le cose cocenti e dolorose, drammatiche e tragiche, amare e penose, tristi e crudeli: maceriamo tutto nel mortaio dell’oblio e un momento dopo scordiamo persino d’averlo fatto. Ma questo l’avrei capito più tardi. Molto più tardi. Crescendo.
Soffiava, il vento. Soffiava e urlava come una faina impazzita, scardinando pali e parapetti, scrollando insegne e carrozze, alberi e siepi, sferzando il molo, facendo oscillare i piroscafi all’àncora. Una mattina, mentre mi recavo a scuola proteggendomi gli occhi col cestino più leggero di una piuma (c’era poco, ben poco da mangiare allora), vidi un battellino staccarsi dalla gòmena e rovesciarsi sul dorso come uno scarafaggio; un mozzo perse il basco e lo rincorse per decametri e decametri sotto lo sguardo atterrito dei pescatori, le cui canne s’impigliavano ai pennoni, e non c’era verso di sbrogliarle se non ricorrendo all’aiuto di Gallo Spennato e di suo cognato, un albino maleodorante e sordomuto che noi chiamavamo Aquila Sconocchiata non solo perché veniva dalle lontane Indie, ma perché, pur soffrendo d’artrosi, quando faceva del bene sembrava volare. Gallo e Aquila erano gli unici a mantenersi impassibili nella bufera, le gote arrossate dal gelo, i capelli unti di brillantina, mentre lo spavento faceva tremare ai pescatori i polsi e le vene, pance e gambe, calzoni e cappelli. Loro due li guardavano con pietà, poi si arrampicavano sui pennoni con quattro bracciate, snodavano rapidamente le matasse e si lasciavano scivolare giù senza batter ciglio nella gratitudine generale.
L’unica nota allegra che mi riesca di ricordare in quell’inferno del 1927, a Trieste.
Fu un autunno lungo, il più lungo e temibile per unanime giudizio.
I panni stesi sui balconi della città vecchia si torcevano, svolazzavano, sembravano stendardi sontuosi e sprezzanti che annunciassero una vittoria. Alcuni crepitavano come petardi, altri emettevano il verso stridente e prolungato dei grilli che catturavo ogni mattina nell’orto di zio Beppi balzando da una frasca all’altra con l’agilità d’un felino, e che poi alloggiavo nella tasca interna della casacca fino a sera, quando li tiravo fuori, li salutavo e li liberavo nella bruma, pensando eccitato alla caccia del giorno dopo.
Mi sembra che sia passato un secolo da allora.
Quel vento m’incuteva una paura del diavolo, e correvo a rifugiarmi tra le braccia di colei che sola aveva il potere di placare la mia angoscia con un semplice gesto, una parola: mia madre. Che mi prendeva le mani, le stringeva come aggrappandosi all’ultima speranza, s’illuminava d’un sorriso etereo, mi scrutava per lunghi minuti con un cipiglio ardente e fin straziante, poi ciondolando il capo mormorava:
― Te capisco, fio mio, ah se te capisco, te capisco ben, 'dona santisima, fa spavento anca a mi 'sto ventasso de 'a malora, ma no pensarghe… pasarà.
E invece non passava. Non passava mai. Anzi, sibilava più forte, sempre più forte, da occidente, da oriente, da sud, da nord, dall’alto, dal basso, da destra, da sinistra, di fianco, e tutti si chiudevano nei pastrani e correvano terrorizzati a ripararsi nei portoni dei palazzi e delle chiese. Ma i vecchi e i bambini, per tacere dei malati, non resistevano a tanta furia: venivano risucchiati dai vortici e sparivano, come cancellati da un colpo di spugna.
Tutti erano terrorizzati. Tutti. Ma non mio padre, a cui il vento era sempre piaciuto, al punto da intristirsi quando si fermava. Se le foglie dell’acero che lui stesso aveva piantato da ragazzo davanti al balconcino del salotto accennavano a calmarsi, spalancava la finestra e smetteva di respirare finché il vento non riprendeva a soffiare. Allora godeva. Godeva con tutta l’anima, con gli occhi, con la bocca, con le viscere, con le braccia, con le gambe, coi gomiti, in ogni poro. Godeva della gioia di sentirsi carezzato da quelle dita forti e immateriali, imprendibili eppur concrete, più concrete del granito. Godeva per sé e per il mondo intero, anche per quelli che al vento non volevano abbandonarsi. Era un godimento umano, ma anche animale: insieme estremo e mite, informe e pensoso, epidermico e profondo. Ogni volta pareva che un vulcano gli scoppiasse dentro e gli squassasse tutte le fibre dell’essere.
Quando l’autunno finì e arrivò l’inverno, fui felice come non ero mai stato prima. Uscivo nelle strade e non mi sembrava vero di non sentire nemmeno un alito sugli indumenti e sulla pelle. Che bel mondo sarebbe il mondo, pensai, senza un soffio di vento!
Tutti fummo felici. Tranne mio padre, Gallo Spennato e Aquila Sconocchiata, che si costruirono con trecento metri di stoffa rigida e settemila stecche di pioppo il ventaglio più grande del Friuli-Venezia Giulia, e trascorsero mesi, interi mesi ad agitarlo nel giardino dietro casa per scacciare la malinconia in attesa del vento.
― Dove troveranno mai tanta costanza? ― mi domandai infilando un grillo nel taschino, mentre zio Beppi mi rincorreva brandendo la roncola a mo’ di fioretto.
martedì 3 novembre 2009
Gualberto Alvino. Parodiando
Era la fine degli anni Ottanta, che qualcuno definisce meravigliosi, altri orribili, altri discreti, altri ancora passabili, o almeno vivibili, quando Torquatus W. Ufonson, un umano Speckerwalsh di quarta generazione che aveva già consumato tre quarti della sua vita su questo pianeta e che si affacciava proprio allora al quarto quarto trascinandosi nella più penosa tristezza, e che non aveva mai fatto del male ad anima viva, o perlomeno così aveva sempre creduto nell’ingenuità senza fondo che gli certificavano tutti, parenti compresi, ma trascorreva il suo tempo libero ― e ne aveva tanto, tantissimo, fors’anche troppo, a giudicare dalla noia che lo prendeva spesso, in certe stagioni spessissimo, e non c’era niente da fare ― trascorreva il suo tempo libero giocando con i suoi marzianini di piombo e le sue cosmonavine in miniatura di tutte le specie e dimensioni allineate sugli scaffalini di tec ben stagionato nel suo bungalow di faggio giallo sulla collina più alta della contea di Madox Springs, proprio sotto Stanford, la città più fumosa di tutto l’East Side, e questo dipendeva dalle molte fabbriche che c’erano, nessuno seppe mai di cosa, però il fumo usciva alla grande e invadeva impunemente case; polmoni. Tutto.
Quella contea godeva la fama di essere la più infame di tutti gli Stati Uniti. O almeno una delle più infami. Senz’altro. E questo non meravigliava nessuno. Non poteva meravigliare nessuno visto che la fedina penale più immacolata di Stanford registrava un elenco di crimini da far paura al più tremendo dei banditi (allora li chiamavano gangsters, cornuti, o semplicemente figli di puttana) di tutte le contee limitrofe. E non solo quelle limitrofe. Anche quelle più distanti.
Una mattina di maggio di verso la fine degli anni Ottanta, Torquatus W. Ufonson, mentre si preparava il suo green tea nella kitchen d’olivastro che aveva appena comprato a rate benché le sue magre finanze non glielo permettevano, improvvisamente e senza la benché minima possibilità di scampo, fu attanagliato da un dubbio. Un dubbio atroce, una morsa sgradita, corrosiva, che non lo mollava un solo momento, specie quando era d’umore non particolarmente fantastico, il che avveniva quasi sempre, malgrado si sforzava di non farlo succedere, e che si riaffacciava quando non se l’aspettava, tra capo e collo, e avrebbe fatto l’impossibile per cancellarlo, benché non riusciva a sentirselo come suo. Eppure lo era, suo, non c’era dubbio, non c’era il benché minimo dubbio che era suo. Ormai si era incancrenito, si era incarnito, proprio come un’unghia, nelle profondità della sua anima turbata e confusa in cui lui annaspava come un naufrago che intravede, sì, la terra e le cime degli alberi coronate di nubi e il vento che le scuote e gli uccelli che volteggiano in mezzo a nuvole di insetti di ogni specie e dimensione che vorticano nella luce che si staglia contro il mare che bolle come se una fiamma lo scaldasse nei visceri che sembrano quelli di un mostro, ma siccome sta per affogare, non ce la fa più, e allora si lascia andare pensando: se deve andare così; vada.
Ma Torquatus W. Ufonson non si sarebbe lasciato andare, mai, a qualsiasi costo, nemmeno per tutto l’oro del mondo. Ci voleva coraggio, certo. Ma a lui il coraggio non gli era mai mancato, non era mai stato un problema fin da quando suo padre gli disse, «Vai pure, ma ci vuole coraggio, se non ce l’hai c’è poco da fare». Tali parole gli riecheggiavano nell’anima spessissimo, a Torquatus W. Ufonson.
Torquatus W. Ufonson non si ricordava con precisione il momento in cui quel dubbio aveva fatto il suo primo avvento, impiantandosi per la prima volta prepotentemente e ineluttabilmente nella sua mente fremente. Perché adesso? si chiedeva, perché proprio a lui, che non aveva mai dato fastidio a nessuno, che giocava innocuamente con le astronavine e i marzianini di piombo, che si limitava ad avere un sistema di vita per cui fantasticava al massimo qualche incontro ravvicinato del primo tipo, e solo qualche volta, ma raramente, molto raramente, del secondo? Al terzo poi, non ci avrebbe mai pensato. Mai. Perché era fatto così. Non faceva mai il passo più lungo della propria gamba. Che sapeva che era cortissima, e non gli avrebbe mai consentito di fare un passo che fosse particolarmente lungo, non in senso assoluto, in senso relativo, solo in rapporto alla proprio gamba, cioè, non in relazione a tutto. Sperava solo di sfangarla, ecco tutto. Sfangarla: intorno a questa parola si era svolta tutta la sua vita. O quasi.
Non che non ci avesse mai pensato, non che non sapeva cos’era, un dubbio. Ci aveva pensato a questa cosa del dubbio, sicuro. Doveva farci una qualche cosa. Lo sapeva bene che doveva farci una qualche cosa. Solo, non adesso. Un po’ più in là. Magari a settembre. A ottobre. A novembre. O a Natale, perché no? Natale, a Madox Springs, era stupendo, tutti si compravano una camicetta nuova e buttavano la vecchia, una radio nuova e buttavano la vecchia, un frigorifero nuovo e buttavano il vecchio, chissà da dove proveniva questa tradizione molto molto originale che a Torquatus W. Ufonson faceva molto piacere osservare con molta attenzione tra le stecche delle sue persiane, mentre accendeva con molta cautela le lucine di tutte le sue astronavine o scrutava i marzianini illuminati dalla luce radente del pub sotto casa sua da dove proveniva ondeggiando nell’aria una puzza insopportabile di pancetta di terza scelta e di uova andate a male. Sarebbe sceso a litigarci di brutto con quelli là, però rimandava sempre. Di volta in volta. Come rimandava tutte le cose appartenenti alla propria vita, benché era uno Speckerwalsh, e gli Speckerwalsh, si sa, quando c’è da agire agiscono; alla grande.
Partiva da lontano quel dubbio, da molto lontano. Da così lontano che lui neanche si svegliava la mattina e quello già era pronto a bucargli il cervello, come uno che ha un trapano acceso in mano e non aspetta altro che il momento più giusto e migliore per poterlo usare al meglio contro chiunque gli capita casualmente sottomano benché è totalmente con le mani pulite, innocentissimo voglio dire.
Voleva, doveva fare una qualche cosa. Ma non ci riusciva a farla.
Qualche volta, ma molto di rado, andava al distributore automatico di gassose di Hobbes Street, che fu poi chiamata Bongo Road in onore al tamburo del primo giudice di Stanford che lo percuoteva dopo aver emanato ogni sentenza quasi per suggellarla con un ritmo che salava il sangue di tutti quelli che c’erano. Ognuno che aveva voglia di gassosa bastava dicesse: «Bongo», bastava questa parola: ciò per far capire quanto Bongo era diventato il simbolo in assoluto della gassosa; in altri termini, non dicevano più, «Voglio una gassosa», ma solo, «Bongo», e gli altri capivano al volo, dopo qualche minuto.
Andava lì, Torquatus W. Ufonson, infilava la moneta nell’apposita fessura, poi si sedeva a terra sfoggiando il suo sorriso estatico che di estatico aveva unicamente l’apparenza, perché lui all’interno si sentiva al contrario preciso dell’estasi, diciamo pure: imbestialito come un negro, benché di nero aveva solo i sopraccigli, il resto era più bianco del bianco lavato con tre passaggi a cento gradi in una lavatrice Turbomax Super 156 Tipo Extra. Infilava la moneta e aspettava paziente, pensando ai suoi marziani. Solo allora si sentiva meglio. Non proprio bene, solo meglio. Lo sapeva bene che quel dubbio lo avrebbe mollato solo qualora avesse dato una risposta ad esso. Bene. Ma come fare? Pure se avesse voluto, Torquatus W. Ufonson non ci sarebbe riuscito molto bene. Del resto, certe cose, o riescono bene, o no. E questo lo sapeva. Lo sapeva benissimo, fin nel profondo dell’essere.
Torquatus W. Ufonson si era perso. Si era perso in tanti sensi. Si era perso nel senso più generale di ostinarsi a non voler considerare l’eventualità che il mondo intorno a lui fosse reale e in quello più particolare e immediato di non sapere dove diavolo era potuta finire la Stanford di un tempo, quella della sua infanzia che correva come il fiume Zxhythwskj (qualcuno lo scriveva Yzxtvwjw, altri Xzitvs e altri ancora Ptpofak, non si capì mai la grafia esatta, finché un vecchio capo apache disse, «Si scrive Mkzxxyqiq, ecco come si scrive!»), solo che il fiume prima o poi arrivava al mare, mentre lui non arrivava da nessuna parte. Mai!
Nella contea di Madox Springs nevicava che Dio la mandava. Nevicava sempre, in ogni stagione. Nevicava come scorrevano fiumi di birra. Che a parte la neve era l’unica cosa che ti poteva venire in mente di dire su quello schifo di contea che tutti odiavano a morte e che ci avrebbero messo la dinamite e che non si decidevano invece mai a lasciare, come se ci fossero appiccicati con la colla Samson, quella che Torquatus W. Ufonson adoperava per riparare i suoi marzianini, pur se piombo e colla non è che vanno molto d’accordo, anzi; puoi provare cento, mille volte, ma due pezzi di piombo con la colla, Samson o non Samson, mica li attacchi, il piombo si fonde, altro che colla! Ci vuole un forno a più di 10.000 gradi, la colla serve per la carta, la stoffa, il legno morbido, certe volte la ceramica, eccetera eccetera eccetera. Ma il piombo…
La vita di Torquatus W. Ufonson si lasciava trasportare da una corrente di placida e morbosa malinconia che correva verso il niente, tra un marzianino da riparare e una cosmonavina da lucidare, e magari da farci un sogno, di quelli che ti lasciano un segno la mattina, quando ti svegli con il palato impastato e una voglia di caffè che si impossessa senza tregua della tua gola secca come se fosse stata bruciata da un lanciafiamme o cosparsa d’acido, ovvero cose molto simili.
E infatti. Una notte verso le tre, tre e mezza, Torquatus W. Ufonson sognò che si costruiva un’astronave vera, e che un esercito di marziani in carne e ossa lo circondava pian piano scrutandolo alla stessa maniera con cui lui scrutava i marzianini di piombo sullo scaffalino di tec.
Vale a dire: sinistramente.
Torquatus W. Ufonson se l’aspettava, in effetti. Da tanto tempo. Da una quantità di tempo che non riusciva nemmeno più a quantificarla. E finalmente era venuto il momento.
E da quel momento, del dubbio più neanche l’ombra.
domenica 11 ottobre 2009
Gualberto Alvino. Parodiando
Cinzia di Tor Tre Teste tossisce, si passa la lingua sui denti, una, due, tre volte, mordicchiandosi il labbro superiore fino a farlo sanguinare, poi ingoia il sangue e inizia a mulinare la sua Speedy Monogram della Red Apple stringendo il laccetto di plastica come un guinzaglino. Fa così ogni volta che ha un pensiero sinistro, o che qualcosa di grave sta per accadere. «Chi credi di essere, una sensitiva? È meglio che la pianti con le tue cazzate!» le ripete sempre con sarcasmo Diego di Testaccio, il ragazzo con cui sta ormai da più di due anni, facendo scricchiolare talora le Pakerson Classic, talaltra le Church’s modello Burwood sui vialetti di ghiaia dell’università dove si è iscritto solo per far tacere sua madre, una vecchia professoressa di greco in pensione che non lo perde mai di vista, spiandolo da dietro alle fessure ovali dei suoi occhietti a mandorla, eredità di suo nonno, cinese di Canton trasferitosi in Europa subito dopo la guerra cino-nipponica per aprire una catena di ristoranti e di tolette per cani che assurse agli onori della cronaca per una serie di omicidi su cui si trovò ad indagare il padre di Diego di Testaccio, uno con l’ulcera gastrica e con il fuoco di Sant’Antonio che gli causava dei dolori lancinanti sulle spalle e lungo l’intera schiena, ma con un fiuto che avevano pochi investigatori, all’epoca. Lui e la madre di Diego di Testaccio s’innamorarono pazzamente mentre lei gli spalmava sulla schiena un balsamo descritto in un testo ionico di farmacopea che lei aveva scovato tra i fogli di guardia di un codice antico.
Valeria di Valle Canestra continua a tormentarsi l’orlo dei 501 Standard Fit e le frange dei polacchini Givenchy fingendo di reprimere prima un rutto poi uno sbadiglio, perché sa che cosa vuole Cinzia di Tor Tre Teste, vuole chiederle di entrare a farla insieme, come facevano da bambine nel bagno della scuola, e a lei verrà l’angoscia perché lì per lì non saprebbe prendere una decisione: l’afrore di ammoniaca la disgusta, ma al tempo stesso la attrae, la seduce in maniera irresistibile, «Smettila di rimestare nel piscio!» le dice sempre sua madre. E frattanto ha una gamba che trema. Le trema talmente, la gamba, che un rasta di passaggio le chiede se per caso si senta male, se ha bisogno d’aiuto, perché una gamba tremare così non l’ha mai vista in vita sua, dev’esserci per forza qualcosa che non va, per forza. Valeria di Valle Canestra pensa ma vedi questo, credendo sia il guardiano, che le sta dietro da quando l’ha vista uscire da un cesso con un seno di fuori; poi: «Oh, ti ho chiesto qualcosa? Eh? Ti ho chiesto qualcosa? No. Allora fai dietrofront e esci dal bagno delle donne! Quello dei maschi è occupato? Cazzi tuoi!» risponde lievemente seccata, tornando subito a rintanarsi nei suoi pensieri, mentre si sente tra i glutei e fino all’attaccatura delle cosce la stretta sorda delle emorroidi che le viene ogni volta che pensa fitto. «Vorrei ficcarci un palo dentro!» dice sempre a sua sorella Federica di Rocca di Papa quando le chiede se ha dolore. «Smetti di pensare fitto e vedi che ti passa» replica Federica di Rocca di Papa. Invano, perché Valeria di Valle Canestra a smettere di pensare non ci pensa, non ci pensa nemmeno lontanamente.
Katiuscia del Quadraro Vecchio se ne sta in un angolo, la schiena lunga e dritta appoggiata alla parete di maioliche bianche chiazzate di sputi e scritte oscene. Fissa le altre come se le vedesse per la prima volta, e intanto un velo di tristezza le vela gli occhi azzurri, perché sa che prima o poi toccherà a lei, sa che Cinzia di Tor Tre Teste, se Valeria di Valle Canestra si rifiuterà, chiederà a lei di entrare in bagno, e Barbara del Tiburtino III: «Su, non fare la scema, questo è l’unico bagno libero. E poi, un bagno così, quando ci ricapiterà? Ci hai pensato a questo? Di’, ci hai pensato almeno una volta? Da quanto cerchiamo un bagno? E proprio ora che l’abbiamo trovato vorresti…» Ma Katiuscia del Quadraro Vecchio non l’ascolta, alza il bavero della Ralph Lauren e se lo serra stretto intorno al collo come se volesse farsi risucchiare da quell’imbuto di stoffa cremisi, sparirci dentro, per sempre. Un tempo preferiva di gran lunga le Lacoste, perché il caimano era sempre stato il suo animale preferito, ma quei nidi d’ape le irritavano la cute troppo delicata, allora passò senza rimpianti alle Ralph Lauren, altra classe, altra finezza, anche se le trovava un po’ troppo larghe, «a vela» diceva, intendendo «a sacco», o forse «a cascata», chissà.
D’un tratto si sentì un tonfo, e quattro teste rasate irruppero nell’ambiente. Erano a volto scoperto, e Barbara del Tiburtino III spalancò la bocca ed emise un grido talmente acuto che un cane, fuori, latrò per un minuto buono, e anche più, perché era stato l’unico a poterlo sentire, tant’era acuto; questione d’onde, frequenze. Poi chiese:
― Voi volete ucciderci, vero?
― Perché dovremmo uccidervi? ― chiese a sua volta quello che doveva essere il capo, perché era il più alto di tutti, e una cicatrice gli sfregiava lo zigomo sinistro e parte del destro fino all’orecchio traforato di metalli, mentre gli altri tre erano bassi di statura e avevano la pelle liscia come quella dei neonati.
― Come perché? È chiaro, siete a volto scoperto. Se non volevate ucciderci sareste venuti mascherati, magari con le maschere dei presidenti, come in Point Break, o da Topolino e Zio Paperone, come in quel romanzo giallo con un nome di donna nel titolo, scopiazzato da Point Break, scritto dal figlio di quel primario parmigiano che fa venire il latte ai ginocchi al secondo rigo e malgrado ciò vende a sfascio. Mi chiedo come sono possibili certe cose? Chi li compra? E soprattutto: perché? A certe persone va tutto bene, gli arrivano soldi da ogni parte, non bastava il padre primario? Anche royalties a pioggia! Di questo passo dove andremo…
Molto probabilmente voleva dire: «a finire». Ma non terminò la frase che qualcosa la colpì alla bocca dello stomaco lasciandola senza fiato, in un conato asciutto. Era il pugno di quello che doveva essere il capo, perché era troppo alto, rude e violento per non esserlo, mentre gli altri tre tacevano pendendo dalle sue labbra. Le si avvicinò e le soffiò all’orecchio:
― Basso, tarchiato, fighettino, un po’ flatulento, esse blesa, quando cammina alza i talloni e pende leggermente a sinistra, Rolex Yacht-Master II al polso destro, tenuto leggermente lento, allacciato al quarto o al quinto buco, jeans Diesel a bottoncini d’acciaio, tranne il primo, gliel’ho fatto saltare io con un calcio perché rompeva troppo i coglioni. Dov’è?
― T’ammazzo, figlio di puttana! ― esclamò Katiuscia del Quadraro Vecchio senza troppa convinzione, pizzicandosi la cintura Holl d’alcantara. Le fece eco Cinzia di Tor Tre Teste, cui l’orrore e la tensione esplosero dentro. E fece quello che faceva sempre quando si trovava in uno stato d’eccitazione. Cominciò a cantare una canzone di Sergio Bruni, isterica e sonora, senza riuscire a fermarsi. Ci aveva perso più di un marito, per quello.
― Reazione nervosa, eh? Va bene. Ricomincio da capo. Basso, tarchiato, fighetto, un po’ flatulento, esse blesa, quando cammina alza i talloni e pende leggermente a sinistra, Rolex Yacht-Master II al polso destro, tenuto leggermente lento, allacciato al quarto o al quinto buco, jeans Diesel a bottoncini d’acciaio, tranne il primo, gliel’ho fatto saltare io con un calcio perché rompeva troppo i coglioni. Dov’è? Parla, se non vuoi crepare prima del tempo. La vedi questa? ― e le mostrò una scimitarra turca appena lucidata che sapeva d’Amphora Verde Rich Aroma, infatti c’era attaccato un vecchio grumo di tabacco secco che svolazzava per lo spostamento d’aria che si era verificato in seguito al movimento di qualcuno o qualcosa.
― Aspetta un po’, ti riferisci al rasta di poco fa? ― mormorò Barbara del Tiburtino III scuotendo la testa incredula.
― Sì, perché? ― fece lui curioso, sollevando la scimitarra sul collo tremante della ragazza con uno sguardo che non prometteva niente di buono.
― Porca troia! E non potevi dirlo subito che cercavi il rasta? Un rasta si riconosce dai capelli, mica dal Rolex e tutte le menate che hai messo in fila!
― Allora? Dov’è? Sputa, o ti pentirai di essere nata. La vedi questa? Vuoi che ti tronchi il collo? Credi mi ci voglia molto per farlo? Eh? Credi mi ci voglia molto per troncarti il collo?
― Primo cesso a destra. È mezz’ora che è là dentro, non senti la puzza?
― Cristo se la sento! Avrà ingoiato un gatto morto! Grazie infinite.
― E di che? Comunque questo è… il bagno delle donne ― aggiunse poi con una punta di esitazione mista ad orgoglio femminile.
― Ah sì? ― rispose lui imbarazzato rinfoderando la scimitarra. Ma era chiaro che presto o tardi l’avrebbe risfoderata. Chiarissimo.
sabato 26 settembre 2009
Gualberto Alvino. Parodiando
Qui da noi, a Malloppeddas, sangu crama sangu, e certe mattine neanche il sole si fida di sorgere per non far succedere scandalo grande: lo vedi barcollare come un ubriaco in mezzo al cielo, che a quell’ora è più livido e viola dell’arraschiu di un tisico morente, e rituffarsi dietro le montagne di Sas Bulas Spoioladas come un topo nella sugna, fiùùùùùùùùùù, fìfì, fiùùùùùùùùùùùùùù, come una lamia sulle mammelle d’una pitzinna, oltre i vigneti di Abbas Tzicorrosas et Putzinosas, tàtàn, tàn tàn, cacatàtàtàn, tàtàn tàtàn tàtàn tàtàn, come un lupo sull’anzone strazziolato, verso la pianura di Sa Buzara de Babbachiuzi Tzoppu, splìn, splìììììììììììììììììììn, tìn tìn tìn, spùc, spòc, spùc, e atzutzuddarsi con la luna barbaricina che non vuole saperne di tramontare e di perdersi il primo isquartamento della giornata. Perfino il maestrale, da urlo, si fa bisi-bisi sommesso per non coprire i lamenti dei latitanti contro carabinieri e malagiustiscia, taccullidas de bocchisorzos iscannados che calano come un manto morbido e triste sulla vallata: «Eo mi corco in su lettu meu, anima e corpus incumando a Deu, anima e corpus a Santu Giuanne; s’inimigu mai no m’ingannet, s’inimigu mai no mi tochet, né a die né a notte, né in vida né in morte, iscuru a chie confidat in homines, pustis de sa tempesta benit calma, abba et bentu benint a passare, sa vortuna ata arribare».
Già, perché a Malloppeddas, come a Mammuddones, a Su Coddu Ismiddatu, a Sas Madixeddas Subra Mortos, a Viduantzia Gaddighinosa, a Bagassedda Ischerfiada e a Passu Tra Fogu la vita è cupa e dirgrasciata come la lottura, la miseria fa venire il gelo ai piedi, e sangue chiama sangue, rayolu rayolu, astiu astiu, vinditta vinditta. Frùùùùùùùùùù, bùmbùmbùm, scatataplàk, plìk, plèk. Così è sempre stato, e così sempre sarà, fino alla fine dei tempi. Pthù!
Se vi trovate a passare di qui tirate dritto e non guardate in faccia nessuno. Non azzardatevi: conosco più di un balentino che ancora scappa a gambe levate per la Calada d’iscramintados con la carne a brandelli, e altri che non hanno avuto nemmeno il tempo di pentirsi della troppa abbalansa.
Oddeu, mischineddos, manco ai cani.
Questa gente non è stoffa da farci stole. La loro pelle scavata nel marmo ingrato di Nurghilè è fulva come un’ascia appena cavata dalla brace, le loro mani sono più dure del cristallo di cava, gli occhi sembrano quelli di una faina nel pollaio. E chi è colpito dal fulmine ringrazia Dio per averlo baciato in fronte, poi si avventa sul primo che passa come un falco sul coniglio sbadato, aaaaaah, aaaaaaaaaaaaah, aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaah, sdùn sdùn, trìcchete, tràcchete.
Tirate dritto. E state alla larga soprattutto da mannai Zippulledda Corconè, che vaga eternamente per le strade con le sue scarpe di vacchetta, la cappa di velluto e le gambe a ighisi come verghe di steccato, nichidada e ammuscincada come una mastina orba della cucciolata.
«E comente ti permittis? ― è il suo grido di guerra quando qualcuno le posa gli occhi addosso, anche per sbaglio. ― Custa la paghi cara, berme, burdu! Ti tzaccu s’ischina, ti mangio il cuore, ti crasto con la roncola, ti brucio la casa con tutta la tua berentzia, ti spacco la colondra con l’istratzone fino alla pelcia del culo, che il crancu t’allufflasse il cervello, su malecaducu t’irbeccasse, la gutta ti deve abbulvuddare come un pallone prenu di cacarugnulu, t’addentigasse il demonio, che tu possa derroccare nell’isprefundu, ballaloi! Ajò, io passeggio in grascia e Deus e tu osi guardarmi per far parlare la zente limbuda? Non puoi barigare alla mia vendetta, cozzone! Accocónati e fatti ratzigare cussu cabu di mortu, abuminiu de sa terra, birgonza de su populu gabillu!». E se la vittima non le sfugge di mano, tutti alzano gli occhi al cielo e si fanno il segno della croce. Tutti, tranne il padre e i fratelli del malcapitato, che restano fermi come pietre pregustando il momento in cui la squarteranno come una scrofa dopo averla fottuta a turno come solo i barbaricini sanno fare, e spargeranno le sue carni smembrate nelle forre di Malloppeddas, Mammuddones, Su Coddu Ismiddatu, Sas Madixeddas Subra Mortos, Viduantzia Gaddighinosa, Bagassedda Ischerfiada e Passu Tra Fogu.
Perciò si narra che i bambini di queste parti nascondono i loro sogni nei teschi sbeccuzzati dai corvi.
domenica 30 agosto 2009
Gualberto Alvino. Parodiando
Mio cognato Nicola aveva preso quattro in matematica e sua sorella, ossia mia moglie Manuela Cernitori, dalla quale sono separato da sette anni (o forse otto, o nove, dieci, non ricordo bene, da un po’ di tempo non ricordo bene le cose, il portinaio me lo dice sempre quando passo davanti ai suoi vetri, guardandomi in modo periferico come fossi un ectoplasma: «Lei non ricorda bene le cose, sa?»; «Davvero ― rispondo io ― se n’è accorto anche lei?»), mi telefonò per dirmelo, anche se sapeva benissimo che quel Nicola non l’avevo mai visto e che di lui, del quattro in matematica e di tutti i suoi parenti non mi importava niente; non per cattiveria, ma perché sono fatto così, non posso farci niente, non c’è niente da fare, assolutamente niente, se mi fisso su una cosa niente e nessuno può farmi cambiare idea, nemmeno mia madre, con quella voce chioccia che mi dice sempre: «Tu sei immerso fino al collo nel compiacimento di te stesso… cazzo di figlio di merda, madonna! mi stai sui coglioni da quando sei nato, avrei dovuto buttarti nel cesso, brutto bastardo schifoso!». Compiacimento? Non sono d’accordo. Non capisco mai se nelle parole di mia madre c’è pura sincerità, o voglia di provocarmi, o una leggera diffidenza nei miei confronti. Qualcuno dice che non voglio capire, ma non credo sia così. Non lo credo per niente. Una volta ho visto un film di Totò e l’ho capito tutto, dal principio alla fine, dunque stupido non posso essere, anche se non sono mai stato un afferratore, uno di quelli che tirano fuori la lingua come i camaleonti e prendono una mosca a mezzo volo.
Insomma, per farla breve, il telefono ha squillato e al terzo squillo ho attraversato tutto il salone, il corridoio, la cucina, il tinello, la camera da letto, la veranda, lo sgabuzzino, il ripostiglio, la sauna, il bagno padronale, quello di servizio, la biblioteca, l’androne, l’altro corridoio, la stanza dei bambini che non ho mai avuto, sono arrivato nello studio, ho preso la cornetta e la mia ex moglie Manuela Cernitori ha urlato: «Oh, sei tu? Ci sei?». Dio, non potevo credere alle mie orecchie.
«Cazzo di domande sono? Sì che ci sono ― ho detto, ― se no chi t’avrebbe risposto? T’ho risposto io, qui, al telefono, chi altri? Non riconosci la mia voce? Va be’, saranno pure passati sette, otto, nove, o forse dieci anni, non lo ricordo bene, da un po’ di tempo scordo le cose, lo dice anche il portinaio quando passo davanti ai suoi vetri, però sono sempre il tuo ex marito, e la voce del tuo ex marito dovresti riconoscerla, subito, immediatamente, senza esitazione. Del resto, se uno telefona a casa di un altro e l’altro risponde non può chiedergli “Oh, ci sei?”. Ma certo che c’è, t’ha risposto lui, cazzo! E per giunta è tuo marito, la voce di tuo marito, benché ex. Dovresti riconoscerla, porca di una puttana, non è mica un estraneo, uno che senti per la prima volta, l’avrai sentita mille, diecimila, l’avrai sentita un milione di volte quella voce». Il sudore mi si congelava sotto le ascelle e malgrado questo riuscivo a conservare un tono deciso che mi stupiva sempre di più, mi sconcertava nel profondo.
«Ciao, ti ricordi di Nicolino?» ha detto lei schiacciando le vocali come in una porta. Nella sua voce esitante stava esplodendo un turbine di sensazioni opposte e contraddittorie che mi faceva sentire fuori posto, ignoto a me stesso, al mio cervello, alla mia anima, nient’altro che un forestiero in terra straniera.
«Cazzo ne so io di Nicolino?» ho detto con un senso di durezza che mi saliva rapido dentro, anche se non ne ero sicuro, avrei voluto esserlo, ma non lo ero, non lo ero affatto. Era pazzesco, da un po’ di tempo mi sentivo così, e neanche il mio medico ci capiva qualcosa; i medici, tutti uguali, sono capaci soltanto di bussare a quattrini, centoquaranta a visita due volte a settimana per dodici mesi fanno tredicimilaquattrocentoquaranta, per dieci anni centotrentaquattromilaquattrocento, per tutta la vita, ammesso che campi ancora a lungo, e di questo passo non credo, viene fuori una cifra pazzesca. Avrei dovuto studiare medicina invece di fare il vetrinista, o il vetraio, o il veterinario, non ricordo bene, da un po’ di tempo scordo le cose, lo dice anche mia madre, colpa del compiacimento, dice. Sarà. Non credo.
«Come, cazzo ne so? Nicola, Nicolino, il più piccolo, quello che al matrimonio mi reggeva lo strascico e a un certo punto ha vomitato i confetti sulla guida rossa e a mio padre per poco non prendeva un infarto e mia madre per soccorrerlo è caduta e io per soccorrere lei ho messo male un piede e mi sono rotta un femore, otto mesi sulla sedia a rotelle» ha detto lei sorpresa, e forse anche un po’ delusa che non riuscissi a ricordare il giorno più bello della sua vita; non della mia, per carità, non della mia: io quel giorno lo cancellerei dal calendario, perché proprio da quel giorno sono cominciati tutti i miei guai. Non è che voglio fare la figura del santo. È proprio così.
«Strascico? Ma di che strascico parli?» ho detto stringendo tra le dita la cornetta fin quasi a fracassarla, mentre dalla finestra filtrava uno spiffero che mi solleticava le caviglie dandomi un senso di sottile benessere che non avevo mai provato prima d’allora, mai. O forse sì, ma non così forte, forte e intenso, e aguzzo, e penetrante, e avvolgente, e inebriante, e subdolo, e rigenerante, e completo.
«Ma vaffanculo! Sempre il solito stronzo! Una volta gli hai anche offerto un tè alla menta e un cappuccino con poca schiuma nel baretto sotto casa» ha detto lei. C’era un senso strano di attesa nel suo tono, un senso di non spiegato e di non richiesto, ordinario ed estraneo, gioioso e snervato e determinato e indeciso.
«Aspetta, che vado a controllare la pasta» le ho detto, e mi è salita dentro una rabbia furiosa verso di lei quando ho visto che le pennette rigate erano scotte: una pappa molle e appiccicosa da far venire il voltastomaco. Ho vomitato l’anima, poi ho rovesciato la pentola nel lavandino e sono corso di nuovo nello studio.
«Pronto, ci sei?» ho detto ansioso.
«Sì che ci sono, mi hai detto di aspettare e ho aspettato. Che dovevo fare? Riattaccare? Uno dice aspetta e io aspetto, che diamine! Questione di educazione. Se avessi riattaccato ti saresti offeso di brutto e avresti attaccato una delle tue solite tiritere, non dire di no, avresti fatto così, eccome se l’avresti fatto, Cristo, non ti conoscessi» ha detto risentita, più cupa che sollevata, più malinconica che allegra, più solenne che affabile. Poi c’è stato un attimo di silenzio e ha detto quasi balbettando: «Com’era… la pasta?». Forse ripensava al nostro passato, un passato da cui stento ancora a liberarmi. Ma prima o poi ci riuscirò. A costo di cambiare medico.
«Guarda, è meglio che lasciamo stare» ho detto io perentorio.
«Va be’, ti richiamo domani» ha detto lei smontata.
«Se potessi farne a meno sarebbe meglio» ho detto io con tono rassegnato, come se l’universo mi cadesse addosso, «molto ma molto meglio, giuro, non lo dico così, è che sono convinto, al cento per cento, mai stato tanto convinto come lo sono adesso, credimi. Domani no. Facciamo dopodomani. E comunque di matematica non ci capisco un tubo. Cioè, prima ci capivo, ci capivo parecchio, ma da quando scordo le cose è come se fossi immerso in una specie di nebulosa viscida e pastosa, mia madre lo attribuisce al mio autocompiacimento, non credo».
Manuela ha taciuto per un lungo istante, poi ha sorriso nel modo più trattenuto e incerto che avessi mai incontrato in vita mia.
mercoledì 19 agosto 2009
Gualberto Alvino. Parodiando
Allora, soltanto allora, né un secondo prima né un secondo dopo, Magg Simpson, la vecchia, cara, dolce Magg, si nettò e richiuse il coperchio. Con fare guardingo. Quasi avesse cento occhi puntati sulla schiena.
Magg. Non c’era nessuno a Pottercanyonsville che sapesse chiudere un coperchio come lei. Lo contemplava per un lungo istante tentando invano di contenere l’emozione, poi agganciava il bordo con l’unghia del mignolo inanellato, e lo abbassava.
Così.
Semplicemente.
Senza il minimo sforzo.
Come se non avesse fatto altro in vita sua.
Lo abbassava, e intanto osservava i disegni delle ceramiche, che le ricordavano la sua casa nella prateria, laggiù, nel Michigan, sulle rive dell’omonimo lago. L’aveva fatta suo padre quella casa di pietre rosse e tronchi di quercia più duri del ferro. Suo padre. Sì. Il vecchio John Jim Billie Kenneth Gordon Charles Frank Simpson, detto Al. L’aveva costruita con le sue mani grandi e callose. Giorno dopo giorno. Per tutta la vita. E non era mai riuscito a finirla. Mai. Si può finire un sogno?
«Nessuno saprebbe abbassarli con tanta grazia, ― pensava la gente ― nessuno ci riuscirebbe mai. A Pottercanyonsville e non solo. Nessuno».
Non appena sentivano il tonfo del coperchio tutti si riversavano nelle strade in preda a una profonda agitazione, correvano col cuore in gola e dicevano Magg ha abbassato il coperchio, l’ha abbassato, e dappertutto si sentiva urlare Magg ha abbassato il coperchio, finché qualcuno urlava da un bovindo Magg ha abbassato il coperchio, e così per tutte le piazze si metteva a correre la voce Magg ha abbassato il coperchio, da una piazza all’altra, giù fino alla stazione, dove si sentiva una voce gridare Magg ha abbassato il coperchio talmente forte che nella fabbrica di sifoni c’era sempre chi lo sentiva e si girava verso il vicino per sussurrare Magg ha abbassato il coperchio, cosa che velocemente finiva sulla bocca di tutti, malgrado il frastuono della fabbrica, che costringeva tutti ad alzare la voce per farsi sentire, Che dici? Magg ha abbassato il coperchio? Sì, l’ha abbassato, in un crescendo culminante nella voce che alla fine riusciva a far capire anche all’ultimo operaio quanto era accaduto, Magg l’ha abbassato, il coperchio, un boato che echeggiava altissimo nel cielo, e negli sguardi, e nelle menti, se anche a Chuckachumpauatapalka Stan il bandito scendeva dal cavallo, cadeva a terra, rotolava nella polvere, bestemmiava a denti stretti Dio e la Madonna, riprendeva il suo cappello e ― a voce bassa, come se stesse pronunciando una formula sacra ― mormorava quasi tra sé e sé:
«Magg ha abbassato il coperchio, porco demonio, l’ha abbassato».
Era arrivata a Pottercanyonsville il quattordicesimo giorno d’aprile di vent’anni prima Magg Simpson, in groppa a un’asina albina su per la mulattiera che dal cimitero portava alla chiesa maggiore. E proprio là, sul sagrato della chiesa maggiore di Pottercanyonsville, il quattordicesimo giorno d’aprile di vent’anni prima, col sole che ardeva come un’immensa lampada accesa da una mano gigante in mezzo a un cielo più blu dei suoi occhi, Magg capì che quella sarebbe stata la sua occupazione principale, per il resto della sua vita.
Quella.
Proprio quella.
Per il resto della vita.
La sua occupazione.
Principale.
Fino alla morte.
Lasciò cadere le valigie che sua sorella Molly aveva legato con nastri da cappelli, allargò le gambe, si mise le mani sulla pancia, le premette più che potette, irrigidì il diaframma blaterando qualcosa tra le labbra polpute (nessuno sapeva cosa, solo Henry, il birraio del Michigan, lo sapeva, ma non l’avrebbe detto nemmeno sotto tortura), e la fece lì. Sul sagrato della chiesa maggiore di Pottercanyonsville. Al centro esatto del sagrato. Sotto gli sguardi increduli di Greg il postino, Pete Crast il banchiere, Miss Reed la merciaia e Hunky Dunky il lattoniere.
Fu proprio lui, il vecchio Hunk a gridare per primo.
Con le lacrime agli occhi.
Perché non riusciva a crederci.
Non ci riusciva.
No.
Saltò su dalla sedia, tossì, sputò a terra e urlò: «L’ha fatta. Qui. Sul sagrato della chiesa maggiore di Pottercanyonsville. Diavolo d’una donna. S’è accucciata, e l’ha fatta, senza pensarci due volte».
Disse così, mentre cominciava a piovere. Sul mondo e su Hunky Dunky il lattoniere, che sapeva tutto di quella donna, perfino quanti capelli aveva in testa. O almeno così credeva. Tutto. Tranne il nome. Il nome no. Il nome non lo sapeva. Sapeva tutto meno il nome. Il resto sì, lo sapeva, o credeva di saperlo. Tutto. Per filo e per segno. All’infuori del nome. Quello no.
«Come si chiamerà?» chiese Hunk a Greg il postino.
Silenzio.
«Come si chiamerà?» chiese Greg il postino a Pete Crast il banchiere.
Silenzio.
«Come si chiamerà?» chiese Pete Crast il banchiere a Miss Reed la merciaia.
Silenzio.
«Come si chiamerà?» chiese Miss Reed la merciaia a Hunky Dunky il lattoniere.
«Lo domando a lei, faccio prima», rispose il vecchio Hunky sputando un grumo di tabacco che gli era rimasto incastrato fra i denti, più gialli d’una pannocchia in agosto, mentre saliva dai campi appena arati l’odore del grano.
E allora glielo chiese. Così. Nel modo più semplice e naturale possibile. La fissò nei suoi occhi blu come il cielo, cercò in ogni modo di dominare il tremore, e le chiese con voce flebile: «Di’, come ti chiami?».
«Magg. Magg Simpson. E tu?».
«Hunky Dunky mi chiamo. Faccio il lattoniere. E, mi venga un colpo, non ho mai visto una cosa simile, qui a Pottercanyonsville, e non solo».
«Ripetilo a voce alta. Che tutti sentano».
«Mai vista una cosa simile da quand’ero in fasce, parola di Hunk», e cadde in ginocchio. Aveva le palpebre più pesanti del piombo.
«Che ti succede, Hunky? Hai l’aria lontana. La puzza è arrivata fin lì?».
«Sì, perdio, ma non è questo. È che… stavo pensando fitto».
«A cosa, Hunk, non vuoi dirmelo?».
«Okay. Adesso te lo dico, Magg. Accada quel che accada. Pensavo che, perdio, mai nessuno aveva fatto una cosa simile qui sul sagrato, al centro esatto del sagrato della chiesa maggiore di Pottercanyonsville. E senza pensarci due volte».
«Lo credi davvero, o lo dici così, tanto per dire? Odio la gente che dice le cose tanto per dire. Uno potrebbe tacere. Invece apre la bocca, e parla. Decide di parlare. Di sua spontanea volontà. Senza che nessuno lo costringa. E poi che fa? parla così, solo per parlare? Ah no: se decidi di parlare senza che nessuno ti costringa, almeno dilla tutta. E per bene. Allora, dici davvero o lo dici tanto per dire? Perché se lo dici tanto per dire non andiamo per niente d’accordo. Per niente. Proprio per niente. Parola».
«Potessi cadere stecchito, Magg. Ora. Qui. Sul sagrato della chiesa maggiore di Pottercanyonsville, se quello che dico non è la verità. La pura, sacrosanta verità».
Ride e grida Hunky Dunky il lattoniere. Con le lacrime agli occhi. Mentre piove. Su di lui. Sul sagrato. Sul campanile della chiesa maggiore. Sul curato che spia dalla grata grattandosi il collo arrossato dal sudore. Su Pottercanyonsville. Sul mondo intero. Una pioggia fine, insistente, lucida e scivolosa come l’olio che suo padre Al spremeva dalle olive giganti del Michigan.
Magg ascolta.
Magg ascolta e vede tutto.
Magg non perde il benché minimo dettaglio.
Poi si pulisce con una foglia di fico, la ripone in un sacchetto che sua madre le cucì in punto di morte con le sue iniziali a trame d’oro (fu proprio su quel sacchetto che esalò il suo ultimo respiro), e si riveste con calma. Io non dimenticherò mai due cose: la sua calma, e quel modo di strabuzzare gli occhi in preda al piacere mentre cercava di farla più grossa che poteva, là, sul sagrato della chiesa maggiore di Pottercanyonsville, appoggiando i gomiti sulle ginocchia come un samurai.
Dopo un po’ si alzò, Magg.
Si alzò e prese le valigie.
Prima una.
Poi l’altra.
Con calma.
Con estrema calma.
Uno spettacolo.
Era come se la sua vita ― tutta, il presente, il passato, il futuro ― fosse racchiusa in quelle due manigliette di vacca, la vacca pezzata che lei stessa mungeva ogni mattina, laggiù, nella prateria, mentre suo padre Al spremeva le olive giganti del Michigan.
Prese le valigie sotto gli sguardi allibiti di Greg il postino, Pete Crast il banchiere, Miss Reed la merciaia e Hunky Dunky il lattoniere, a cui s’erano aggiunti nel frattempo Harold il fornaio, Maude la sarta, Thomas il becchino, Johnson il falegname, Oswald il macellaio, Didi Dodi la badessa, Jeoffrey lo sceriffo e Dustin Cravenford, giudice e sindaco di Pottercanyonsville. Anch’essi allibiti. Sì. Allibiti e ammirati. Si guardavano l’un l’altro e si chiedevano Come è possibile tutto questo? Non è possibile. Non ha senso.
E in effetti non aveva senso.
Proprio nessun senso.
Nessuno.